Questo passo, estrapolato da “Il Castello” di F. Kafka (ed. Universale Economica Feltrinelli) Capitolo Quindicesimo, è un pezzo di un lungo dialogo tra K. (il protagonista) e Olga, una donna che vive nel villaggio assoggetato al Castello. Klamm è un funzionario del Castello, egli è il potere, irragiungibile anche se si è a due passi da lui. Perché questo passo? La risposta è molto semplice: nel Novecento, che tanto ci ha donato di merda in evidenza, Kafka e la sua opera sembrano davvero venire fuori (forse sarebbe più giusto dire: restano dentro) da un altro sostrato non rivoluzionario, non reazionario, dove l’individuo viene messo di fronte alle forze schiaccianti della società civile moderna. Nel Castello – così come anche per il Processo – si avverte, da presso, l’odore della verità, del disvelamento, ma ogni volta qualcosa torna indietro (E anche quando Klamm lo ha già visto e Barnabas si mette ritto sull’attenti, nulla è ancora deciso perché Klamm può di nuovo volgersi da lui al libro e dimenticarlo: anzi, capita spesso. ) e quel qualcosa, che talvota è un’inezia burocratica non giustificata o controversa, ambigua, se ne va via, disperso, irrangiugibile. Inutile, sembra, anche tentare di aggirare gli ostacoli, non perché ci voglia solo e tanto sacrificio per la verità, ma perché questa non può – dato che c’è chi non vuole – essere gettata fuori, data in pasto a tutti. Dunque, domando, questo mistero – di cui si colgono da subito le divergenze dialettiche della sua dimostrazione – non è proprio ciò che, occultato, non interessa ai Barnabas, alle Olga, ma solo ai Klamm e ancora di più ai K.? E la difficoltà di Barnabas e le sue bugie nel descrivere chi di questo mistero si fa maschera – locchio di Klamm – non sono vigliaccheria, ossia un modo volgare e sottomesso di ubbidienza? E non è Kafka l’unico cui non si può ascrivere una sola lamentela contro il suo tempo, l’unico che nel caos dell’inizio dello scorso secolo abbia visto chiaramente ciò di cui gli altri, gli uomini, si sarebbero poi lamentati? E non ci lamentiamo noi stessi, a volte celinianamente, come non fa K. o non assecondiamo, vilmente, il mondo come Barnabas o Olga? E, anche se Olga alla fine si chiede quale sia il senso della vita del fratello Barnabas, non c’è proprio in questa domanda una retorica disarmante, perché chi la pone – è certo – non vorrà trovarvi una risposta?
“Barnabas conosce molto bene,” proseguì Olga, “le versioni sull’aspetto di Klamm, ne ha raccolte e confrontate tante, forse anche troppe, e in un’occasione ha visto o ha creduto di vedere egli stesso Klamm al villaggio, attraverso il finestrino d’una carrozza, ed era dunque abbastanza preparato a riconoscerlo, eppure – come te lo spieghi? – quando al Castello è capitato in una cancelleria e gli hanno mostrato uno dei parecchi funzionari presenti dicendogli che quello era Klamm, non lo ha riconosciuto, né è riuscito poi per lungo tempo ad abituarsi all’idea che quello fosse Klamm. Se tuttavia chiedi adesso a Barnabas in che cosa quell’uomo differisce dalle immagini correnti che si hanno di Klamm, non sa rispondere, o meglio risponde descrivendo il funionario al Castello, e questa descrizione coincide perfettamente con la descrizione di Klamm, che conosciamo noi. ‘E allora, Barnabas,’ gli dico, ‘perché dubiti, perché ti tormenti?’ Al che lui, palesemente imbarazzato, cominicia a elencare certi aspetti particolari del funzionario su al Castello che tuttavia ha più l’aria di inventare che di riferire, e che per di più sono così irrilevanti – riguardano per esempio un particolare modo di inclinare la testa o anche solo il panciotto sbottonato – che non è possibile prenderli sul serio. Ancora più importante mi sembra il modo in cui Klamm tratta Barnabas. Barnabas me lo ha descritto spesso, perino disegnato. Di solito Barnabas è introdotto nel locale di una grande cancelleria, ma non è la cancelleria di Klamm e nemmeno la cancelleria di un solo funzionario. Quell’ambiente è suddiviso in due settori, nel senso della lunghezza, da un leggio che va da una parete laterale all’altra; c’è un settore largo che è invece lo spazio riservato alle parti, agli spettatori, agli inservienti, ai messi. Sul leggio ci sono dei grandi libri aperti, uno addossato all’altro, e per lo più, accanto ai libri, ci sono dei funzionari che leggono stando in piedi. Senonché non rimangono sempre accanto allo stesso libro, e tuttavia non scambiano i libri ma i posti, e l’aspetto più stupefacente per Barnabas è il momento in cui, durante questi cambiamenti di posto, devono spingersi e schiacciarsi per superarsi a vicenda, appunto per la ristrettezza dello spazio. Sul davanti, proprio a ridosso del leggio, ci sono dei tavolini bassi ai quali siedono degli scrivani i quali, quando i funzionari lo desiderano, scrivono sotto la loro dettatura. Barnabas si stupisce ogni volta di come avviene. Non c’è un esplicito ordine del funzionario e la dettatura non avviene ad alta voce, ci si accorge appena che qualcuno sta dettando, sembra semmai che il funzionario sia intento a leggere come prima, però ora bisbiglia anche e lo scrivano ascolta. Spesso il funzionario detta a volce così bassa che lo scrivano, seduto, non riesce neanche a capirlo, allora deve ogni volta alzarsi in fretta, cercare di afferrare quanto gli stanno dettando, tornare a sedersi rapidamente e trascriverlo per poi saltar su di nuovo e così via. E’ davvero strano! Quasi incomprensibile. Ovviamente Barnabas ha tempo a iosa per osservare tutte queste cose, perché sosta per delle ore e a volte anche per dei giorni nello spazio riservato al pubblico prima che l’occhio di Klamm si soffermi su di lui. E anche quando Klamm lo ha già visto e Barnabas si mette ritto sull’attenti, nulla è ancora deciso perché Klamm può di nuovo volgersi da lui al libro e dimenticarlo: anzi, capita spesso. Ma allora che servizio di messaggero è, se è così poco importante? All’alba, quando Barnabas mi dice che va al Castello, mi sento immalinconire. Quella strada del tutto inutile probabilmente, quella giornata probabilmente perduta, quella speranza probabilmente vana. Che senso ha tutto questo?”