Fame di realtà è un testo difficile da inquadrare, di certo non è un saggio di critica letteraria. David Shields ha “mixato” (mai termine fu più idoneo) un’opera che si propone esplicitamente come manifesto. Fame di realtà è un manifesto che non si esprime come un manifesto, che tende a confondere chiunque si aspetti una chiara direzione da seguire: c’è troppo materiale, troppo, e in questo eccesso di informazioni ci si sente come presi a pugni. Fame di realtà stordisce.
La domanda resta: che cos’è Fame di realtà?
La risposta, nonostante tutto, resta: Fame di realtà è un manifesto.
La struttura dell’opera è semplice: si tratta di una serie, numerata, di 618 brani (o aforismi, visto il tono assertivo che li contraddistingue), ripartiti in 26 capitoli, ogni capitolo una lettera alfabetica (A. Ouverture; B. Mimesi; C. Libri per gente che trova la televisione troppo noiosa, ecc.). Singolare, piuttosto, è che quasi in tutti i brani Shields riprenda, citi, manipoli altre opere, e dall’appendice finale si evincono gli autori saccheggiati. Questo perché Fame di realtà è dichiaratamente opera di saccheggio e di collage, di remix. Shields, d’altro canto, nel capitolo L. Collage, scrive:
“327. Il romanzo è morto. Lunga vita all’antiromanzo, che si nutre di scarti!”
“330. D’istinto tutto quello che scrivo mi sembra in qualche modo un collage. Il significato, alla fine, è solo una faccenda di dati adiacenti.”
E quindi, si chiederà, Fame di realtà è un assemblaggio di scarti? Lo è, forse, nel senso ecologico del termine: si è detto tutto, c’è poco da aggiungere, perché ridirlo in altri modi quando si può semplicemente tornare alle fonti? perché non “copiare”? sembra un paradosso, lo è, eppure c’è del buon senso. Oramai siamo sommersi di materiale, anche intellettuale, per cui, invece di continuare ad accumulare, Poiché tutto si è già detto (“B. 10. Nel II secolo a. C. Terenzio disse: «È impossibile dire qualcosa che non sia già stato detto»”) e l’uomo è sempre uguale a se stesso (“C. 68. Mi interessa capire i segreti che legano gli esseri umani. In fondo in fondo, sono sempre gli stessi”), Shields percorre e propone la tecnica del missaggio. La Letteratura, quindi, può considerarsi arte della ripetizione, disonesta in quanto si ripete fingendosi originale, altro paradosso, questo, che si può dedurre dall’opera di demistificazione portata avanti da Shields brano dopo brano.
Si ragiona per eccessi, naturalmente, ed eccessi discutibili.
Di fatto a Shields, più di tutto, interessa il soggetto scrivente. Con giustezza, in prefazione,Stefano Salis ritiene decisivo il brano numero 347:
“Amo la letteratura, ma non perché ami le storie in sé. Trovo quasi tutte le mosse del romanzo tradizionale incredibilmente prevedibili, fiacche, improbabili ed essenzialmente inutili. Non ricordo mai i nomi dei personaggi, gli snodi della trama, i dialoghi, i dettagli dell’ambientazione. Non mi è chiaro cosa dovrebbero rivelare sulla condizione umana narrazioni simili. Invece sono attratto dalla letteratura come forma di pensiero, di coscienza, di sapienza. Mi piacciono le opere che mettono a fuoco non pagina dopo pagina, ma riga dopo riga quello che importa veramente allo scrittore, invece di sperare che tutto questo emerga chissà come misteriosamente dalle crepe della narrazione, che è quello che accade in quasi tutti i racconti e romanzi. Le opere-collage parlano quasi sempre di ‘quello di cui parlano’ — che potrà sembrare un tantino tautologico — ma quando leggo un libro che mi piace davvero, sono emozionato perché sento l’emozione dello scrittore che in ogni paragrafo sta palesemente esplorando il suo soggetto.”
Shields inoltre persegue la ricerca quasi bulimica della realtà (in tutta l’opera tanto si dice di memorie, autobiografie, documentari e simili) la cui ragione d’essere può riassumersi in due aforismi:
“149. Le storie più belle sono quelle vere” (da Reynolds, Only the Truth Is Funny)
“159. L’arte basata sulla realtà è una metafora del fatto che questo è tutto quello che c’è, che non c’è nient’altro.”
E sulla realtà ci fermiamo, qui sembra che la Letteratura segni definitivamente il passo, sembra che Shields vi ravvisi la fine della Letteratura, e da questa fine, da questo cedere alla Realtà, quali narrazioni possono generarsi? Quali forme, quali generi? Quali linguaggi? Queste domande restano senza risposta, a meno che non si voglia considerare risposta un pericoloso aforisma del penultimo capitolo, Y. Manifesto, pericoloso perché segnerebbe lo scacco finale della scrittura come arte, della creazione letteraria:
“598. L’urgenza oggi si addice più a un racconto di vita vissuta che a uno modellato dall’immaginazione sulla vita.” (da Gornick)
Giunti a questo punto, perché scrivere? La storia migliore è fuori, nascosta in qualche anfratto della realtà, nella testa di qualcuno che sta semplicemente vivendo la sua vita, e questo qualcuno potrebbe un giorno raccontarla a viva voce a qualcun altro, e questo qualcun altro potrebbe essere chiunque, uno di passaggio, che ne godrebbe al momento o anche no — non è detto che gli debba interessare —, e allora la storia morirebbe lì, in quel preciso momento, per rinascere sempre diversa perché la memoria, si sa, rielabora e tradisce, sempre. Che fine ha fatto la Letteratura? Questa non è più Letteratura, la demistificazione di Shields ne decreta la morte, e allora che senso ha un Manifesto?
Fame di realtà lascia il lettore esigente con un senso di frustrazione. Si vorrebbe afferrare l’autore per le spalle e sballottarlo chiedendogli: cosa dobbiamo scrivere ora? cosa dobbiamo fare?
E invece no, bisognerebbe semplicemente prendere una distanza di sicurezza, leggere, riflettere ma poi non cedere; Fame di realtà non è un manifesto per scrittori e lettori, al contrario può esserlo per chi vive, può mostrare a chi vive come evitare di essere vittime della finzione, della Letteratura, come evitare di essere inglobati dalle narrazioni. La salvezza sta nel non produrre storie, linguaggio, scarti. Essere muti, per non farsi sommergere dalla realtà. Anche questo, naturalmente, è un paradosso, un’ipotesi di lettura, una malsana interpretazione, ma tant’è: non bisogna illudersi di trovare risposte, le domande bastano perché lo scopo è, semplicemente, di evitare l’inerzia fin quando possibile. Da qui la lettura come mezzo di sopravvivenza e come arte della vana fuga.
Arrivo sempre in ritardo, perché vado saltabeccando qua e là sul web quando non so che fare.
L’ho letto appena uscito, questo “manifestino”. Sì, sul mix, sul frullato sono abbastanza d’accordo, ma quando farnetica di “monnezzone” (traduzione impropria?) a proposito del romanzo di Franzen ‘Le Correzioni’… beh, poveraccio!
Per tenere viva la narrativa – e non le neurocontorsioni – basta indagare la proteiforme vita degli esseri umani… e magari scrivere bene. Se poi, ma qui sto andando fuori tema, si vuol dare a un romanzo/racconto ecc. un tono filosofico, mi piace non perdere di vista (dalla mente, insomma) quanto dice Carlo Sini “La filosofia non è un’episteme enciclopedica, ma un esercizio connesso alla vita”.