Viveva un tempo nella città di Lopezia un artefice di grandissimo ingegno, donde la fama oltre le mura della città ed i confini medesimi del Principato volava tanto, che nei più remoti angoli della Cristianità l’eco se ne coglieva. E benché questo si fosse in effetto il mestier suo, grave ingiuria gli si farebbe chiamandolo col nome di falegname; poiché si era bensì col legno che le sue mani costruivano, ma tali e così fatti prodigi da quelle mani uscivano, che nessuno nel legno da umana scienza costrutti crederli non poteva: seggiole, a modo d’esempio, le quali, al semplice muover d’un gancio che recavan nel dorso celato, si trasformavano in tavoli; tavoli, cui pel banchetto due dozzine di commensali facevan corona e che di poi, gli ospiti alle loro dimore tornatisi, si potevan ripiegare e rimpicciolire tanto da trovar albergo in un cassetto; cassetti che, tratti dalle lor sedi e l’un coll’altro congiunti, diventavan bauli; bauli entro i quali, quantunque non maggior di quel d’una seggiola il loro ingombro si fosse, suppellettili e arredi di tutta una sala collocar si potevano. Ma, sopra tutto, sapeva colui costruire macchine meravigliose e inaudite, macchine che, a comando, potevano muoversi, altre che mandavano fumo, altre che producevan rumori come di cavalli al galoppo, altre ancora che facevano apparir sul soffitto tutto il cielo stellato. E a cagione di questa virtù di nasconder prodigi nel legno e di destar nelle genti e stupore e paura, era dalle genti quasi per un mago tenuto. Né di cotanti poteri faceva egli men che onestissimo uso, avendo dell’arte sua rispetto e soggezione grandissimi; ma, siccome ogni artefice che dell’arte vivere debba, un poco della magia donde aveva avuto dal Creatore talento, a chi avesse denari per comprarla e per farsene vanto, cautamente vendeva. Onde dalle quattro parti del mondo principi e signori, i quali sanno dei meno usati poteri assai meglio d’ogn’altro mortale giovarsi, seco continuatamente lo chiamavano per farsi apprestare da lui quei portenti che, nelle più splendide feste, ancor più meraviglioso splendore pei palazzi e le regge ed i giardini spargevano. E di questo commercio, pur senza ricchezza, egli agiatamente viveva.
Era, inoltre, uomo di bellissimo aspetto, i chiari occhi fiammeggianti d’ingegno, una gran barba dorata, e così alto, forte e imponente nella persona che, essendosi Orlando il suo nome, era da tutti Mastro Landone chiamato. Né v’era alcuno in Lopezia che, al passar che Mastro Landone faceva per via, lo sguardo verso di lui non levasse, poiché guizzavan dalle sue pupille ed una luce ed un’ombra che l’altrui pupille subitamente catturavano.
Sembrava egli dunque eletto da Iddio medesimo fra le sue creature per esser l’una delle massimamente felici, e per felicissimo era in effetto dai lopeziani tutti tenuto. Poiché, essendosi l’ingegno, fra le rare gemme, la rarissima, assai pochi hanno virtù di figurarsi che cosa veramente si sia. Tolti costoro, restano i molti e i moltissimi, i quali tutti, vedendo quella gemma della sua vivida luce risplendere che a loro data non fu, sì grande invidia e desiderio ne sentono da giudicar felice colui che, avendola, di desiderarla non ha cura nessuna. Or possedeva bensì Mastro Landone la gemma dell’ingegno, ma d’altre gemme aveva egli stesso desiderio che difficilmente posseder poteva, talché, non diversamente da color che pel suo ingegno invidia gli portavano, ed anzi assai più addentro di quelli, era per l’uscio del desiderio nel tempio dell’infelicità sovente penetrato.
Avevan le gemme che i desiderii di Mastro Landone accendevano di fanciulli e di giovinetti le graziose sembianze, donde la vista gli altri suoi sensi tutti insieme subitamente infiammava. E per certo ad estinguere il fuoco di Mastro Landone avrebbe abbondantissima acqua la natura provvista, la quale facilmente verso gli uomini ai fanciulli inclinati i fanciulli medesimi inclina. Ma s’era in quel tempo, contro la natura magnanima, una crudele legge nel Principato di Lopezia levata, che l’acqua pel fuoco di Mastro Landone faceva mancare. Poiché puniva essa legge il peccato di sodomia con castighi così vergognosi e terribili ch’al paragone la morte parrebbe un premio a ciascuno. Onde chi nell’animo suo quei pensieri ad agitar si scopriva, faceva primo che fuor dell’animo per le vie del corpo in nessun modo non pigliassero ad andare, secondo che dentro l’animo medesimo l’agitazion loro si placasse. E cercata altra fonte ch’in luogo della proibita alla lor sete s’offrisse, e trovatala, e le labbra rinfrescatevi alquanto, facevan terzo di persuader, non che gli altri, sé stessi che quella appunto, e non altra, si fosse la fonte del piacer loro. Sì che la più parte crescevano e incanutivano e venivano a morte senza aver mai della vera fonte del piacer loro l’acqua gustata, se non nei sogni donde il Signore Iddio, più indulgente assai degli uomini che le volontà d’interpretarne si credono, alcuna notte li confortava. Godeva anzi Mastro Landone fra tutti costoro della miglior fortuna, poiché la fama dell’arte sua gli aveva offerta fin dai giovanili anni la potestà di viaggiare: e viaggiando aveva egli potuto, lontano dal Principato, coglier di quei fiori che nei giardini di Lopezia a sbocciar non riuscivano.
Al tempo in cui la novella nostra piglia principio, era Mastro Landone da oltre due mesi in patria purtroppo prigioniero, poiché lo aveva il Principe Tancredi IV, tiranno crudelissimo e splendido signore, d’apprestar congegni e macchinari comandato, a sbalordir le genti e a suscitar l’ammirazione e l’invidia loro apertamente costrutti. Voleva in effetto il superbo Tancredi, essendo il ventesimo anno del suo regno prossimo a compirsi, questa occorrenza con degni festeggiamenti celebrare, onde aveva nel suo magnifico palazzo tutti i restanti principi invitati per una settimana di banchetti e balli e spettacoli d’ogni ricchezza e grazia e meraviglia adorni. Cadeva la principesca solennità cinque dì avanti l’equinozio d’autunno e ancor quello di primavera, l’inverno di giorno in giorno addolcendosi, lietamente a Lopezia si attendeva; e da gennaio trascorreva Mastro Landone la metà del suo tempo a palazzo, dove i portenti che la notte inventava calava di giorno nella luce e nel legno. Né aveva speranza di condur l’opera sua a compimento prima d’agosto inoltrato né, prima d’allora, di poter pur per un giorno da Lopezia assentarsi. Lavorava la mattina a bottega, per provvedere alle cose ordinarie, e se n’andava tosto dopo desinare a palazzo e qui ogni sera il tramonto a mezzo dell’opera lo coglieva. Restava per tutte quell’ore la bottega al suo garzone affidata, il quale nelle minute cose di falegnameria da molti anni lo soccorreva, ma più ancora nel vendere i pezzi compiuti, e nel trattar cogli avventori ed i clienti, e nell’accoglierne o declinarne le commissioni. Era dunque colui per Mastro Landone il più preziosissimo aiuto ed in tutta Lopezia il più necessarissimo uom che vi fosse, ed egli con grande generosità lo pagava, ed essendosi il suo garzone di lui alquanto più vecchio, somma affezione e rispetto gli portava. Sì che, quando ammalò, parve a Mastro Landone ch’una parte di sé medesimo ammalasse, e quando purtroppo morì, pianse Mastro Landone amaramente la sua morte e, muovendosi smarrito per la bottega, gli chiedeva perdono, ché non poteva lasciar che la bottega morisse con lui, come certo morta sarebbe s’un altro buon garzone Iddio non gli avesse tosto mandato.
E tosto glielo mandò. […]
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Ringraziamo l’autore per la gentile concessione.