Ada si trovò davanti a un muro. Era color vaniglia e aveva qualcosa di innaturale che non riusciva a definire, forse per via del fatto che sull’intera sua superficie ci fosse un’unica apertura: una porta, in alto sulla destra, a cui si accedeva tramite una lunga scala. A lei parve di stare in un quadro di Escher con un trucco per nascondere l’angoscia delle altre rampe, degli archi che s’intrecciavano, delle finestre che non finivano mai di guardarsi le une nelle altre.
Ma non c’era più tempo per pensare, perché dietro un punto imprecisato del chilometrico corrimano, era comparso un uomo. Non uno qualsiasi, lei lo conosceva bene. Cappotto beige di panno, panciotto marrone, cravattino bordeaux fissato da una piccola Medusa annerita, mani e viso arrossati. Sorrideva come sollevato da qualcosa, come al termine di un dolore prolungato.
Accanto a lui c’era una donna. Ada conosceva anche quella, ma più profondamente, e le sue dita, strette intorno allo stomaco che non potevano abbracciare, lo sentirono, tastarono quella familiarità prima di lei. Anche la signora era anziana, come l’uomo al suo fianco: portava un soprabito grigiastro di una strana stoffa, calze opache e spesse, scarpe di vernice e un capello con una piuma appuntata su un lato. Le mille pieghe attorno alle sue labbra si contrassero e divennero una sola fenditura sul volto stanco e brunito dal sole, accompagnata dal luccichio di due occhi minuti e neri come pozzi. Ma era un segno di serenità, per quanto scuro; anche stavolta, a Ada lo dicevano le dita.
Si avvicinò alla donna, con lo stomaco in subbuglio, e affondò il viso nel tessuto peloso del soprabito cangiante. Conosceva la violenza di quel moto che le stava carburando a metà fra il petto e l’esofago, prendendo la rincorsa, e cercò di ributtarlo giù, ma era come affogare nel veleno. Così lasciò che la terra tremasse fin sopra ai suoi occhi, spaccando le falde e facendo sgorgare nuovi fiumi. Durò il tempo del dolore di un taglio. Il resto fu nient’altro che riflesso.
La donna anziana si staccò poco dopo con un’espressione dolce impressa sul viso, lasciando miriadi di pelucchi argentati nel volteggio d’aria del distacco. Poi si fece seria, ma di una serietà limpida, scevra di severità, impregnata di quella consapevolezza leggera che è la sola capace di sfiorare una cosa simile all’essere felici. L’uomo, che pareva imitarla come uno specchio, le si avvicinò con andatura piana e rispettosa. La prese delicatamente per un braccio e, come obbedendo ad un reciproco cenno telepatico, l’accompagnò verso la scala.
Ada restò a guardare con le braccia allungate lungo i fianchi. Ora era più convinta di prima che si trattasse di unodei quadri di Escher; che oltre la porta senza cardini né suono ci fossero altre scale, altre pareti imbrattate giallo pallido, forse anche profumate, archi legati come le sue dita sulla pancia quando aveva cominciato a tremare, finestre aperte in altre finestre. Ed era certa che da qualche parte lì dentroci fosseroanche loro, persi in un labirinto che a lei non era dato vedere ma solo intuire. La porta la divideva dai due anziani vestiti di tutto punto; si era richiusa alle loro spalle senza far rumore, e quando Ada s’era svegliata aveva ripensato alla storia del riflesso, della fitta di dolore che genera altri miliardi di dolori più piccoli ma sempre e solo figli di un imprecisato genitore.Così era ritornata a dormire nella speranza di capirla meglio, quella storia, e magari di provare a salire lei su quei gradini, per ritrovare l’uomo e la donna o anche soloper avere la rara occasione di perdersi senza il timore di farlo. Ma non aveva visto più niente, non aveva incontrato più nessuno, e la lunga scala era rimasta ferma, vuota e silenziosa e in compagnia della sua porta, da qualche parte, nella mente di un altro.
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L’articolo è parte di Ô Metis V, Invenzione
L’illustrazione è di Maria Antonieta Canfield