Nella collana di Edizioni Crapula compare, qui e ora, un testo, un proemio per una scrittura che non si pone come limite nient’altro che la possibilità, esperita personalmente, di fare della tradizione gioco, commedia. Questo testo di Alfahridi – composto un decennio fa – è un’iniziazione e in quanto tale bisogna essere predisposti ad acclararne i simboli.
Quando il compagno arabo lo concepì, c’erano anche una statua – ricordo – e la sanzione di una pena: usteron proteron, la parola che si getta fuori di sé prima che sia stata digerita. La parola è la condanna di ogni poeta – di ogni Tiresia (Le ninfe sono partite. – T. S. Eliot permettendo!). La parola si fa gesto e angoscia dell’impossibilità di isolarsi dagli altri gesti, ricerca talvolta ciecamente di predire ciò che gli occhi – accecati dalle schegge della letteratura frantumata, maldigerita – non sono in grado di confutare.
Insomma: ognuno si prenda le responsabilità del proprio parlare, perché ciò che, una volta, è stato gettato fuori (c’era anche Derrida, da qualche parte supino) non ritorna dentro se non come residuo di un conato acido.
Ancora: responsabilità.
E una pagina correlata, l’educazione del fauno, su Radio Flanagan
Gesti, please. Gesti umani, molto di più. Pietà. Io, io sì, io invece – non posso. Uno, due, tre: Aborti. L’ho sparata. Ho sparato; sui gesticuli.
Voi – ma se fossi in vena d’indulgenze, una venuzza, direi: diaspore. Uno, due, tre: diaspore d’essere. Roteando le braccia a formare un cerchio conchiuso. Inclusivo. Certo il dramma è l’esclusività, ci si ammazzerebbe per una privazione…
Tiresia, l’uomo che è stato donna, poi pescatore e mercante di spezie, suicida infine per un impiego in banca, non avrebbe pietà di voi. E neanch’io.
Certo io non sono stato donna. Un peccato: il piacere contrattivo, la passività e le altre moine che si vanno dicendo, è un fatto di piani di stile. Si può fare, là da voi: con specie; ribrezzo e desolazione. Si deve fare qua, quaggiù. Così giù che il calore soffoca. Ma poi dipende dalla stagione – altre volte si intirizziscono i piedi.
Ma la specie è crollata, marcita, triturata. Sminuzzata, e sta. Di fatto è ambigua, offende.
Bisognerebbe smettere di andare causa soltanto questo inerte retaggio senile: tanto comunque si muove. È proprio inutile quel movimento particolarmente coinvolgente, implicante. Anche di questo, si giudicherà.
E’ probabile, la materia: i probabili grumi di polvere addensati tra l’alluce e le altre innominabili dita. È la situazione preferibile, quando la sky line sono i piedi sporchi. Orizzonti di grumi. Ma questi peccati di gola, è bene tacere. È una cosa frequente: bisogna saperne di oggetti, e di aneddoti. Non si sa mai: il rubino dello champagne.
Situazione. Posizione. Posti e situati; ordine, please. Alla prossima probabilità di significazione, c’è un premio tutto nuovo. Una nuova indulgenza: silenzio; gesti nuovi, taciuti, zitti.
La minima dispersione è fondamentale. Fondamentale è disperdere il minimo. Bisognerebbe disperdere, quanto meno – possibile. Insomma: tono. Musica.
Una volta Tiresia mi disse “non si vede”. Ma è passato molto tempo. E figurati; se tutta la capacità – incanalata, puntata, posta e situata – potesse farci vedere.
Un fatto d’inclinazione. Colle palpebre chiuse si può sempre giocare a deformare i riflessi di luce assunti e dargli nomi, del tipo: “Ossessione, usteron proteron”. Si ma, aspetti, dico – già dare nomi è un usteron proteron.
Tono, sì. Sì: è sempre un passo solo che ci separa dall’informe – ed allora sì, orgie amorfe!
Ma le luci, gli oggetti, i cieli arrugginiti dalle luci, sospesi sui crani eretti dei cipressi…
Sì! Si può durare – anche indefinite circoscrizioni di evento; anche sbavature, simmetrie, circuiti. Sì! Soltanto indefinite circoscrizioni di evento. E poi, pezzo pezzo, fare somme.
O no?
Infatti no. Ogni pezzo il cordone aggrappato all’utero dell’altro, una immensa filiazione: complimenti! Poi i figli si sa quando crescono dimenticano.
E l’individuazione non si può toccare. Noli tangere. Tanti ranocchi: ognuno il suo reame, il suo stagno, il suo sedimento.
Si giudicherà. Infatti Tiresia quaggiù finiva sempre così, dicendo si giudicherà, si vedrà. Ma se non si vede, dico io, con tutta la posizione, la situazione, con tutta la mira, come si vedrà non lo so.
Non si può credere, agli uomini che son stati donne. E pescatori. E così. Via. Non si può credere. E’ una cosa triste, non ci sono momenti che non siano estremi, non ci sono momenti.
C’è dell’altro, poi, se la contesa è tra oggettini acefali, gestanti: non bisogna sforzarsi così, c’è il rischio di partorire – mostri. C’è sempre dell’altro, ad un passo o due.
È quel che dico spesso, dovrei notiziare. Ed allora: tono. Divulgativo. La probabilità di morire è sempre molto alta; quella di sopravvivere sempre troppo alta. I giochi sono fatti. I conati irriflessivi, assuefatti. Compiuti i riti, non si torna indietro. Si raccomanda esercizio. Tecnica, tecnica.
“Non è il desiderio di diventare celebri, ma l’abitudine di essere laboriosi a permetterci di produrre un’opera.” Marcel Proust, All’ombra delle fanciulle in fiore, Libro II. L’ho scritta su di un foglietto ingiallito di una Moleskine, messa in un quadretto 10×20 ed appesa in camera mia dove prima c’era un calendario, dove prima i giorni trascorrevano pur restando uguali, mentre ora, un po’ più concentrato, osservo i segni del trascorrere, “con più impegno”.
Dotto’ le sue riflessioni sono sempre profonde e ispirate. Io però, devo dire, ho detto “no, basta” al moleskine.
“quando di ritorno dalle schiere etc etc..
dunque è vero che Lei, xxxxxxxx, la sa lunga
sono ancora – quasi mi viene da dire sempre – le 12.04: l’ora del pasto, della crapula.
in cambio è il trenta marzo
Crapula aeterna est? questo mi stai insinuando, Fharidi.
se è così stiamo apposto, Quijano
cosa vuole che Le dica, Fahridi, l’epocalità non l’ho inventata io..saluti a Quijano ;-)
eh si, qua nessuno ha inventato niente :D
Quijano, sia detto per inciso, è un infingardo e un vanesio. o no?
infingardo non lo so..vanesio assai..però ci piace, o no?
eccerto. lui lo sa meglio di tutti – infingardo e vanesio
d’altronde, se lo so meglio di tutti, ciò giustifica la mia vanità, e in più, tenendo nascosto il fulcro della mia conoscenza e essendo un infingardo, ho pure dimenticato che cosa giustifichi la mia vanità. ;)
lupus in crapula, sto Quijano
la mia predilezione è dettata dal formato più che altro, modello taccuino con la molla che lo chiude usata anche per tenere la penna. Surrogati -più economici e non troppo ingombrati, tranne qualche agendina- non ce ne sono tanti sul mercato :/
vero, prediligo anch’io!
io son passato al quadernone: più spazio e meno sordi (quanfo tutto non è digitale)
uà Quijano non ti ho nemmeno detto “gracias” (nella tua castigliana lengua) per l’atrio. Se commentare sè stessi è peccato, solo voglio dire che c’è (c’era) Beckett prima di ogni altra cosa. Se non è peccato, invece, me sto zitto, aho. è domenica, vado a scopa sur pratone d’a casilina
L’atrio mio è il tuo Fharidi, altro che pratone d’a casilina!