Di comunità si parla spesso in terza persona, quasi fosse una ‘cosa’. Nel gergo della politica, si sente dire per esempio che le decisioni debbano essere prese a livello ‘di comunità’, come se si parlasse di uno scalino, solido e dai bordi netti. La comunità, quando è discussa in questa maniera, viene presentata come un qualcosa dai confini apparentemente fissi: la comunità nazionale, per esempio, o quella locale, trattate kantianamente come delle cose-in-sé, che esistono separatamente da chi ne parla. Questo modo di trattare la comunità come cosa, a mio avviso, mostra tutta l’ossificazione del ragionare per definizioni. Nel caso di un cerchio tracciato sul foglio, per dirla con l’antropologo Tim Ingold, la definizione coglie ex post la forma chiusa e completa, non il movimento ex ante di tracciatura, che quella forma crea assieme ad altre. Se allora ci distanziamo dalla comunità intesa come cosa, apriamo uno spazio per ragionare di essa diversamente. Volendo cogliere il ‘movimento di tracciatura’ della comunità nel suo farsi, dobbiamo infatti istruirci a vedere non tanto la comunanza già istituita, ma piuttosto il mettersi in comune. E, qui, il salto è dal prodotto al processo.
Il processo di mettersi in comune, sosteneva Giambattista Vico, parte dal corpo. È da Giove che la musa prende le mosse, sosteneva appunto il filosofo napoletano. Giove, in quanto tuono, crea infatti un luogo del sentire (paura, fremito, allerta) dal quale trae ispirazione la musa della cultura, nel tentativo di specificarne il significato, in termini di quali azioni il tuono ‘rende necessarie’ (per esempio, la fuga o il riparo). Dal tuono, e dal gesticolare fra persone in risposta a questo, nasce un collettivo culturale che quel tuono trasforma, da suono, in elemento affettivo dello spazio, persino in divinità: Giove, appunto. La comunità, allora, nasce nel corpo, e si esprime attraverso una produzione culturale operatain comune, che coordina le persone in un reticolo di movimenti in dialogo fra loro.
Per altro verso, la comunità nel suo farsi appare anche come la creazione sociale dell’individuo. Prendiamo, per esempio, la nozione di pazzia. La pazzia è spesso tale finché una persona avverte sensazioni cui non sia grado di offrire un’espressione culturalmente condivisibile e riconoscibile. Quante volte può essere capitato, al cospetto di chi ascolta e non giudica, di sentirsi non più soli, e sinceramente non più pazzi. Due pazzi che si capiscono, innanzitutto, non sono più — individualmente — pazzi. E, collettivamente, costituiscono una comunità in quanto hanno trovato il modo di mettere in comune il proprio sentire in una forma culturale (linguistica, figurativa, gestuale) che sarà in grado di circolare e, attraverso trasformazioni e interpolazioni successive, di rendere accessibili anche ad altri individui formulazioni alternative del reale, che diventano in questa maniera percettibili, intersoggettivamente riconoscibili. D’altronde, se il pazzo diventa pazzo in quanto non ancora messosi in comune, non stupisce più di tanto che istituzioni totali comegli Ospedali Psichiatrici Giudiziari — dove sovente la pazzia veniva prodotta dallo stesso atto di chiusura dietro sbarre e cancelli — facessero dell’isolamento una regola, e della comunanza un bene prezioso (‘l’ora d’aria’), da centellinare col contagocce. E non stupisce che, forse, il modo migliore di sconfiggere la pazzia è di metterla in comune, e farsi fabbri nel produrre assieme le chiavi con cui aprire i cancelli nei quali la pazzia altrimenti cresce con l’isolamento.
(Immagine di Ilaria Poerio)
Ma vi è di più. La comunità, come ‘mettersi in comune’e la comunità come ‘individuo che diventa socialmente riconoscibile e visto’, non esauriscono appieno la trasformazione dal prodotto al processo di cui voglio almeno consolidare un’intuizione. La comunità è anche, come la matita che traccia cerchi sul foglio, in costante movimento. Da una forma all’altra, da un’identitàall’altra. La comunità, in questo senso, non ètanto una cosa quanto, forse, una persona. Le persone, d’altronde, sono soggette a cambiamenti, a movimenti di auto-differenziazione (per cui siamo diversi a vent’anni rispetto alle persone che eravamo a cinque). Non stupisce che, nel gergo di ogni giorno, i termini che si usano per descrivere questo processo siano presi proprio dall’orticoltura: le persone ‘crescono’ o ‘maturano’. Sono termini, questi, che trasmettono un profondo apprezzamento delle qualità del cambiamento, per come esse ci appaiono attraverso esseri vivi come una pianta o un frutto.
Allo stesso modo, pure la comunità cresce. Prendiamo l’esempio forse più semplice: quello della famiglia. Dove, al nascere di un nuovo membro, si parte da un certo tipo di problemi (svezzamento, trasmissione del linguaggio, immunizzazione) superati i quali nuove difficoltà si presentano al sentire della famiglia come comunità. Per esempio, dal come gestire e regolare gli appetiti del neonato, si passa a problemi inerenti l’acquisizione del linguaggio, fino alla necessitàdi sviluppare le capacitàdi accompagnare il processo di autonomizzazione adolescenziale (quale genitore non si trova disarmato, nonostante i trascorsi decennali con la medesima persona, di fronte ai sussulti di un quindicenne?). La famiglia, quando è vista non tanto come insieme chiuso, ma come relazione in evoluzione, sollecitata da eventi di natura corporea(come il presentarsi del corpo di un bambino) e, a partire da questi, attraversa diverse età a fronte della necessità di sviluppare, nel tempo, i mezzi per gestire una gamma sempre crescente di difficoltà pratiche. La famiglia può dunque vedersi trasformata attorno al corpo del bambino, e si imbarca da quel momento in un viaggio di autoeducazione e di arricchimento culturale (sviluppando una ‘cultura’ dell’essere quella particolare famiglia). Allo stesso modo, le comunità ci cambiano intornoe ci offrono stimoli e sussulti ai quali rispondere. La comunità nel suo farsi, come mettersi in comune, è, in tal senso, sempre al limite dell’ineffabile, tesa nello sforzo di scoprire le proprie ali a mezz’aria, affinando una propria cultura in dialogo con le sollecitazioni che vengono dal corpo. È in questo senso, dunque, che la comunità riesce a dismettere la corazza di una cosa-in-sé, e acquisisce coscienza della possibilità che comunità, alla fine, siamo semplicemente noi nel nostro mutevole e fluido convivere.