Livio Santoro: Provando a pensare a una metafora giusta per descrivere il processo di traduzione di Laiseca, le più classiche (“percorso ad ostacoli”, “campo minato”) non soddisfano. Sulla scorta di Ricardo Piglia (che a proposito di Laiseca scrive: «La logica della guerra è la stessa della letteratura: nessun accordo o dialogo, solo scontro tra poetiche, i valori si impongono sul campo di battaglia[1]», quella giusta potrebbe essere: “partecipare a una guerra”. Tradurre Laiseca è partecipare a una guerra. Questo per dire che le regole cui sottostà la scrittura del Monstruo (di per sé attraversata da continui conflitti: individuali e collettivi, ma soprattutto metafisici[2]) mi sembrano situazionali e dinamiche, dettate da strategie che mutano di continuo, in base all’emergenza (ancora Piglia: «Laiseca ci mostra cosa significhi un uso della lingua in condizioni di estremo pericolo[3]»), senza seguire uno schema percepibile per più di qualche pagina di fila, saltando da un registro all’altro, da una piattaforma semantica all’altra, da un piano temporale all’altro, da un mondo all’altro, e lasciandosi alle spalle numerosi cadaveri che non avranno sepoltura e moribondi senza assistenza medica (vedi: situazioni, scene, lettori e personaggi).
Ecco, tu come ti sei trovato in questa guerra, se di guerra per te si è trattato, traducendo per Arcoiris il primo romanzo di Laiseca, Su turno[4]? E come ne sei uscito vivo?

Francesco Verde: Imboscandomi, ovvio.
Laiseca sosteneva che Los sorias, sebbene edito solo nel 1998, fosse in concreto il suo primo libro. L’aveva immaginato e rimuginato fin da bambino, e scritto e riscritto quattro volte, completandone la versione definitiva il 27 febbraio 1982, dopo dieci anni di lavoro. «Ma possiamo dire che lo sto ancora scrivendo, capisci?», teneva a precisare nel 2013 a Julián Velázquez, «Attraverso tutte le mie opere[5]».
A ragione, dunque, sia Hernán Bergara sia Augustín Conde de Boeck (fra coloro che con più serietà e intelligenza vanno approfondendo la poetica del Monstruo) ipotizzano per Los sorias un effetto propriamente “rizomatico”, in forza del quale ogni altro libro di Laiseca, anteriore o posteriore al 1982, trarrebbe origine da quell’opera culmine, e ne replicherebbe, a frammenti, i motivi fondamentali: guerra, potere, sesso.
In Su turno (È il tuo turno, nella mia traduzione) la guerra ha di fatto la medesima centralità che in Los sorias – lì come scontro fra leviatani fascisti, qui come lotta fra gang mafiose e istituzionali – ed è, ugualmente, anche regime di scrittura, con lo sconquasso di piani e tempi narrativi che hai ben descritto. Tuttavia, dando credito al soriacentrismo di Bergara-Conde de Boeck, tradurre Su turno è stato, bisogna riconoscerlo, un combattere al riparo, periferico, lontano dalla guerra vera. Sicché qualcuno, in Arcoiris, medita adesso di spedirmi al fronte…

LS: Parliamo della coerenza, forse uno dei maggiori spauracchi per un traduttore. Perché prendere un testo in una lingua e portarlo a un’altra è un’opera che dovrebbe vedere rispettati i seguenti “punti coerenza”: 1) la coerenza del testo tradotto con l’originale; 2) la coerenza interna nel testo tradotto; 3) la coerenza rispetto all’ampio contesto di arrivo. Tutto perfettamente scolastico e lineare, e senza particolari patemi.
Ma cosa avviene, invece, quando il testo da tradurre è esso stesso un manifesto contro la coerenza, come in Laiseca e già in È il tuo turno? C’è maggiore libertà per il traduttore, oppure il venir meno dei parametri procedurali della coerenza turba, sfianca e disorienta?

FV: La mostruosa bibliografia di Laiseca include un’unica raccolta di poesie, presentata nel 1987 come improbabile florilegio di liriche orientali, dal titolo Poemas chinos: brevi componimenti di carattere per lo più meditativo, attribuiti a maestros immaginari di questa o quella dinastia, e offerti al lettore occidentale in una traduzione evidentemente fantasiosa, apocrifa. Ebbene, nel prologo alla silloge inventata il “curatore”, certo Lai Ts Chiá, precisa senza remore che «el poema de un viejo maestro chino es imposible de traducir en su totalidad»; e ne dice il motivo. A ogni ideogramma corrisponde una parola, un’immagine o un concetto, e poiché ogni ideogramma si compone di sub-ideogrammi che esprimono a loro volta parole, immagini o concetti, il testo da tradurre è, insieme, «cinque, sei, sette» poesie diverse. Nuovi contenuti vengono a sommarsi, disporsi «al lado» dei significati anteriori, obbligando chi traduce a sceglierne, e restituirne, soltanto alcuni; e a tacere fatalmente il resto[6].
Ora, per rispondere alla tua domanda… Suppongo che l’avvertenza di Lai Ts Chiá ecceda lo specifico linguistico e possa a buon diritto valere per la stessa prosa di Laiseca. Cos’è il realismo delirante – di cui Su turno marca il chiarissimo esordio nel 1976, col suo plot sconnesso, a tratti incontrollato e digressivo – se non un labirintico groviglio di segni, un gigantesco, totalitario “ideograma chino”?

LS: In questa faccenda dell’anti-coerenza, come succede anche in È il tuo turno, i personaggi ci sguazzano. Leggendo Laiseca, mi sembra di vederli mentre si divertono a imporre all’autore (altrettanto divertito) i propri capricci del momento, determinando in tal modo forti e repentini salti narrativi. Credo cioè che la dimensione “delirante” di Laiseca in gran parte provenga dal, o si conformi al, costante dialogo libero e multistrato che l’autore intrattiene con i propri personaggi, autori al suo pari: diciamo come ciò che avviene in una testa in cui per fatti propri parlino le “voci”.
Si tratta di un’impressione a tuo parere corretta?

FV: Molto corretta. Al punto che potrei rispondere parafrasando i tuoi stessi argomenti. Rimarco invece l’irresistibile anarchismo dei personaggi laisecani, capaci d’imporsi all’autore e al lettore con l’ineluttabilità – osserva Juan Sasturain – di un terremoto, un’inondazione, una malattia infettiva; e corroboro il rimanente divagando un po’[7].
Una delle ultime interviste concesse da Laiseca fu quella al catalano Ignacio Duarte che, per tutta una notte del novembre 2015, fino all’alba, nello spoglio bilocale del barrio Flores, gli pose domande ricavate testualmente dai suoi libri, rubate letteralmente di bocca ai personaggi di Su turno, Los sorias, La hija de Kheops, Las aventuras del profesor Eusebio Filigranati, La mujer en la muralla, El gusano máximo de la vida misma… C’era una telecamera, e quindi la “conversación ficticia” (genere creato appunto da Duarte) divenne un mediometraggio, El Monstruo en la piedra, proiettato l’anno dopo al Festival Internazionale del Cinema di Marsiglia[8]. Ecco, basta il film a darti ragione. Per cinquanta minuti la macchina riprende solamente l’intervistato, draculesco più che mai; le “voci” dei personaggi, concentrate nell’intervistatore, restano sempre fuori campo; e il risultato è straniante. Una specie di seduta spiritica: all’inverso.

LS: Riflettendo ancora sul tema dei continui mutamenti di registro, ci viene incontro a mio parere anche la musica, presente in Laiseca al di là del semplice ritmo. In È il tuo turno la faccenda è evidente: Liszt, Mozart, Wagner. Prendiamo quest’ultimo, citato molto spesso: sembra intervenire fattivamente anche nell’ambito della prosa, imponendo una partitura sostenuta, trionfale ed epica a molti passaggi della narrazione. Una narrazione sinfonica, se è concesso dirlo.
È possibile affermare, in tal senso, che il riferimento a un mondo artistico che non si muove attorno alla parola offra al traduttore una pletora di possibilità altrimenti inesistenti? Quando hai lavorato su È il tuo turno, quanto hai tradotto “ascoltando” la prosa di Laiseca?

FV: In realtà, la playlist è più lunga: Antonio Vivaldi, Richard Strauss, Johann Peters (quest’ultimo ricordato oggi quasi esclusivamente per il patriottico Rheinlied di cui risuona il grandioso finale del romanzo). Musica che a volte «ha valore di sottolineatura espressiva», altre «agisce come presagio», altre ancora «dirige il ritmo delle parole e i movimenti dei personaggi» — come scrive Emanuela Cocco[9] in “La scena del crimine di Alberto Laiseca”, disamina attenta e molto originale firmata per la rivista «L’irrequieto».
Ne derivano pagine sorprendentemente “acustiche”, che spero la mia traduzione non abbia reso in sordina. Su tutte, quelle della caccia al killer guidata dal commissario ispettore John Craguin, mentre gli altoparlanti diffondono a tutto volume l’Entrata degli dèi nel Walhalla: tre anni prima, faccio notare, della celeberrima sequenza di Apocalypse Now in cui gli elicotteristi al comando del tenente colonnello William Kilgore attaccano un villaggio vietnamita sulle note della Walkürenritt, la Cavalcata delle Valchirie.
Ad ogni modo, l’ammirazione di Laiseca per Wagner – genio dell’eccesso, ovvero paladino dell’Assoluto artistico («Mozart de la música» è la singolare definizione che se ne dà in Su turno) – si limitava alla tetralogia pagana, al ciclo nibelungico. D’accordo con Nietzsche, Lai detestava il Wagner cristiano e misticheggiante del Parsifal, e quello furiosamente antisemita degli ultimi saggi, ispirati alle teorie di Gobineau.

LS: Se c’è la musica, non manca ovviamente la letteratura. Anche in questo caso, Laiseca è continua fonte di riferimenti, riscritture, dislocazioni, traduzioni (a loro volta) più o meno fedeli. In È il tuo turno a essere chiamato in causa, tra gli altri e nel suo caso in maniera esplicita, è Edgar Allan Poe (dopo l’esergo spiazzante che in calce reca scritto “Bram Stoker”): ne hai ritrovato traccia anche nella struttura narrativa, nella prosa? E chi altri hai incontrato o inseguito? Quanto aiuto hai dovuto chiedere alla tua biblioteca per tradurre il romanzo?

FV: In Su turno i riferimenti al Grande Bostoniano sono tre: due dichiarati (ai racconti “Il pozzo e il pendolo” e “L’angelo del bizzarro”), il terzo sottinteso (a “Il barile di Amontillado”). Tutti inseriti in scene narrative di parodica crudeltà, come quella del processo, con tanto di giudice in toga rosso porpora, a un ignaro impiegato di banca – nuovo Josef K. verosimilmente, da mandare subito al patibolo. Poe ritorna in un paio di curiose note a fondo pagina (lo si finge brillante autore contemporaneo alla vana ricerca di una casa editrice), ma la sua estetica irregolare, il suo “cattivo gusto”, la deliberata violazione del decorum letterario attraversano di fatto l’intero romanzo, dall’inizio alla fine.
Laiseca cita inoltre Bradbury (Cronache marziane), Collodi (Le avventure di Pinocchio), Ayn Rand (La fonte meravigliosa), Shakespeare, Wilde; talora ammicca, parla, “insegna” al lettore, sugli esempi classici di Rabelais, Cervantes, Sterne, Diderot; e sparge a capriccio, qua e là nel testo, segnali occulti, rimandi allusivi a libri o vicende storiche, utili a completare l’opera di destrutturazione del genere prescelto, il poliziesco hard-boiled.
Per dare un esempio. I momenti di esuberanza descrittiva, e penso alle visite del commissario ispettore Craguin alla morgue e al museo policial, sembrano evocare, in un tributo di pari follia, l’esasperata meticolosità con cui Martial Canterel, protagonista di Locus Solus di Raymond Roussel, descrive agli amici le sbalorditive invenzioni del suo musée en plein air.
Per darne due. L’inserto fantastorico, quasi a metà romanzo: “Rassegna di barbarie, efferatezze, atrocità e deliri”, trae possibile e cumulativa suggestione dal Marquis de Sade (Le 120 giornate di Sodoma), da Octave Mirbeau (Il giardino dei supplizi), da Georges Bataille (Le lacrime di Eros), da Osvaldo Lamborghini (El fiord), seppure in un rimpasto decisamente burlesco.
Per darne tre. Non escludo, ma senza aver avuto abbastanza coraggio da congetturarlo a piè di pagina, che la misteriosa sentenza di Craguin «Il passero è il nazi degli uccelli» richiami la demenziale campagna anti-passeri lanciata da Mao Zedong nel 1958, che al piccolo ladro di granaglie affibbiava la taccia di sabotatore, controrivoluzionario e nemico del popolo: nazi, a dirlo in breve.
Rimangono le referencias raras o infraletterarie: molte, moltissime, probabilmente più di quante si riesca a indovinarne. Contentiamoci di queste. Quando il commissario ispettore John Craguin va per la prima volta alla morgue, il custode gli mostra il cadavere ancora intatto di una bella e giovane donna, lo esorta a toccarle i seni e poi comincia a spiegargli un complesso sistema di pompe e meccanismi, da lui ideato per «rimettere in piedi» i cadaveri, trasformarli in robot biologici e salvarli dalla decomposizione. La scena è meravigliosamente laisecana, ma trova motivi ispiratori, io credo, in Depósito de cadaveres di Félix Llaugé Dausá, romanzo pubblicato nel 1960. Così come, mi piace pensare, negli ottocenteschi The Quaker City di George Lippard, amico di Poe, e L’âne mort et la femme guillotinée di Jules Janin, che dal 2015 si legge finalmente anche in italiano, tradotto da Giorgio Leonardi[10].
E poi il cinema… Può il cinema non aver influito su di un testo che è già quasi uno script, con le sue didascalie, le sue precise indicazioni di regia, di montaggio, perfino sonore? Dalla prima parentesi “metalettica” il lettore apprende che i fatti si svolgono all’epoca del Proibizionismo, ma talvolta, per effetto di brusche inversioni spazio-temporali, vi si mescolano eventi del futuro. L’idea ha probabilmente sostanza filosofica, o forse no; in entrambi i casi, parrebbe giustificato assecondarne il delirio e farla derivare da un classico del gangster movie, Scarface di Hawks-Rosson (al quale il romanzo rende indiscutibilmente omaggio): l’ambientazione del film è la Chicago degli anni Venti, eppure, nella breve sequenza della sparatoria allo Shamrock Bar, in alto sulla porta del locale vediamo scritto “1936”. Chissà. Le vie (traverse) di Lai erano infinite.

LS: Finora abbiamo detto: metafora bellica, lotta alla coerenza, delirio, musica e riscrittura. Messi così in ordine, questi cinque punti vanno a finire (se ci pare) in un sesto e conclusivo: la tensione politica. Sotto quest’ultima lente, riferendosi a È il tuo turno, Hernán Bergara sottolinea il valore fortemente politico del testo: «È difficile spiegare come il romanzo sia riuscito a sfuggire, in tempi di roghi di libri e di sequestri e sparizioni dei loro autori [siamo nell’Argentina della seconda metà degli anni Settanta] a obiezioni prevedibili, trattandosi di un romanzo che parla di picanas [pungolo elettrico nato per governare il bestiame, usato poi sotto Videla come strumento di tortura], di rapimenti, di detenzioni clandestine e di torture nei confronti di avversari politici e rappresentanti sindacali da parte delle forze di sicurezza e del potere politico[11]». Cioè a dire: la politica è elemento assai presente nel testo, ma nonostante ciò il libro riesce a sfuggire alla censura. Questo forse avviene, azzardo, perché il suo valore politico si mimetizza nel delirio, ossia in una dimensione esistenziale che, secondo lo schema classico che spogliava della soggettività coloro che a vario titolo venivano definiti “pazzi”, “malati mentali” etc., sottrae credibilità a chi sta parlando.
In tal senso, a tuo parere, il delirio in Laiseca può essere considerato come camuffamento, un diversivo strategico, per affrontare sotterra il dato politico? O le due cose convivono senza dipendere l’una dall’altra? O quale altra possibilità?

FV: In effetti, quando Su turno entra a far parte del catalogo Corregidor, Serie Escarlata (con l’aggiunta al titolo originario di un …para morir acchiappalettori che Laiseca non riesce proprio a digerire), la censura videlista imperversa già da otto mesi. I libri inceneriti si contano a migliaia, e l’elenco degli scrittori finiti in galera o assassinati o desaparecidos continua ad allungarsi. Ragioni che avvalorerebbero senza dubbio la tua ipotesi “azzardata”, se non fosse che…
Laiseca rifiutò sempre, per Su turno, la definizione di romanzo testimoniale – e questo malgrado ne rivendicasse con forza la politicità, giudicandolo una prima, veloce discesa al nucleo delirante del Potere («obra inmortal, incomprendida y magnifica», così lo esaltava in El gusano máximo de la vida misma)[12]. Storceva i baffoni, dicono, anche nel leggere, sulla controcopertina della riedizione Mansalva, che il libro aveva anticipato «los mecanismos de aniquilación» della dittatura militare. Insomma: a dar retta all’autore – non testimone né visionario – il romanzo esigerebbe spiegazioni alternative per i suoi nazisti, sequestratori e picanadores…
Una plausibile è la seguente. Trasformato il potere in simbolo universale, categoria sintetica dell’eterno e insanabile conflitto di Essere e Antiessere, il disordine laisecano vi avrebbe compreso, forse macchinalmente, sprazzi di contingenza argentina (non limitati per di più al golpe del 24 marzo, il cui terroristico preludio è facile scorgere nei crimini della Triple A, fra il 1973 e il 1975).
Un’altra è quella che Francesca Lazzarato suggerisce nell’eccellente recensione di È il tuo turno per «il manifesto» del 22 febbraio 2018, riproposta nel blog «La tartaruga equestre». La faccio tutta mia, e chiudo in bellezza: «La parodia e il gioco delle citazioni sono irresistibili, ma il libro non può non risultare inquietante, se si pensa che venne pubblicato nell’anno del colpo di stato, con una sagoma senza volto in copertina che evoca il siluetazo del 1983 (quando le Madri argentine riempirono i muri con le silhouettes senza volto dei figli scomparsi), e sembra annunciare le stragi della dittatura; sappiamo che in Laiseca non c’era la minima intenzione di alludere alla situazione dell’Argentina di quegli anni o di disegnare una metafora politica, ma è inevitabile, per chi legge, pensare a come la letteratura possa trasformarsi in lettura del presente e visione del futuro, al di là della volontà o della consapevolezza di chi scrive[13]».

*

[1] Piglia 2013.

[2] Nelle concitate fasi di revisione che hanno seguito la stesura del dialogo, una voce afferma autorevole e grave: “I conflitti in Laiseca non sono solo metafisici, ma anche cosmologici tra l’Essere e l’Antiessere (Así como es arriba es abajo. La batalla terrenal es un espejo de la guerra celestial)”. I curatori e i dialoganti assentono con deferenza, [N.d.C.].

[3] Piglia 2013.

[4] Laiseca 2017 b.

[5] Velázquez 2013.

[6] Laiseca 1987.

[7] Sasturain 2004.

[8] Duarte 2016.

[9] Cocco 2018.

[10] Janin 2015.

[11] Bergara 2016, 125.

[12] Laiseca 1999.

[13] Lazzarato 2018.

***

Bibliografia

Bergara 2016 = Bergara H., “La finzione Laiseca”, traduzione di Maria Cristina Cavassa, in Alberto Laiseca, È il tuo turno, Arcoiris, Salerno, 2017, traduzione di Francesco Verde.

Cocco 2018 = Cocco E., “La scena del crimine di Alberto Laiseca”, «L’Irrequieto», 19 ottobre 2018.

Duarte 2016 = Duarte I., El Monstruo en la piedra, 2016 (https://vimeo.com/172723846).

Janin 2015 = Janin J., L’asino morto, traduzione di Giorgio Leonardi, Edizioni della Sera, Roma, 2015.

Laiseca 1987 = Laiseca A., Poemas chinos, Buenos Aires, Tierra Firme, 1987.

Laiseca 1998 = Laiseca A., Los sorias, Buenos Aires, Simurg, 1998.

Laiseca 1999 = Laiseca A., El gusano máximo de la vida misma, Barcellona, Tusquets, 1999.

Laiseca 2017 b = Laiseca A., È il tuo turno, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2017, traduzione di Francesco Verde.

Lazzarato 2018 = Lazzarato F., “Realismo, delirio, premonizione”, «il manifesto», 22 febbraio 2018, [«La tartaruga equestre», 25 febbraio 2018].

Piglia 2013 = Piglia R., “La civiltà Laiseca: prologo a Los Sorias” (prefazione a Laiseca A., Los Sorias, Buenos Aires, Simurg 2013, tradotta da Gianluca Cataldo su «Nazione Indiana» (https://www.nazioneindiana.com/2015/12/07/la-civilta-laiseca/).

Sasturain 2004 = Sasturain J., prefazione a Laiseca A., En sueños he llorado, Pagina 12, Buenos Aires, 2004.

Velázquez 2013 = Velázquez J., “Hay que humanizar el poder para salvar la civilización humana”, in «Tiempo argentino: suplemento Cultura», 5 maggio 2013.

 

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