I never thought we would see that again. Non possiamo non concordare con David Friedman di 20 second time out, parlando dell’ultima meraviglia di Kobe Bryant.
Eppure basta! Basta giustificarci o meravigliarci! Diciamo ciò che nessuno ha detto finora, tra le parole spese sull’ultima impresa: NON CE LO MERITIAMO.
Le nottate delle Finals, i sogni bagnati degli 81 punti, l’istituzione di una nuova statistica solo mambesca “50 o più punti in 3/4”. Questo ce lo siamo guadagnato. La nostra dedizione è stata inossidabile. Ma questo 60ello, quest’ultimo immane titanico SESSANTELLO – non lo meritiamo. Ancora per l’ultima volta ci ha dato una lezione, un insegnamento: “IMPARATE COME SI ESCE DI SCENA“.
Ieri su Crampi Sportivi è uscita una celebrazione di Kobe Bryant, vi riproponiamo i brani scritti da me e da Alfredo Zucchi. Perdonate le poche parole, la confusione, ma ho i condotti lacrimali intasati.
No mercy
di Alfredo Zucchi
Nella primavera del 2004, la buona volontà e la tasca allora florida dei miei genitori risultò in un abbonamento Sky. Allora, dopo anni, tornai a giocare il basket sui campetti. Avevo appena visto una cosa.
Gara 4 delle semifinali della Western Conference, Spurs 2 – Lakers 1. Kobe Bryant arriva allo Staples Center poco prima dell’inizio, direttamente dall’aula di tribunale del Colorado dove si difendeva da un’accusa di stupro. Più avanti avrei avuto modo di vedere il suo volto in lacrime, gli occhi spenti della moglie nella conferenza stampa del Luglio 2003, di leggere l’infamia delle accuse a Shaquille ‘O Neal nella deposizione. Allora vidi solo un uomo contro tutti – solo sull’isola avrebbe detto Federico Buffa più avanti. La ricerca della difficoltà, della rarità, della perfezione – non il virtuosismo puro, ma la difficoltà coniugata a un agonismo feroce. Capii che Nietzsche non era abbastanza, dovevo studiare il Mamba.
Queste, in breve, le conclusioni di un case study condotto dall’Aprile 2004 all’Aprile 2016.
a) “Vorrei essere ricordato come un overachiever”: dedizione, sacrificio, esercizio. Il conflitto è prima di tutto con se stessi. La necessità di superarsi sempre.
b) La dimensione performativa delle cose. All’esercizio ascetico, al tentativo analitico di controllare, prevedere ogni variabile, si aggiunge una dimensione di pura improvvisazione: in campo, Kobe Bryant è una bestia. Liberato dalla tara ascetica, l’istinto è incontenibile.
c) Per misurare l’incontenibilità dell’istinto, si può usare il cosiddetto fintometro, dispositivo di misurazione ponderato su due variabili: la difficoltà del gesto tecnico/atletico e la necessità del gesto stesso nell’economia del gioco al momento della sua esecuzione (le due variabili essendo inversamente proporzionali). Non sempre il fintometro ha rilevato valori positivi – indice della gratuità del gesto. In alcuni casi, invece, è esploso, costringendo gli umili misuratori (io e Luca Mignola, sia detto in fede) a costruirne uno nuovo di zecca.
d) No mercy: il gioco è tutto, non c’è niente al di fuori del gioco.
I do what I do
di Luca Mignola
La memoria (e Google) non mi supporta con il dato biografico preciso, eppure io ricordo.
Era una di quelle partite in cui Kobe si era preso 30 tiri (o giù di lì), e che come dice Buffa era uno di quei giorni in cui la squadra non era arrivata alla sufficienza, nelle sue personalissime valutazioni e quindi nessuna facilitazione. Kobe nella conferenza stampa post-partita era teso, incazzato, innanzitutto con sé stesso – sempre prima con sé stesso, perché gli altri, i compagni di squadra, a volte erano solo un contorno (ogni riferimento a Smush Parker, non è puramente casuale). Il nervosismo era tale che Kobe rispondeva alle domande dei giornalisti con laconici sì e no. Poi, poiché il coltello va sempre girato nella piaga, gli fu chiesto se il suo malumore derivasse dalla sconfitta (cosa ovvia trattandosi del Mamba. In un video su Youtube, alla fine di gara 4 contro San Antonio nel 2002, quando chiuse la gara con un rimbalzo di sinistro e un floater di destro, da far invidia al miglior centro e al miglior ball-handler contemporaneamente, al giornalista a bordo campo che gli chiede “How you become a clucth man?” Kobe risponde, metonimicamente, “I just wanna win”. Ah santa ossessione!), dicevo del malumore e se questo potesse derivare anche dal fatto che avesse preso troppi tiri. Ora, quanti sono troppi tiri per il Mamba? 20 o 30 o 40? E quando in partite come una domenicale in cui ne sbaglia 15 di fila e poi segna quattro nell’ultima frazione di gara, portando L. A. alla vittoria, sono anche questi molti tiri? Questioni irrisorie, direi! Ma divago. Kobe si prese – e questo lo ricordo bene – qualche secondo prima di rispondere, la testa appoggiata sulla mano destra, quasi annoiato. Avendolo imparato a conoscere, avrà pensato che quella gente là dentro lo stava privando di preziosi minuti che avrebbe potuto dedicare ad allenarsi. Allora alza la testa, perché a una domanda su dieci bisogna rispondere con più di un monosillabo, e dice caustico come se fosse stato Eraclito: “I do what I do”.
Ecco il punto, l’acme: Kobe Bryant fuori dal campo o immediatamente dopo una partita. Mezcla di concisione e cazzimma, motteggiatore degno di Napoleone (per il paragone che ho sempre apprezzato chiedete pure a Flavio Tranquillo). Non ce n’è uno più sagace – non c’è per me (meglio evitare assolutismi, ma tanto ho già citato il Corso). La conoscenza del gioco, la perizia tecnica e l’ossessione per raggiungere la vetta: caratteristiche che servono ad essere d’esempio, tracciano un percorso, distinguono. Kobe fuori dal campo – Colorado a parte, sebbene poi tutto rientrato, tranne i volti lividi degli Spurs e anche di Shaq, quando di ritorno dall’aula ne metteva 40 lisci come l’olio – è più tremendo a volte che nel campo, dove a temere sono soltanto gli avversari, e quelli li ha sempre saputi gestire. Ma fuori ci sono stati Shaq e Phil Jackson, lo spettro di MJ, la rivalità con tutti quelli che di nome o cognome fanno Allen – insomma fuori c’era qualcosa di più incontrollabile di una palla di basket. E ogni volta riusciva a mordere, come quando nell’ultimo quarto della Finale di Conference 2010, dopo aver tirato l’ennesimo fade away in faccia a Grant Hill e aver dato un pacca a Alvin Gentry, che sorride perché non poteva fare diversamente, non si tirò indietro dall’essere freddo e distante, quasi dovesse continuare ad attaccare anche oltre lo scadere. “I’d have killed him” dice al giornalista di turno che gli chiede che cosa avrebbe fatto se la poca freddezza e lucidità di Vujacic avessero compromesso la partita, ossia la serie, ossia l’accesso alle Finals contro i Celtics dei Big Three (che all’epoca contavano ben due Allen nel roster). Anche in quel caso ha fatto ciò ha fatto (o che andava fatto): essere sempre presente, non lasciarsi mai andare, pensare continuamente al proprio scopo, alla propria meta.
È questo Kobe che non dimenticherò. La sua franchezza nel dire le cose come stanno – le cose, a volte non mi sembra di parlare di un giocatore di basket, ma di uno scrittore o di un pensatore. Mi sembra che le sue giocate rasentino la perfezione e la bellezza in movimento, ma che le sue parole dimostrino che al di sotto della struttura fisica, dell’allenamento, del tiro e del rumore poetico della rete, c’è una formazione diversa. Kobe ha fatto spesso leva sul fatto che fosse cresciuto in Europa cestisticamente – ossia che avesse appreso i fondamentali, in cui molti grandi americani a volte peccano (ogni riferimento a Lebron… insomma vedi Smush). E che cos’è che è fondamento della parola sagace, del motto di spirito, se non un forma mentis profonda, allenata almeno quanto il corpo a sopportare lo sforzo, la pressione – e anzi a volerne sempre di più, a non saper vivere senza (il passaggio simbolico da 8 a 24 né è testimone). L’essenza del Mamba in quella sentenza – “I do what I do” –, la recisione quasi delle emozioni, il pungolo di dover puntare sempre in alto anche nelle dichiarazioni e a non smentirle (non che ci sia riuscito sempre, Vujacic testimone). È questa capacità di sintesi e di distacco ciò che non potrò mai togliermi dalla testa (insieme allo step back contro Allen Ray nelle finali 2010) e che è diventata la mia ossessione. E la sua diretta e personalissima eredità.