di Virginia Woolf
Ecco com’è nato tutto. Un giorno, dopo il tè sei o sette di noi erano sedute a tavola. Qualcuna guardava fisso in strada le vetrine della modisteria di fronte dove la luce splendeva ancora su piume scarlatte e pantofole dorate. Qualche altra era pigramente intenta a costruire torrette di zucchero sul bordo del vassoio da tè. Dopo poco, per quanto ricordi, ci disponemmo attorno al camino e iniziammo come di consueto a lodare gli uomini: com’erano forti, nobili, intelligenti, coraggiosi e belli; e quanto invidiavamo quelle donne che, nel bene o nel male, riuscivano a tenersene stretto uno per tutta la vita! A quel punto Poll, che non si era pronunciata, scoppiò in lacrime. Poll, devo dire, è sempre stata strana. Tanto per cominciare, suo padre era un tipo stravagante; le aveva lasciato una fortuna in eredità, ma a patto che leggesse tutti i libri della Biblioteca di Londra. Cercammo di consolarla come meglio potevamo; ma nei nostri cuori, sapevamo che era una cosa inutile. Perché sebbene a noi piaccia, Poll non è certo una bellezza; porta le scarpe slacciate; e mentre elogiavamo la condizione maschile, deve aver pensato che nessun uomo avrebbe mai desiderato prenderla in moglie. Finalmente si asciugò le lacrime. Per un po’ non capimmo nulla di cosa dicesse; in coscienza era proprio singolare. Ci disse, così come sapevamo, che trascorreva gran parte del suo tempo a leggere nella Biblioteca di Londra. Aveva iniziato, disse, dal piano superiore con la letteratura inglese; e si adoperava con metodo per passare alle copie del Times, al piano inferiore. Ma a metà, forse un quarto del percorso le era successa una cosa tremenda. Non riusciva più a leggere. I libri non erano come ce li immaginavamo.
«I libri» urlò, si mise in piedi e parlò con un’aria seria di sconforto che non dimenticherò mai, «per lo più, sono indescrivibilmente scadenti!».
A gran voce dicemmo che senza dubbio Shakespeare, Milton e Shelley avevano scritto libri.
«Ah! Sì,» ci interruppe. «Noto che siete state ben istruite, ma voi non siete socie della Biblioteca di Londra». A quel punto i suoi singhiozzi esplosero nuovamente. Alla fine si calmò un pochino, e aprì uno dei libri dalla pila che portava sempre con sé: intitolati From a Window o In a Garden, o qualcosa di analogo, scritto da un uomo chiamato Benton o Henson, o roba del genere. Lesse le pagine iniziali. Noi la ascoltammo in silenzio. «Ma questo non è un libro», disse qualcuna. Allora ne scelse un altro. Questa volta si trattava di un libro di storia ma non ricordo il nome dell’autore. La nostra ansia crebbe mentre continuava a leggere. Non c’era una parola che sembrasse autentica, e la forma in cui era scritto pessima.
«Poesia! Poesia!» urlammo con impazienza. «Leggici della poesia!».
Non riesco a descrivere lo scoramento che ci colse quando aprì un volumetto e recitò le sciocchezze sentimentali e verbose che conteneva.
«Deve averlo scritto una donna» una del gruppo insistette. Invece no. Ci disse che era stato scritto da un giovane uomo, uno dei più famosi poeti del tempo. Vi lascio immaginare quanto fu scioccante la scoperta. Sebbene urlassimo e la pregassimo di smettere di leggere, lei si ostinò e ci lesse degli estratti da The Lives of Lord Chancellors[1]. Quando ebbe finito, Jane, la più anziana, e la più saggia di tutte, si alzò in piedi e disse che una volta tanto non ne era persuasa.
«Perché» chiese «se gli uomini scrivono robaccia del genere, le nostre madri avrebbero dovuto sciupare la loro giovinezza per metterli al mondo?».
Tacemmo tutte; e nel silenzio, sentimmo la povera Poll dire singhiozzando: «Perché, perché mio padre mi ha insegnato a leggere?».
Clorinda fu la prima a rinsavire. «È tutta colpa nostra», disse. «Ognuna di noi sa leggere. Eppure nessuna, eccetto Poll, si è mai presa la briga di farlo. Quanto a me, ho dato per scontato che fosse dovere di una donna trascorrere la giovinezza a fare figli. Ho venerato mia madre per averne fatti dieci; ancora di più mia nonna che ne ha fatti quindici; lo confesso, la mia ambizione era di farne venti. Siamo andate avanti per tutti questi anni pensando che gli uomini si dessero altrettanto da fare, che, laddove noi partorivamo bambini, loro davano vita a libri e dipinti. Abbiamo ipotizzato se noi abbiamo partorito bambini, loro hanno prodotto libri e dipinti. Noi popolavamo il mondo. Loro lo stavano civilizzando. Ma adesso che sappiamo leggere, cosa ci impedisce di giudicare il risultato? Prima di mettere al mondo un solo altro bambino dobbiamo giurare che scopriremo come è fatto il mondo».
Così costituimmo un’associazione per dare seguito alle analisi. Una di noi avrebbe visitato una nave da guerra; un’altra si sarebbe nascosta nello studio di un letterato; un’altra ancora avrebbe partecipato a una riunione tra uomini d’affari; mentre tutte dovevamo leggere, esaminare dipinti, frequentare concerti, tenere gli occhi aperti per strada, e continuare a fare domande. Eravamo molto giovani. Si può valutare la nostra ingenuità dal fatto che quella sera, prima di separarci, stabilimmo come gli obiettivi della vita erano formare ottime persone e pubblicare buoni libri. I nostri quesiti dovevano concentrarsi sull’indagare fino a che punto gli uomini avessero attualmente raggiunto quegli obiettivi. Ci promettemmo solennemente che non avremmo fatto un solo figlio finché non fossimo state soddisfatte.
E allora via! Chi al British Museum, chi alla Marina Militare Britannica; alcune a Oxford; altre a Cambridge; visitammo la Royal Academy e la Tate; ascoltammo musica moderna in sale da ballo, andammo alla Corte di Giustizia e ad assistere a rappresentazioni teatrali. Nessuna di noi pranzava più fuori di casa, senza che la conversazione comprendesse domande specifiche agli accompagnatori e l’annotazione delle risposte. Ci incontravamo a intervalli regolari per confrontare le nostre osservazioni. Be’, furono belle riunioni! Non ho mai riso così tanto come quando Rose lesse i suoi appunti sull’“Onore”, illustrandoci come vestita da principe etiope, fosse partita per l’estero con una delle navi di sua Maestà[2]. Scoperta la burla, il Capitano andò a farle visita (Rose era intanto abbigliata in abiti borghesi, ma maschili) e le chiese di lavare l’onta. «Ma in che modo?» chiese Rose.
«In che modo?» urlò lui. «A suon di scudiscio ovviamente!».
Dato che era fuori di sé dalla rabbia e prevedendo che fosse giunta la sua ora, lei si chinò e, con suo grande stupore, ricevette solo sei colpetti leggeri sul sedere.
«L’onore della Marina Militare Britannica è vendicato!» gridò, e lei, rimettendosi in posizione eretta, lo vide, con il volto imperlato di sudore, porgerle la mano destra tremante.
«State indietro!» esclamò lei, dandosi un tono e imitando la ferocia dell’espressione di lui, «Il mio onore deve essere ancora soddisfatto!».
«Questo è parlare da gentiluomini», ribatté lui, e piombò in un profondo cogitare.
«Se sei scudisciate vendicano l’onore della Marina Militare Britannica» rifletté «quante ne occorrono per vendicare l’onore di un privato gentiluomo?».
Disse che avrebbe preferito sottoporre il quesito ai colleghi ufficiali. Lei rispose in maniera arrogante che non poteva aspettare. E il capitano encomiò il suo farsi valere.
«Lasciatemi pensare» esclamò improvvisamente, «vostro padre aveva una carrozza?».
«No» rispose lei.
«O un cavallo da sella?».
«Avevamo un asino» ricordò lei «che trainava una falciatrice».
Alla risposta gli si illuminò il volto.
«Mia madre si chiama…» aggiunse lei.
«Per amor di Dio, signore, non accennate al nome di vostra madre!» strillò lui, tremando come un pioppo al vento e rosso fino alla punta dei capelli, e passarono come minimo dieci minuti prima che lei potesse indurlo a proseguire.
Alla fine decretò che se gli avesse dato quattro colpi e mezzo sulle reni in un punto da lui stesso indicato (il mezzo colpo gli era concesso, disse, in riconoscimento del fatto che lo zio della bisnonna fu ucciso a Trafalgar) era del parere che l’onore di Rose sarebbe tornato come nuovo. Così fu fatto; dopo andarono al ristorante; bevvero due bottiglie di vino che lui insistette per pagare; e si separarono con solenni affermazioni di amicizia eterna.
Poi ci fu il resoconto della visita di Fanny alla Corte di Giustizia. Alla sua prima visita era giunta alla conclusione che i Giudici fossero legnosi o interpretati da grandi bestie simili a esseri umani ammaestrati a muoversi con estrema austerità, a mugugnare e a fare cenni col capo. Per testare la sua teoria aveva liberato dei mosconi azzurri da un fazzoletto nel momento cruciale di un processo, ma non era stata in grado di giudicare se le creature avessero dato segni di umanità, perché il ronzio delle mosche le aveva cagionato un sonno così profondo che si era ridestata giusto in tempo per vedere i prigionieri ricondotti nelle celle sottostanti. Tuttavia dalle prove che addusse, ritenemmo non corretto credere i Giudici umani. Helen era andata alla Royal Academy, ma quando le chiedemmo di consegnare la sua relazione sui dipinti iniziò a declamare poesie da un volume con la copertina azzurra.
«Oh! Per il tocco della tua mano che scompare e il suono della tua voce che permane27[3]. Il cacciatore è giunto a casa, a casa dalla collina[4]; diede una scossa alle briglie29[5]. L’amore è dolce, l’amore è breve [6]. Primavera, dolce primavera, dell’anno graziosa regina[7]. Oh! Poter essere in Inghilterra adesso che è aprile[8]. Gli uomini al lavoro e le donne al pianto[9]. Il sentiero del dovere alla gloria conduce34…».Non potevamo ascoltare più quel gergo incomprensibile.
«Non vogliamo altra poesia!» urlammo.
«Figlie dell’Inghilterra» cominciò, ma a quel punto la spingemmo, e nella zuffa un vaso pieno di acqua le si rovesciò addosso. « Grazie a Dio!» disse scuotendosi come un cane. «Adesso rotolo sul tappeto e vediamo se riesco a scrollarmi di dosso quel che resta del vessillo nazionale britannico. Dopo forse…» al che fece una capriola. Mentre si alzava e iniziava a spiegarci come sono i dipinti moderni, Castalia la interruppe.
«Qual è la misura media di un dipinto?» chiese.
«Forse due piedi per due piedi e mezzo[10] », rispose l’altra.
Castalia prendeva nota mentre Helen parlava, e quando ebbe finito, e noi cercavamo di non incrociare il nostro sguardo, si alzò in piedi e disse:
«Per vostro desiderio ho passato la scorsa settimana a Oxbridge[11] , travestita da donna delle pulizie. Perciò ho avuto accesso alle stanze di alcuni professori e adesso proverò a darvene un’idea … solo che», s’interruppe «non riesco a immaginare come farlo. È tutto così strano. Questi professori» proseguì «vivono in grandi case costruite attorno a tratti di terreno erboso, ognuno in una sorta di cella singola. Tuttavia godono di ogni tipo di comodità. Basta solo premere un pulsante o accendere una piccola lampada. I documenti sono tutti sistemati e archiviati in modo eccellente. I libri abbondano. Non ci sono né bambini né animali, eccetto una mezza dozzina di gatti randagi e un vecchio ciuffolotto maggiore – un maschio. Mi ricordava», s’interruppe «una zia che viveva a Dulwich e si circondava di cactus. La veranda si raggiungeva dal doppio salotto, e lì, sulle condutture dell’acqua calda ce n’erano a dozzine; piantine brutte, tozze, piene di spine, tutte in vasi separati. L’aloe fiorisce ogni cento anni, così diceva mia zia. Ma è morta prima che accadesse …»
Le dicemmo di andare al punto.
«Be’», riprese, «quando il professor Hobkin non c’era, ho esaminato la sua opera più importante, una pubblicazione di Saffo. Un libro dall’aspetto bizzarro, spesso sei o sette pollici[12], non interamente di Saffo. No, no. In sostanza una difesa della castità di Saffo, che chissà quale tedesco aveva negato, e vi posso garantire con quanta passione i due gentiluomini argomentassero, il sapere che mettevano in mostra, l’enorme ingenuità con cui contestavano l’uso di un qualche strumento, che ai miei occhi sembrava proprio una forcina per capelli, mi ha sbalordito; soprattutto quando si è aperta la porta ed è apparso il professor Hobkin in persona. Un anziano gentiluomo, mite e simpatico, ma cosa poteva saperne lui di castità?».
Equivocammo tutte.
«No, no» intervenne lei. «Sono certa che sia un perfetto esempio di virtù – non somigliava affatto al capitano di marina di Rose. Pensavo piuttosto ai cactus di mia zia. Cosa potevano saperne loro di castità?». Le suggerimmo ancora una volta di non allontanarsi dal punto: i professori di Oxbrige aiutano a generare ottime persone e pubblicare buoni libri? Gli obiettivi della vita.
«Ebbene», esclamò «non ci ho pensato a chiederlo. Non mi è mai passato per la mente che possano generare o pubblicare alcunché».
«Credo» disse Sue, «che tu ti sia sbagliata. Forse il professor Hobkin era un ginecologo. Uno studioso è altro genere di uomo. Uno studioso trabocca di umorismo e inventiva – forse schiavo del vino, ma che importa? – è un compagno squisito, generoso, raffinato, pieno di immaginazione, è ovvio. Perché passa la vita con i migliori esseri umani che siano mai esistiti».
«Ehm!» disse Castalia. «Forse farei bene a ritornarci e a riprovare».
Fu così che tre mesi dopo, mentre sedevo da sola, entrò Castalia. Non so cosa del suo aspetto mi commosse tanto; ma non potei trattenermi, le corsi incontro e la strinsi tra le braccia. Non era soltanto bella; sembrava anche felicissima.«Hai un’aria felice!» esclamai mentre si sedeva.
«Sono stata a Oxbridge», disse.
«A fare domande?».
«A dare risposte!» Replicò.
«Non hai infranto il giuramento?», dissi ansiosa, e notai qualcosa nella sua figura.
«Oh! Il giuramento,» disse noncurante. «Avrò un bambino, se è quello che intendevi. Non puoi sapere» non si trattenne «quanto sia emozionante, bello, soddisfacente…».
«Cosa?»
«Rispondere… rispondere alle domande» ribatté un po’ confusa. Al che mi raccontò tutta la storia. Ma nel mezzo di un racconto che mi interessava e emozionava più di qualunque altra storia avessi mai sentito, cacciò un urlo sconosciuto, metà strillo, metà ruggito.
«La castità! La castità! Dov’è la mia castità?» gridò. «Aiuto, aiuto! Passami i sali!».
Non c’era niente nella stanza eccetto un’ampolla di mostarda, che stavo per somministrarle quando si ricompose.
«Avresti dovuto pensarci tre mesi fa,» dissi con durezza.
«È vero», rispose «Non c’è granché da pensarci adesso. Sfortunata coincidenza, a proposito, che mia madre mi abbia chiamato Castalia».
«Oh! Castalia, tua madre…» stavo iniziando, quando ricorse al vasetto di senape.
«No, no, no», disse, scuotendo la testa. «Se tu fossi stata una donna casta, alla mia vista avresti strillato – e invece ti sei precipitata per la stanza e mi hai preso tra le braccia. No. Non siamo caste, né io, né tu, Cassandra ». Così continuammo a parlare.
Nel frattempo la stanza si riempì, perché era il giorno fissato per dibattere i risultati delle nostre indagini. Ognuna, constatai, reagì al mio stesso modo nei riguardi di Castalia. La baciarono e le dissero quanto fossero felici di rivederla. Alla fine, quando eravamo tutte radunate, Jane si alzò in piedi e disse che era tempo di iniziare. Partì col dire che avevamo posto domande per più di cinque anni, e sebbene i risultati non fossero destinati a portare a una conclusione … a quel punto Castalia mi urtò con il gomito e mormorò di non esserne così tanto sicura; poi si alzò, interruppe Jane nel mezzo di una frase, e disse:
«Prima che tu aggiunga qualcos’altro, voglio sapere: posso rimanere nella stanza? Perché», aggiunse «devo confidarvi che sono una donna impura».
Tutte la guardarono attonite.
«Aspetti un bambino?» chiese Jane.
Annuì con la testa.
Fu straordinario vedere le diverse espressioni sui loro volti. Nella stanza si alzò una specie di mormorio, in cui riuscì a cogliere le parole “impura”, “bambino”, “Castalia”, e così via.
Jane, che era lei stessa visibilmente scossa, sottopose a noi la domanda:
«Deve andare via? È impura?».
Nella stanza il baccano fu tale da poter essere stato sentito fuori in strada. «No! No! No! Fatela rimanere! Impura? Che stupidaggine!» Tuttavia mi accorsi che alcune tra le più giovani, ragazze di diciannove o vent’anni, si trattennero come se fossero sopraffatte dalla timidezza. Poi la avvicinammo tutte e iniziammo a farle domande, e alla fine vidi una delle più giovani, che si era tenuta in disparte, avvicinarla con soggezione e dirle:
«Cos’è dunque la castità? Voglio dire, è cosa buona o cattiva, o nessuna delle due?».
Lei rispose a voce così bassa che non riuscii a cogliere le parole.
«Ehm! Sono rimasta scioccata» disse un’altra, «per almeno una decina di minuti».
«Secondo me» disse Poll, che stava diventando burbera per la lettura senza sosta alla Biblioteca di Londra, «la castità non è altro che ignoranza – il più disdicevole stato della coscienza. Dovremmo riconoscere soltanto le donne impure nella nostra associazione. La mia proposta è che Castalia diventi la nostra Presidentessa».
La cosa fu discussa con veemenza.
«È ingiusto attribuire alle donne lo stigma della purezza quanto quello della non purezza,» disse Poll. «Alcune di noi non hanno avuto l’opportunità di scegliere. Inoltre, non credo che Cassy stessa possa affermare di aver agito in quel modo per puro amore del sapere».
«Ha solo ventuno anni ed è divinamente bello!» disse Cassy, con un movimento ammaliante.
«La mia proposta è che» affermò Helen, «nessuna di noi sia autorizzata a parlare di castità o dissolutezza eccetto coloro che sono innamorate».
«Oh, accidenti!» disse Judith, che aveva condotto indagini su questioni scientifiche. «Non sono innamorata e muoio dalla voglia di spiegare le mie proposizioni per fare a meno delle prostitute e fecondare le vergini secondo un Atto del Parlamento».
Proseguì illustrandoci una sua invenzione che sarebbe stata posizionata nelle stazioni della metropolitana e in altri luoghi pubblici e che dietro il pagamento di una piccola tassa avrebbe salvaguardato la salute della nazione, favorito i suoi figli e soccorso le sue figlie. Aveva anche escogitato un metodo per proteggere il seme di futuri ministri o «poeti, pittori e musicisti» in provette sigillate, continuò, «supponendo, va detto, che queste specie non siano estinte, e che le donne desiderino ancora avere figli…».
«Certo che vogliamo avere figli!» gridò Castalia impaziente. Jane batté un pugno sul tavolo.
«Siamo qui riunite per considerare quest’aspetto,» disse. «Per cinque anni abbiamo cercato di scoprire se siamo giustificate a perpetuare la specie umana. Castalia ha anticipato la nostra decisione. Ma spetta a noialtre chiarirci le idee».
Ecco che le relatrici, una dopo l’altra, si alzarono e presentarono il loro rapporto. Le meraviglie della civiltà superarono notevolmente le nostre aspettative, e, nel recepire per la prima volta come faccia l’uomo a volare in cielo, a parlare a distanza, a penetrare il cuore di un atomo e abbracciare l’universo con le sue speculazioni, dalle nostre bocche si levò un mormorio di apprezzamento.
«Siamo fiere», esclamammo, «che le nostre madri abbiano sacrificato la loro giovinezza per una siffatta causa!». Castalia, che aveva ascoltato intenta, sembrava la più fiera di tutte. A quel punto Jane ci ricordò che avevamo ancora molto da imparare e Castalia ci implorò di affrettarci. Proseguimmo con un ampio groviglio di statistiche. Imparammo che l’Inghilterra è popolata da milioni di abitanti, e che una certa percentuale di essi è sempre affamata o in prigione; che la composizione media della famiglia di un lavoratore è tale, e che una grande percentuale di donne muore di malattie inerenti al parto. Vennero lette le relazioni delle visite fatte in fabbriche, negozi, quartieri poveri e cantieri navali e fornite le descrizioni della Borsa, di una grande compagnia della City e di un ufficio statale. Furono approfondite anche le notizie sulle colonie britanniche; e si fece un resoconto del nostro governo in India, Africa e Irlanda. Ero seduta accanto a Castalia e notai la sua inquietudine.
«Se andiamo di questo passo non giungeremo mai a una conclusione» disse «a quanto pare la civiltà è molto più complessa di qualunque idea avessimo, non sarebbe meglio limitarci all’indagine originale? Eravamo d’accordo che generare ottime persone e pubblicare bei libri fosse lo scopo della vita. In tutto questo tempo abbiamo parlato di aeroplani, fabbriche e soldi. Parliamo degli uomini in quanto tali e delle loro capacità, visto che è il nocciolo della questione.»
Così le partecipanti fecero un passo avanti con foglietti di carta che contenevano le loro domande, che erano state individuate dopo un’attenta riflessione. Un brav’uomo, avevamo concordato, deve essere, ad ogni modo, onesto, appassionato e autentico. Ma se un uomo in particolare possedesse o meno queste caratteristiche, poteva essere scoperto solamente facendo domande, spesso cominciando il discorso da lontano. Kensington è un bel posto per viverci? Dove ha studiato vostro figlio – e vostra figlia? Ditemi, quanto costano i vostri sigari? A proposito, Sir Joseph è un baronetto o solo un cavaliere?
Spesso sembrava che imparassimo maggiormente da domande elementari di questo genere che da quelle dirette. «Ho accettato il titolo di pari», disse Lord Bunkum, «perché lo desiderava mia moglie». Non ricordo quanti titoli siano stati accolti per la stessa ragione. «Lavorare quindici ore su ventiquattro, come faccio –» così esordivano diecimila professionisti.
«No, no, ovviamente non potrete né leggere né scrivere. Ma perché lavorate così duramente?» «Mia cara signora, con una famiglia in aumento … Ma perché la vostra famiglia continua ad aumentare?»
Anche in questo caso lo desideravano le mogli, o forse l’Impero Britannico. Ma più significativi delle risposte erano i rifiuti a fornirle. Alcuni non rispondevano affatto alle domande su moralità e religione, e laddove fornite, quelle risposte restavano battute di spirito. Domande riguardo al valore dei soldi e del potere erano ignorate quasi sempre, o mettevano in grave pericolo chi le formulava. «Sono certa» disse Jill, «che se il Signor Harley Tightboots non stesse affettando la carne di montone quando gli ho chiesto del sistema capitalistico, mi avrebbe tagliato la gola. La sola ragione per cui ne usciamo sempre sane e salve è che gli uomini hanno sempre fame e al contempo sono cavallereschi. Ci disprezzano troppo per badare a quello che diciamo».
«Certo che ci disprezzano» disse Eleanor «ciononostante come vi spiegate … ho fatto ricerche tra gli artisti. Allora, nessuna donna è mai stata un’artista, non è vero, Poll?».
«Jane – Austen! – Charlotte – Brontë! – George – Eliot!» gridò Poll, come un venditore di muffin in fondo alla strada.
«Al diavolo la donna!» esclamò qualcuna. «Che noia d’una donna!».
«Da Saffo in poi non ci sono state artiste di livello» disse Eleanor citando direttamente da un settimanale. «È ormai risaputo adesso che Saffo fosse più che altro l’invenzione libidinosa del Professor Hobkin» troncò Ruth.
«Comunque, non c’è ragione di credere che una donna sia mai stata capace o sarà mai capace di scrivere» continuò Eleanor. «eppure, quando sono in mezzo agli autori, non smettono mai di parlarmi dei loro libri. Eccellente! dico, o: Sembra Shakespeare! (perché qualcosa si dovrà pur dire) e vi garantisco, mi credono». «Questo non dimostra nulla» disse Jane. «Fanno tutti così.» sospirò, «Sembra però che per noi non sia d’alcun aiuto. Faremo meglio a esaminare la letteratura moderna in un secondo momento. Liz, tocca a te». Elizabeth si mise in piedi e disse che per portare avanti la sua indagine si era vestita da uomo ed era stata scambiata per un critico letterario.
«Ho letto con discreta costanza le novità letterarie negli ultimi cinque anni » disse. «Il Signor Wells è il più famoso scrittore vivente; dopo viene il Sig. Arnold Bennett; poi il Sig. Compton Mackenzie; i Signori McKenna e Walpole possono essere considerati alla stessa stregua».
Si accomodò.
«Ma non ci hai detto nulla!» protestammo. «O vuoi dire che questi gentiluomini hanno notevolmente superato Jane Austen e George Eliot e che i romanzi e i racconti inglesi sono – dov’è finita la tua recensione? Oh, sì, ‘saldamente nelle loro mani’.»
«Sì, abbastanza saldamente», disse, appoggiandosi precaria prima su un piede poi sull’altro. «E sono certa che sperperino ancor più di quanto ricevano».
Ne eravamo tutte certe. «Ma» insistemmo, «scrivono bei libri?»
«Bei libri?» disse, guardando il soffitto. «Dovete ricordare» iniziò, parlando velocissima, «che i romanzi e i racconti sono lo specchio della vita. E non potete negare che l’istruzione sia di massima importanza, e che sarebbe estremamente seccante, se ci si trovasse sole a Brighton di sera tardi, senza sapere quale sia la migliore sistemazione in cui alloggiare, e si ponesse il caso che fosse una domenica sera di pioggia – non sarebbe bello andare al cinematografo?».
«Ma cosa c’entra questo?», chiedemmo.
«Niente, niente, non c’entra proprio niente », rispose.
«Allora dicci la verità», la esortammo.
«La verità? Ma non è meraviglioso,» s’interruppe … «che negli ultimi trent’anni, il signor Chitter abbia scritto un articolo settimanale sull’amore o sul pane caldo imburrato e abbia mandato tutti i suoi figli a Eton … ».
«La verità!» insistemmo nel chiedere.
«Oh! La verità», balbettò, «la verità non ha niente a che vedere con la letteratura», e messasi seduta, si rifiutò di dire una sola parola.
Ci parve tutto molto inutile.
«Signore, dobbiamo provare a riepilogare i risultati», esordì Jane, quando un brusio di voci, entrato per qualche momento dalla finestra aperta, coprì la sua voce.
«Guerra! Guerra! Guerra! Dichiarazione di guerra!», gridavano degli uomini nella strada di sotto.
Ci guardammo indignate.
«Quale guerra?» gridammo. «Quale guerra?» Ricordammo, troppo tardi, di non aver mai pensato di mandare nessuno alla Camera dei Comuni. Lo avevamo dimenticato tutte. Ci rivolgemmo a Poll, che aveva raggiunto i ripiani di Storia della Biblioteca di Londra, e le chiedemmo di darci spiegazioni.
«Perché» gridammo, «gli uomini entrano in guerra?»
«Qualche volta per una ragione, qualche volta per un’altra,» replicò serafica. «Nel 1760, ad esempio…»
Le urla fuori coprirono le sue parole.
«Di nuovo nel 1797 – nel 1804 – furono gli Austriaci nel 1866 – nel 1870 i Franco-Prussiani – Nel 1900 d’altro canto …».
«Ma siamo nel 1914 adesso!», la interrompemmo bruscamente.
«Ah! Adesso non so perché entrino in guerra,» confessò.
***
La Guerra era finita e la pace in procinto di essere siglata, quando mi ritrovai ancora una volta con Castalia nella stanza dove di solito si erano svolti i nostri incontri. Iniziammo a voltare le pagine dei registri dei nostri vecchi verbali.
«Strano,» dissi fra me e me «vedere cosa pensavamo cinque anni fa».
«Eravamo d’accordo», citò Castalia, leggendo da dietro le mie spalle, «che lo scopo della vita fosse generare ottime persone e pubblicare buoni libri». Non commentammo a tal riguardo. «Un brav’uomo è senza dubbio galante, appassionato e semplice.»
«Che linguaggio femminile!», osservai.
«Oh, Santo Cielo», gridò Castalia, allontanando da sé il registro «che sciocche che eravamo! È tutta colpa del padre di Poll», continuò. «Io credo che lo abbia fatto di proposito – quel ridicolo testamento, voglio dire, forzare Poll a leggere tutti i libri della Biblioteca di Londra. Se non avessimo imparato a leggere», disse con astio, «avremmo potuto continuare ad avere figli in piena ignoranza e credo che alla fin fine sarebbe stata una vita più felice. So cosa stai per dire sulla guerra» mi lanciò un’occhiata, «e l’orrore di fare figli per vederli morti, ma le nostre madri lo hanno fatto, e le loro madri, e le madri delle loro madri ancora prima. E loro non si sono lamentate. Non sapevano leggere. Io ho fatto del mio meglio,» sospirò, «per impedire che la mia bambina imparasse a leggere, ma a che pro? Ho sorpreso Ann ieri con un quotidiano in mano e iniziava a chiedermi se fosse ‘vero’. La prossima volta mi chiederà se il Sig. Lloyd George è un brav’uomo e se il Sig. Arnold Bennet è un buon romanziere, e infine se credo in Dio. Come posso crescere mia figlia educandola a non credere in niente?» chiese con fermezza.
«Di certo potresti insegnarle a credere che l’intelligenza di un uomo sia, e sempre sarà, fondamentalmente superiore a quella di una donna», suggerii. Al che si rallegrò e ricominciò a sfogliare i vecchi verbali.
«Sì» disse, «pensa alle loro scoperte, alla matematica, alle scienze, alla filosofia, alla loro cultura … » e poi iniziò a ridere. «Non dimenticherò mai il vecchio Hobkin e la forcina per capelli», disse, e continuò a leggere e ridere e pensai che fosse abbastanza felice, quando all’improvviso allontanò da sé il registro e proruppe, «Oh! Cassandra, perché mi tormenti? Non lo sai che la nostra fiducia nell’intelligenza degli uomini è l’errore più grande di tutti?». «Cosa?», esclamai. «Chiedi a qualunque giornalista, docente, politico o impiegato statale e ti diranno tutti che gli uomini sono più intelligenti delle donne». «Come se nutrissi dubbi a riguardo», proseguì con sprezzo. «Come non potrebbero essere più intelligenti? Non li abbiamo cresciuti e nutriti e fatti vivere negli agi dalla notte dei tempi affinché lo fossero anche in mancanza d’altro? È solo opera nostra!», gridò. «Abbiamo insistito tanto per avere l’intelletto e adesso lo abbiamo. C’è sempre l’intelletto,» continuò «dietro. Cosa potrebbe esserci di più affascinante di un ragazzo prima che abbia iniziato a coltivare il pensiero? È bellissimo da guardare, non si dà arie; capisce d’istinto il significato dell’arte e della letteratura, il suo impegno è volto a gozzovigliare e a far sì che gli altri gozzoviglino. Poi gli insegnano a coltivare l’intelletto. Diventa avvocato, impiegato della pubblica amministrazione, generale, scrittore, docente. Va ogni giorno in ufficio. Ogni anno pubblica un libro. Mantiene una famiglia intera con i frutti del suo ingegno – povero diavolo! Presto non sarà in grado di entrare in una stanza senza far sentire una donna a disagio; tratterà con sufficienza tutte quelle che incontrerà, e non oserà dire la verità nemmeno alla sua stessa moglie; invece di deliziarci lo sguardo, saremo costrette a chiudere gli occhi per stringerlo tra le braccia. Vero, si consolano con stellette di tutte le forme, nastrini di tutti i colori, e compensi di ogni misura – ma cosa consolerà noi donne? Poter trascorrere un fine settimana a Lahore tra una decina d’anni? O sapere che l’ultimo insetto giapponese ha un nome due volte più lungo del suo corpo? Oh, Cassandra! Per amor del cielo, scoviamo il modo per cui siano gli uomini a mettere al mondo i figli! È la nostra unica possibilità! Se non forniamo loro qualche innocente occupazione, non avremo né ottime persone né bei libri. Moriremo tutti sotto i frutti della loro sfrenata attività; e non sopravvivrà un solo essere umano consapevole che sia esistito Shakespeare!».
«È troppo tardi, non possiamo nemmeno farlo con figli che già abbiamo», replicai.
«E vuoi che io creda nell’intelletto», disse.
Mentre parlavamo, in strada degli uomini urlarono con voce roca e stanca; prestammo ascolto, e sentimmo che il Trattato di Pace era stato appena siglato. Le voci scemarono. Stava piovendo e la pioggia impediva senz’altro la normale esplosione dei fuochi d’artificio.
«La cuoca avrà comprato l’Evening News», disse Castalia «e Ann lo starà sillabando mentre prende il tè. Devo andare a casa».
«Non c’è niente da fare … un bel niente», dissi. «Quando avrà imparato a leggere, ci sarà una sola cosa che potrai insegnarle a credere: credere in sé stessa».
«Be’, sarebbe già un cambiamento,» sospirò Castalia.
Così raccogliemmo i verbali della nostra associazione, e, sebbene Ann stesse giocando serena con la sua bambola, noi, con fare solenne, le regalammo quel cumulo di carte e le dicemmo che l’avevamo scelta come Presidentessa dell’Associazione del futuro. E fu lì che, la povera bambina scoppiò in lacrime.
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[1] The Lives of the Lord Chancellors and Keepers of the Great Seal of Ireland, from the Earliest Times to the Reign of Queen Victoria (1870) di O’Flanagan James Roderick.
[2] Woolf qui richiama il cosiddetto Dreadnought Hoax (che potremmo tradurre con “la farsa dello sprezzo del timore”) organizzata dal poeta pacifista irlandese Horace de Vere Cole nel 1910, a cui presero parte la stessa Woolf, Adrian Stephen, Duncan Grant e gli scrittori Antony Buston e Guy Ridley. Si travestirono da membri della famiglia reale abissina e effettuarono «una visita ufficiale in Inghilterra» a testimonianza della quale Horace de Vere Cole inviò una foto al Daily Mirror. Scoperto l’inganno fu richiesto l’arresto di Cole e dei suoi sodali ma poiché non avevano infranto alcuna legge, furono solo soggetti a un simbolica punizione corporale, appunto delle scudisciate sul sedere, a opera di giovani ufficiali della Marina Militare secondo l’usanza dell’epoca. Lo scherzo aveva lo scopo di far conoscere il gruppo di Bloomsbury.
[3] O for the touch of a vanish’d hand, And the sound of a voice that is still! Dalla terza strofa dell’elegia Break, break ,break di Lord Alfred Tennyson ( 1809/1892). Il poeta si sente privato della compagnia e conversazione con l’amico del cuore Arthur Hallam dopo la sua morte.
[4] And the hunter home from the hill è il verso conclusivo dell’epitaffio che Robert Louis Stevenson (1850/1894) scrisse per sé. Nel testo originale di Virginia Woolf Home is the hunter, home from the hill.
[5] Nella terza strofa di It Was A’ For Our Rightfu’ King di Robert Burnes (1759/1796) And gae his bridle-reins a shake (scozzese) diventa in inglese He gave his bridle reins a shake.
[6] Probabile che l’autrice alludesse alla poesia Hymn to Proserpina di Algernon Charles Swinburne (1837/1909)
[7] Spring di Thomas Nashe ( 1567/1601). Spring, the fair spring, is the year’s pleasant King, l’uso di King invece di Queen per fare rima con Spring, di fatto la stagione più amabile ed esaltare il contrasto con l’estate che è considerata King of the world, climaticamente più forte.
[8] Home, Thoughts from Abroad di Robert Browning (1812/1889). Opera scritta mentre soggiorna in Italia, il verso di apertura Oh, to be in England Now that April’s there, è diventato più famoso del titolo reale e esprime tutta la nostalgia di casa che prova il poeta.
[9] The Three Fishers di Charles Kingsley (1819/1875).
[10] Ode on the Death of the Duke of Wellington di Lord Alfred Tennyson. 35Sessantuno per settantadue centimetri.
[11] Oxbridge è la fusione di Oxford e Cambridge, le due più antiche Università inglesi che hanno numerose caratteristiche in comune tra cui prestigio e autorevolezza. Nell’accezione negativa indica persone di ceto elevato che avevano accesso incondizionato a una delle due istituzioni. Il primo utilizzo del termine si deve a Willima Thackeray (1811/1863) nel suo romanzo Pendennis (1849) in cui il protagonista lavora al «Boniface College» di Oxbridge.
[12] Quindici o venti centimetri.
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In copertina: Charles Dana Gibson, Girl reading.