Se dovessi descrivere lo schifo che mi prende ora ad andare “a capo”, a spezzare la linea continua dalla scrittura, non saprei da dove iniziare.
C’è stato un tempo in cui l’a capo era la norma, l’unica. C’è stato poi un altro tempo in cui l’a capo era il modo (tra l’altro speculare) per fuoriuscire dall’a capo. Ciò che resta: il frammento, la scoria di vetro con la quale guardarsi dentro, come direbbero i poeti dell’a capo- questi animali docili dal pelo lungo, cani ammaestrati.
Guardati dentro.
Viscere e sangue
ti disgustano?
Eppure
tu dici di essere
come sei.
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