“Del Gobbo, però, non si vede gobba, ma s’intende voce. Ingannarci – proprio lui, ancora, qui, oltremodo?” Si tormenta Fahridi, e cade con l’ispanico, muto di pensiero. Il canale va restringendosi più si cade, e le schiene dei Titani raschiano a volte il terreno, mentre precipitano verso un più fondo. Tutti cantano – la speranza dell’uscita, del futuro, dell’ignoto li spinge. “Ô Metis! Ô Metis! Ô Metis Ô!” intonano monocordi: canto e controcanto.
Allora anche Quijano si mette a cantare. E stende le braccia, vorrebbe danzare, lì in volo. Striscia a volte le mani sul terreno vischioso, quando s’avvicina alla parete. Fahridi lo segue nella danza. “Tanto vale cadere e vedere!” dice, quasi esulta.
La voce del Gobbo ora spergiura, come se qualcuno lo trucidasse, cadenzata al passaggio dei Titani tra i rami di una ginestra. Quijano se n’accorge, non è distante dalla pianta. S’aggrappa a un ramo, la ginestra geme, ma resiste. E Fahridi pure s’aggancia alla pianta, al suo fusto, mentre i Titani cadono più sotto e non se ne avvedono. È un canale quello che vede, mentre si tira su. “Un’altra via, ancora” dice, Quijano ridacchia e gli tende una mano. La pianta quasi guaisce. “Gobbo, esordisce Quijano, dov’è la tua gobba?”. “Tutto cambia, diviene e si metamorfizza.” Gli risponde il Gobbo, ma ora anche la Ginestra. “Qui sotto serve più orecchio che occhio, mettete a tacere le vostre visioni. Fatale è ogni metamorfosi!”
“Metaforizza, la Ginestra!” Fahridi sussurra una cosa all’orecchio dell’Ispanico e ridacchia. Ma quello, il Gobbo o Ginestra, non ride proprio: l’essenza della gobba permane pur sottratta alla vista. E dallo stelo caccia la voce: “Fermatevi un attimo, qua con me, voi che volete fare quel che volete fare. Prima di andare ancora più sotto, dico. Gli altri corpi sono caduti là sotto e non ne usciranno senza di voi. Ma voi non ne uscirete senza di me.”
Quijano è contento e leggero, passata la puzza senza termini dell’infero, e non se ne fotte. Pare pronto a ogni cosa. Figurarsi Fharidi due volte possesso in itinere. Si sculaccia la chiappa soda con la sinistra e dice “se vuoi prendermi pure tu, Ô Ginestra, la strada è quella.” Ridono; anche il Gobbo. È l’aria che s’intravede, l’apertura che si sniffa di lontano.
Eppure proprio di lontano vengono altre voci. Canti come salmi. Frammenti e sillabe, acrostici, scolii eolici:
Le-ectio Fa-a-ci-lior! Le-ectio Dif-fi-ci-lio-or!
Ge-mi-na-tio
Sive
Ca-ta-cre-si
Sive
A-sin-de-to
Sive
Num-quam Num-quam
Le-ectio Fa-a-ci-lior! Le-ectio Dif-fi-ci-lior!
E Quijano e Fahridi di un tratto non ridono. Risalgono – all’intemperie – i ricordi appena processati della fanghiglia di sotto – o di sopra. È un terrore. Ma la Ginestra o Gobbo non si smuove. Ella non si smuove mai. Et dice:
“C’è qualcuno, lungo questo tunnel che si biforca e porta sotto – o sopra – alla luce, dove vi attendono i Titani.”
“Andiamocene ora da dove sono passati i Titani!” “Via!” I due credevano di avere vinto lo spazio e invece hanno perso la pazienza[1].
No!” La ginestra reitera. “Se ve ne andate ora, non andrete da nessuna parte. Quelli là sotto hanno una cosa che vi serve. Ed andremo a prendercela e scenderemo più sotto. Io so quel che c’è sotto. Vi aiuterò.”
Nelle teste dei due la tempesta. È la stanchezza, il demone della fatica e del sonno – amica del guerriero è la diffidenza.
“Vi ho già aiutato una volta, dovete fidarvi di me. Ma dovete portarmi con voi.”
Fahridi scoppia. “Ma che pensi, che abbiamo rispetto per i poeti? E come cazzo ti portiamo a te che non ti smuove manco la ruggine bollente?”
“Con una pentola!” La gobba o ginestra testarda.
“Scusa, poeta?”
E la Gobba si riferisce all’elmo di Quijano, il Mambrino.
“Quijano, tu, sputaci dentro due volte. Fharidi, tu, stacca le mie radici e riempimici. Sconfiggeremo il re delle talpe con una pentola!”
“Il che?”
“Con un vasetto!”
Ed i tre, Quijano, Fharidi e il Vasetto muovono per il tunnel, e le voci tornano a suonare.
Ge-mi-na-tio
Sive
Ca-ta-cre-si
È il regno delle talpe, adunate in coro intorno ad un Codice enorme, rilegato su lungo uno dei bordi con un filo rosso. Ai piedi del codice, accovacciato, il Re Talpa – distinto da una corona di segni diacritici.
“Quello in ginocchio è Alessandrino, il re dei filologi o talpe. Ciò che tiene insieme il Grande Codice che ora adorano, quel filo rosso che lo rilega, è ciò che a noi serve per andare più sotto, avanti.” Il Vasetto o Poeta, la Gobba, parla, e i due annuiscono distanti. Per la prima volta non capiscono, non sanno. Per la prima volta dal quel concilio in cui tutto fu deciso, in cui il partido e l’inganno ebbe inizio[2]. Ed ora, nella stanchezza e nella confusione, si affidano alla Gobba.
“Questo luogo” prosegue la Gobba o Vasetto, “è un interstizio, una fase intermedia. L’enigma propriamente detto comincia appena dopo. Questo luogo è solo un mezzo, non un approdo. Per questo dobbiamo sottrargli quella cosa che a noi serve a sciogliere l’enigma. Per questo, dico, dovete portarmi con voi – perché io, Gobba o Vasetto, Poeta, non ho fatto altro che attendere di sciogliere l’enigma.”
Giunti più in basso, nella valle delle Talpe, i tre si mostrano – sembrano, o sono, poeti. I Filologi, al vederli, tre poeti vivi, intraprendono la grande salivazione – la fase iniziale della tessitura del codice. E la Gobba, sostenuta dalle mani di Fharidi, nell’elmo o vasetto di Quijano, si rivolge diretta al Re Alessandrino.
“Alessandrino, tu che tessi il Codice senza fine, io ti sfido. Ti porto due corpi e un fusto di poeti vivi. In cambio, tu fammi una domanda.”
Sibila Alessandrino – talpa, ragno o serpente. “Tre poeti vivi o vegeti!”
Ed il coro dei Filologi prosegue la grande salivazione: “Li prenderemo, li scarnificheremo, li laveremo, li codificheremo! Nostro Re, porgi loro la domanda!”
“Hai sentito, Poeta? Io vi porgerò una domanda a cui tu non saprai rispondere – il Poeta crea le domande, non le risposte. E allora, quando non saprai rispondere, faremo di te e dei tuoi compari una pergamena, custode del vero, dell’ultimo, e infine della parola stessa.” (La pelota, più sotto, rimbalza impazzita e gli fischiano le orecchie).
“E se invece saprò rispondere…” il Vasetto ribatte agguerrito.
“Non datur” e ride sibilando Alessandrino.
“Se invece saprò rispondere?”
“Prendi quello che vuoi.”
“Qualunque cosa!”
“Non saprai rispondere!”
“Fammi la domanda!”
I tre avanzano nel fosso, ed il coro di talpe si chiude in cerchio intorno a loro. Alessandrino, ai piedi del codice, estrae una tavoletta da suolo.
“Cari miei pari, sudditi e talpe. Preparatevi ad accogliere tre poeti vivi nel nostro canale. Salivate e secernete, che di acidi vi sarà bisogno a profusione.” Alessandrino, occhialuto, si volge ai tre nuovamente. “Voi, ora ditemi. Sì, voi, sapete tradurre, lo sento. La mia bava si è fatta subito tutta calda.” Si toglie gli occhiali, appanna con l’alito prima un vetro poi l’altro. Strofina, pulisce. S’avvicina al codice, volgendo le spalle ai tre poeti. “Ditemi!” ancora ripete, mentre mastica fra i denti una risata non trattenuta e con l’indice e il pollice attorciglia un lembo del Segnalibro, il Filo che non si deve perdere. “Non pensate di essere venuti in vano? Badate non è questa la domanda. È cortesia – soltanto salamelecco!” Ride di gusto, il Re delle Talpe. I tre poeti tacciono. “Pensate che voglia ingannarvi? Ah sì, la diffidenza!” Aggiunge con disprezzo. Poi, improvvisamente calmo, ricomincia: “La verità, a noi interessa fino a un certo punto. Le vostre credenze di fuori – di sopra – ci fanno ridere. Che ne sapete voi dei terremoti? Voi precipitate nelle loro ferite, noi ci viviamo! A noi è toccato sopportare ogni parola – e voi vi lamentate per un paio di dualismi. Fate ridere! Noi, i Filologi, le Talpe – come dite voi – vi teniamo pur sempre in vita. E voi, poeti? Poeti, certo! E tu, Ginestra, o Gobbo, che ti mischi allo sputo di questi!” La voce di Alessandrino diventa garrula, come se non respirasse, barcolla. Le altre Talpe subito gli si avvicinano. I tre poeti, ancora in silenzio, non si muovono. E tacciono. Alessandrino si riprende: “Tu, Ginestra, quanta dialettica – schifo! – mi fai usare! Tu vuoi la domanda, e io voglio ritardare il tempo. In fondo, Gobbo, vogliamo quasi la stessa cosa.” Quijano lo guarda minaccioso, gli trema la mano. La Ginestra sussulta, parla a Fharidi: “Tienimi tu, questo ispanico mi farà cadere. Trabocca di voglia di rompere!” Quijano non obietta, lascia il Vasetto nella mano dell’amico. Ed è lui, ancora, a parlare per primo tra i tre poeti. “Una domanda è una sfumatura, ho sentito dire una volta. E non cercate, proprio voi, di appianare le sfumature? Dunque, tagliate corto!”
Dal fondo della sala, ad un cenno del re, viene avanti una Talpa con una pentola. Qualcosa come una parrucca nerastra pare che sia il contenuto. La Talpa la poggia ai piedi del re, accanto al Codice.
Alessandrino si districa dal sostegno delle Talpe. Prende fiato, la voce, adesso, è un’onda misurata, dominata: “Dunque, voi cercate la via. Eppure non cercate la via per uscire di qui, bensì quella per oltrepassare ciò che verrà dopo. È arrivata qui una cosa, rotolando nel canale qualche giorno fa – il motivo perché questa sia giunta fino a noi stiamo indagando. Questa cosa sta qui e ora, in questa pentola. Ed è lei che ci ha parlato – con qualche incentivo da parte nostra. Lei ci ha parlato della Partita – lo Scontro al Vertice –. Ma non esiste vertice senza noi!” Dal secchio, appena il Re pronuncia le ultime parole, si alza un lamento doloroso e al tempo stesso beffardo. Il re le tira un calcio. L’apostrofa: “Cosa schifosa!”. Torna a guardare i tre poeti, apparentemente calmi. Poi ricomincia: “Voi là sopra credete di avere le chiavi per ogni cosa, per entrare da ogni porta e prendere e rubare tutto ciò che volete. E chiamate questo creazione, poetica. E ci insultate tenendoci lontano dai vostri scontri, dagli agoni, di cui solo noi dovremmo essere giudici – o anche di più! E credete coi che ci accontentiamo di un Bloom qualsiasi? Ah, la nostra classe, la mia in particolar modo! Per questo volete superarci, per vedere che cosa c’è dopo! Ma voi, avreste dovuto fermarvi prima! E invece no! Perché l’azzardo vi arrizza! Dunque, poeti, facciamola finita. Se vincerete, ora vi porterete via anche lei, la Cosa, perché è stata lei a pronunciare, con disprezzo, la parola proibita, pericolosa per chiunque la conosca, e che può incatenare a ripetere l’errore di non credere che ciò viene dopo si pone come specchio per ciò che sta prima. Noi, Talpe della Filologia, la fuggiamo e ne temiamo le conseguenze. Perciò la chiedo a voi, i poeti, che l’avete inventata! Qual è tale parola?” La cosa nella pentola ghigna e si piglia un altro calcio, che la rivolta. Ora si vede l’orecchio. L’ispanico e l’arabo lo fissano. “Siamo ad un passo dall’uscita – sussurra Fharidi a Quijano – io lo riconosco quell’orecchio!” Quijano trasale. “Sì – dice sottovoce, sorridendo – è il suo. È di K.”
Alessandrino, sentendoli confabulare, per la prima volta in vita sua trema, ha paura. È il dubbio, la diffidenza. Alza subito la voce: “Avanti, voi tre, rispondete! Voglio che sia la Ginestra a parlare per tutti. Avanti!”
Fharidi e Quijano s’avvicinano al Vasetto, bisbigliano qualcosa tra le foglie. Ridono. Si rimettono dritti. “Siamo pronti!” esclamano in coro.
“Qual è la parola?”
“Mistero!”
Le Talpe, tutte, urlano. Si mettono le zampette sulle orecchie, implorano silenzio. Il Re Alessandrino si piega sulle ginocchia, versa qualche lacrima sul Codice. È finito, il filo, il Segnalibro, è perso.
I tre poeti vivi gli si avvicinano. Quijano afferra la pentola, caccia fuori la testa. Sorride ancora. È proprio K. Finalmente! La rimette dentro.
Alessandrino si guarda attorno, è solo. Le Talpe lo hanno abbandonato, un’ultima resistenza sarebbe vana. Guarda negli occhi Fahridi e l’ispanico, in silenzio tira a sé il Segnalibro. Estrae ancora la testa di K. dalla pentola e la fascia nel Filo rosso sangue. La mette nelle mani di Quijano, senza dire una sola parola.
Si allontana.
Ma non finisce. Pendula, piegosa, la talpa filologa non muore mai, tornerà. Però ora giace sconfitta, tutta. E gli altri, i cinque – i due poeti vivi, il vasetto, la K mozzata e il filo del Segno – riprendono strada verso il basso per il sentiero biforcato. Là sotto, a due passi, la pelota li attende, insieme a quello che resta del vigore dei Titani.
[Mr McMetis: Ed ancora ed ancora. Proprio io – dirvi la verità? Io li attendo, li attendo al varco, al prossimo varco. Io so attendere.]
***
“i Portatori del Vasetto” mi fa ridere tanto.
Bella, Agathe!
;-)
e la voce di McMetis comincia a risuonare più forte. Così forte da suggerire, quantomeno nel ricordo, quella del suo fratello, uguale e diverso, McMenis