Ho conosciuto Anita in un tempo mitico, reso sacro dalle infinite varianti di chi assieme a me l’ha raccontato giorno dopo giorno senza requie, finendo per illudersi di averlo vissuto. Potrei dire che sono passati quindici anni da quando mi ha rivolto il suo primo sguardo, ma è una durata simbolica. Sottolineo che si è trattato di sguardi prima di tutto, poi di parole, un flusso continuo di cui solo ora avverto la vertigine.
Aveva un modo strano di parlare, Anita, forse dovuto alle sue origini. Le sue parole staccate, scomposte, ricorsive e fuori fuoco formarono da subito la nervatura del mio interesse. Di me, invece, penso lei percepisse innanzitutto il carisma, la capacità di plasmare il corpo allora acerbo della nostra piccola cerchia. Qualità che oggi conosco anche grazie a lei, ma che non desideravo avere. Siamo state amiche per anni, nell’arco dei quali l’ho ammirata e osservata.
All’inizio, desiderava solo essere accolta. Ho cercato di aiutarla. Avevo capito che il suo ostacolo era anzitutto linguistico. Anita è distinta, molto aggraziata, tuttavia incapace di adeguarsi a una grammatica comune, cosa che per molto tempo l’ha resa invisa al nostro giro. Non era l’unica a fallire su questo piano, ma gli altri casi erano ben più disperati del suo: tentativi prepotenti di appropriarsi del nostro codice ignorandone le ramificazioni nascoste, volgari e vani, mossi quasi sempre da opportunismo e da noi immediatamente respinti. Anita aveva delle possibilità ma io non potevo intercedere apertamente in suo favore. Invece, le mostravo come avvicinarsi attraverso gli album che formavano il nostro sentire e i film di cui memorizzavamo i gesti. Björk, i Gatti, gli Stray Cats, i Camera Stilo, Sid e Nancy, Axel Paul Eleine e Grace, Faye e matricola 663, e la Diva che canta Dreams dei Cranberries. Esasperavo, quando eravamo noi due sole, il gergo della nostra clique, composta di prestiti dalla ciacola dei nonni e importazioni da mondi estranei, non applicabili alla nostra realtà se non per analogia. Va da sé che, mentre io ero predisposta a modellare questa lingua, sempre attenta che non si sgualcisse, Anita era invece irriducibile a essa, forse addirittura incapace di sentirla, sorda e di conseguenza muta di fronte al nostro gruppo. I rari tentativi con cui cercava di appropriarsene finivano per risultare sgraziati, viziati dal suo idioma naturale, e non per un difetto intrinseco, come a me sembrava evidente, ma per contiguità al nostro. Era in apparenza fuori luogo, indossando abiti per lei ordinari, per noi esotici, nella piazza di un popolo straniero, di un’altra epoca.
Per anni ho visto la violenza con cui ha cercato di conformarsi, l’ho guardata inferocirsi sugli album e i libri che le prestavo. Glieli passavo immacolati, avendoli appena sfogliati o ascoltati quel tanto che serviva; a volte neppure scartati dalla pellicola. Tornavano pagine a brandelli e cd ricoperti di graffi. Notavo che i suoi sforzi esorbitavano, e se io elogiavo Pop Life, lei si procurava l’intera discografia di Sua Maestà Viola, se leggevo le prime venti pagine di Anna Karenina, dopo essermi annoiata e averglielo regalato, finiva per leggere tutto Tolstoj e pure Dostoeskij, Čechov e Puškin.
A un certo punto fu chiaro che qualcosa in lei si era capovolto: percorreva i suoi sogni al contrario, andava nella direzione opposta ai suoi desideri di appartenenza. Come li vedeva lentamente realizzarsi, Anita retrocedeva. Il paradosso era che proprio la materia di cui si serviva per giungere a noi, sottraeva tempo ai momenti di cui aveva bisogno per stare con noi.
Ha smesso di frequentarci appena è stata accolta e tutti se ne sono indispettiti, offesi dalla sua ingratitudine. L’ho rispettata ancora di più.
Da lì in poi ci siamo viste sempre meno, clandestinamente, sotto i leoni di Zeno: la piazza era vuota dopo la mezzanotte – lei ormai amava la solitudine – è stato allora che ho assistito al mutamento. Una volta impadronitasi della nostra lingua, se ne stava già disfacendo; la sua invece riemergeva. Mi costringeva a seguirla negli avvitamenti delle sue parole, nella cacofonia di accostamenti per i quali forse non avevo orecchio, ma più la ascoltavo, più questi ricorrevano, più ne apprezzavo la bellezza. E ne ero ossessionata, avida e fiera di essere l’unica destinataria.
Benché amassi il linguaggio della nostra piccola élite, ero ipnotizzata dal suo. Ne ero attratta al punto da arrivare al traffico illecito. Dapprima selezionavo e introducevo nella nostra cerchia, segretamente, solo ciò che poteva essere da noi assimilato. Non tutto era trasmissibile e non subito. Alcune formule necessitavano di lievi modifiche, variazioni più o meno ampie a seconda della compatibilità. Come le vedevo fare presa e prosperare, tornavo da lei e la ascoltavo, la memorizzavo, portavo il suo verbo in mezzo a noi. All’inizio si trattava solo di alcuni accoppiamenti di parole o alterazioni sintattiche quasi impercettibili, quando queste cominciarono a risuonare all’interno del gruppo, capii che le porte erano spalancate e trasportai l’intero suo codice all’interno di quello che era stato il nostro. Adesso non solo amavo lo spirito della nostra società ma lo veneravo, e così avevano preso a fare gli altri. Lì per lì non mi accorsi nemmeno dell’assenza di Anita.
Poi, fu una fiammata improvvisa. Gli effetti del nostro invasamento furono tardivi ma fulminei. Nella frenesia e senza accorgercene, ci eravamo lacerati con le parole, le frasi e di conseguenza le idee che circolavano. Il tessuto delle nostre relazioni, prima saldo, si era irrimediabilmente sfibrato. Esaltata com’ero, non avevo capito il contenuto di ciò che veicolavo. E mentre tutto si disfaceva, continuai a non capire.
Alcuni si devitalizzarono, ormai privi di entusiasmo. Come un arto in cancrena, eravamo costretti all’amputazione, e sempre più spesso l’arto si amputava da sé. Prima qualcuno, infine tutti sparirono. Della piccola cerchia non rimase neanche un nome. Verso la fine qualcuno disse: «Non c’è mai stato un gruppo, di che parli?».
Anita, con la sua lingua, si era finalmente insediata in noi, nel cuore del nostro corpo sociale. E da lì, in un battito, aveva effuso la sua sostanza, innervando tutto l’organismo. Questo veleno o farmaco, in poco tempo, aveva corroso dall’interno ogni legame. Nel giro di un anno, non c’eravamo più.