«e pe’ me/ rest’ sul’ ‘addore/ terr’ c’ammesc’ ‘/a vit’ e se ne va»
Pino Daniele, Tutta n’ata storia
Tre ore per farmi un biglietto ’sto cazzone – e dove vai? E perché? Eh, sì! Al nord profondo me ne voglio andare, al freddo, lontano che il sole qua prende sui peggio liquami, e non si vede e non si sente altro – fosse solo merda, la merda io pure ci starei, che c’ha di male questa a parte puzzare? Invece no. È il verminaio che ci sbrodola attorno, tutto tranquillo come una specie protetta. Qua so’ secoli che il parassita non solo sguazza, si stende, trionfa: è l’unico vivente. Il resto si adagia a succhiare come quello – io qua non ci metto più piede.
Ecco. ’Sto treno è un relitto ma pure deve andare, nove ore da Napoli per arrivare a Milano, poi otto ancora a Strasburgo, cinque a Bruxelles, tre per Amsterdam. Da là poi si vede. Una notte e un giorno almeno di viaggio, hai voglia di bestemmie. Per dire, la bestemmia è il poema dell’anima pura, tutta quella forza sopita, il fuoco, il sangue e il petto all’infuori… tutte le canzoni che ho scritto negli ultimi tempi sono un’unica bestemmia, lente, spinte, sussurrate o sature poco cambia. E quelli invece che mi volevano fare: «Ti vuoi fare i soldi? Devi fare come quel cazz’in culo famoso, canta di strade, di morti ammazzati, denuncia tutto lo schifo in rima». Sì, poi mi fanno Falcone honoris causa – senza le bombe no, però! Lasciatemi almeno le bombe – invece io me ne vado, e vi fotto.
Faccio la fame per strada? E che fa? Mi azzecco in un parco colla chitarra pure un albero per scopare e dormire lo trovo. Uno spaghetto mandulino vongole e cazzimma? Eccolo, due stelle Michelin. Poi sì, mi voglio pure fare. Fare assai, di notte e di giorno, per strada e sul divano, alla luce patente; così la melmaglia la caco tutta fuori all’aperto, ma con ciò mi purifico e rinasco, non come le cavie del clan Achille Di Lauro. Mo’ però fatemi dormire.
’Sto cazzo. E come si fa a dormire? C’ho le pupille a cazzo duro, sbattono sbattono e non si chiudono. Le mie pupille tantriche. Possono solo stare a guardare, trasfigurare. ’Sti criaturi coll’olio di frittata in mano, i pantaloncini sbiaditi, i sandali rotti che mi corrono in faccia – vanno con mammà a trovare papà terrone – che da loro scappo? No, cristo supino! No! La polvere azzeccata ai polpacci, a tunnel e sombrero sull’asfalto finché proprio non si vede più – e chi se lo scorda? Chissà se giocherò mai più a pallone così, coi miei compagni titani. L’angolo alto, il pizzo, l’ascella insanguinata di Prometeo. Non ci sta più nessuno, questo è il fatto: sono tutti diventati qualcosa, spaccino, architetto, morto ammazzato; titano so’ rimasto io solo, e me ne vado.
Lo zaino, va’, là sotto. Ci sta ancora mezza bottiglia di J&B e un’acqua fredda. Zio pulp così insegna, whiskey con acqua e ’a maronna t’accumpagna! Ti fotte un po’ così, sirena, ti piglia e non la senti, tu col fegato bendato, Odisseo, a morire dalla voglia. Zio pulp Bukowski almeno c’aveva le palle, mica come quell’anima pia di Sartre. La cultura è lo specchio critico della società; sì, fondotinta e rimmel a palate.
Mo me lo fumo un coso nel bagno, mi canto pure una canzone; e se ci trovo una bella ninfa mi metto a fare il giovin poeta biondo.
E guarda un po’ là che ci sta, appoggiata al muro – una femmina bruna. Esco nel corridoio allora, prima mostro le credenziali – la chitarra – poi resto nel suo sguardo, rido.
«Dafne, senti guarda io non mi lavo da due giorni, però sono bello, nel bagno c’é una canna, un’orgetta e un’ode per te». Quella mi guarda, sbalordisce, indaga. Ci ho preso: sorride. «Apollo, è una vita che aspetto». Andiamo allora, la ferraglia barcolla, ci aiuta a farci vicini; pure a lei una doccia non guasterebbe. Nel cesso minuscolo, come due occidentali, ci suddividiamo il lavoro ciascuno secondo le sue competenze: io canto, una canzone da viaggio da orgetta e da canna che mi piace tanto, Sweet Jane, di un alter ego mio ancora vivo; lei, che c’ha il piercing al sopracciglio, chiude il coso. Al mio invito lo accende mentre io, al ritmo festante del ritornello che ho già cantato, pezzo pezzo sbottono là sotto. Adoro il nudo a metà, c’ha un che di precario, incatastato, sottomesso. Io da sotto comando e ti rendo servigio. Tu invece Dafne o ti fidi e godi o vattene affanculo. Il clitoride pure fa uscire pazzi; all’inizio è più difficile da suonare di un violino. Poi però vedi, c’ha un tasto solo, puoi improvvisare. Il violino invece lasciamo stare.
L’orgasmo da nudo a metà viene improvviso come la morte violenta. Dritto senza moine, e così la bruna tutta spalancata. Io mi fumo ’sto coso e di colpo non tengo più voglia; mi fa sempre ’sto cazzo d’effetto spirituale e mi commuove. Dafne però mi porterebbe con sé ovunque, bella voce e dita sensibili. «Vado a Latina da mia madre, fermati da me qualche giorno, la casa è vuota». «Dafne stupenda», le faccio, «tu c’hai un viso bianco, un interno coscia melone di pane. E una fica sugosa, ti riempirei di gioie. Però a potere non posso. Me ne vado da qua, capisci? Sto cercando una cosa che non riesco a dire ma che qua non c’è».
Lei mi guarda più strana ancora di quando l’ho spalancata. Mi mette a sedere sul cesso, mi abbraccia. Piange. Stiamo ancora ad Aversa, deve pensare, fino a Latina per l’addio ce ne vuole. Allora ricambia il favore: con la mano sinistra, lenta, una presa che prende pure le palle e dondola – il dondolio segreto che fa l’abbondanza. Smaltito l’effetto spirituale del coso mi mette diritto e mi monta; coi piedi a leva sulle sporgenze laterali del cesso, mi abbraccia e monta. Piangendo le vengo dentro: ti amo, Dafne di pane o come cazzo ti chiami.
Via la bruna, con lei nemmeno un decimo del viaggio. Odi et amo l’orgasmo di merda. Mi slaccia la mente, retrocedo a uno stadio animale infimo, come l’ignobile italiano medio davanti alla televisione. Mi attacca la dipendenza e la paura.
Sto andando o scappo? A resistere così cieco gratuito ci vuole la corazza di Vulcano. Se non la trovo che faccio?
Mo’ mi viene in mente mia madre, quella miseria di vivente sfondato di soldi e rimpianti. Solo le cose ci stanno; le cose i denti bianchi la carriera le maniere buone i voti gli esami io voglio la vita elettrica e voi fate schifo perché non l’avete mai nemmeno pensata.
Mammà a disperarsi quando me ne sono andato, i capelli in mano la cenere in testa – mica me la ricordo una volta che non piangeva, pure se il parrucchiere le faceva storta la piega le scendeva la lacrimuccia. Ci penso e la paura se ne vola. Grazie mammà: la corazza di Vulcano ce la dovevo già avere se da voi me ne sono uscito intero. E papà – questo nome che è convenzione, brevità di segno, che se no come dovrei dire – sborra schifosa idolatra, tu mi hai maledetto e io pure; se mi viene male guardati le spalle. Questo non finisce, questo è eterno, capito? Ci ho già sputato mille volte sulla tua faccia altera del cazzo. Manco dio ebreo si pensava più saputo di te – Giove tonante ti fulminerà gli stinchi.
Mo’ basta però, la paura basta. Chi beve con me? Oh! Che da fuori si vede le forme di Roma ladrona! Brindiamo! Viva le cupole, il cucchiaio der pupone!
Forse grido; uno di fronte coll’occhio dell’est mi guarda male… proprio tu dico? Con tutti i cazzo di nasdrovije che hai urlato in vita tua vuoi vedere che mo’ ti offendi? Fottiti, se non la vuoi sta mezza bottiglia pulp me la finisco io.
Cristo gentile ho dormito! L’incubo mi viene dietro, il demone dentro di me… io mi guardo bene dal maledirlo: lui mi ha scelto, io pure l’adoro. Mi ha detto nel sonno, così: guarda. E mi mostra sussulti, tremare di croste, aprirsi di terre sotto i piedi. Io dentro cadendo a precipizio ma lento abbastanza da vedere l’altro, una folta folla d’altri danzare e guardarmi cadere. Che spettacolo. Io che li ho già maledetti e loro, pure loro vogliono vendetta… E chi sono io per negare una vendetta? Venite! Venite e prendetene. Io c’ho la vena abboffata di vita pulsante, mi ci hanno mandato qua apposta, adesso, per voi. Ché se no sarei stato altrove, ve lo dico. A vagare per l’Ellade scabra a scoprire il fulmine e il discorso. E invece mi trovo qua in mezzo: macchine unte, onde catrami e cancri ai polmoni. È che qua ci sto apposta per questo, io mi prendo il catrame e lo sputo fuori per mostrarvelo, perché voi se no ciechi, stronzi!
Io vedo, così in sogno mi ha detto il demone amico mio.
Così sbuffando c’ho il culo in Gallia Padana. La ferraglia si ferma a Piacenza che sono le cinque del mattino. Ci sta un gruppo di giovini al binario, gli grido insulti terroni in dialetto. Il dialetto mio del golfo di Napoli, sotto sotto il Vulcano con influenze flegree, c’ha vocali potenti e distorte come i wha-wha dei pionieri. Quelli fanno per venire vicino, io faccio per scendere e pigliano paura. Faccio ’ste cose ogni tanto, manco un ultràs, che c’ho una voce dietro la nuca, mi pare invincibile, dice «simmo ’e Napule c’avita fa’ ’o bucchin’ ». Mi viene così, a gettate di adrenalina.
Eppure me ne vado, parto, non si capisce. Io stesso, dico. Non lo so, questo buco senza contorni pure lo devo guarire. E vado allora, scappo. Perché tanta munnezza tutta insieme l’ho vista solo a casa mia: santo martire o dio mariuolo – in mezzo tutto liquame, e io questo lo sputo fuori.
Però ci sta pure un’altra forza a casa mia, una cosa che così densa pure l’ho vista solo là, ed è il doppio preciso di questa melmaglia. Quella forza che c’avevamo io e i compagni miei titani: la vita nuda, una scarica dritta dritta nelle pareti pare mescalina – con questa cosa dentro uno viene fuori e non si libera. Poi però viene il punto in cui la devi sistemare, e allora: dio martire, santo mariuolo o ameba di mezzo. Tre ruoli di merda, se permettete. Io forse c’ho un po’ di sangue vichingo, che ne so; al nord me ne vado, volo.
Milano, scendo. La capitale d’Europa in Italia – sai che gioia allora ’st’Europa odierna. Il treno mi parte tra un’ora, gironzolo. C’ho un bagaglio di piuma e chitarra, un pezzo di legno scarso però pure lo faccio suonare. La stazione tempio del fascio – per l’architettura almeno erano buona committenza. Fuori grigio, il caffè fa schifo. È che quando ti abitui alla crema densa pastosa non c’è uscita.
Quattro vaganti in piazza, appena fuori, strimpellano, vado. Suonicchiano proprio, roba da spiaggia o naviglio. Saltello, ci vado, gli offro uno spino di fumo scuro come il mare nero – altro che Secondigliano, questo me lo porta un amico mio che tra i ruoli vari da assumere a casa ha scelto la libera professione.
A quello che canta gli piace, m’invita, denudo il chitarrino. Stanno suonando un folk leggero, li seguo col pezzo di legno mio. LA maggiore; amici cari, in questa tonalità vi scortico l’anima. Improvviso, canto senza testo, solo significante – adoro le vocali; blu, verdi, rosse me le prendo di ogni dove. Quelli mi guardano commossi – forse il fumo, forse sono io. Uno mi abbraccia, tutti a farmi complimenti; io che c’ho ancora abbastanza liquore in panza gli faccio «che ti credi polenta? Io vengo dalla bocca del Vesuvio, voi stavate ancora sugli alberi a parlare francese quando noi vi abbiamo portato la musica». Ecco, ricasco. Giustamente quello s’incazza, un altro si alza e fa per andarsene, quello è sopra di me che me la rido, mica li credo capaci di alcuna violenza… Quello sta sopra di me, uno scimmione. Mi prende di peso mi butta nella fontana. Col naso giusto sul cazzettino di pietra del putto da cui viene fuori l’acqua, che quasi glielo spezzo in due, fantasia pederasta – meno male che è freddo e acqua, il sangue presto si fa rosso duro. Poi ‘na doccia ogni tanto non guasta, nevvero, Dafne di pane?
Ma io le mazzate me le so tenere, me le merito proprio. No pain no gain dice il detto esotico di mezzo alla strada, e io con lui. E ne ho prese di enormi, tutte me le so’ sudate. Una volta a Castellamare, c’avevo diciassette anni, suonavo in un posto sul lungo mare. Stavo io chitarra e voce, un basso amico mio e il batterista che mi so’ praticamente cresciuto. Tra un pezzo e l’altro faccio una bella dedica sincera alla gentaglia melmosa che ha trasformato la baia bellissima in selva di topi e di fanghi. Funzionari politici e mafietti. Allora mi sentivo dalla parte della gente, ero ingenuo – mo c’ho vent’anni e la gente non esiste più. La gente è un’ameba schifosa. Insomma a uno che stava là di passaggio a bersi un amaro la mia filippica non gli garba propriamente. Viene da me, prende il microfono, si rivolge all’udienza inzuppata di malto: «Ma ‘stu guagliunciello chi si crede di essere? Che lui c’ha mai provato a governare un posto così, come dire, sgangherato? Io penso che cazzate così non le dovrebbe dire». La platea lo asseconda cacata sotto ma in fondo svogliata. Poi mi guarda: «Mo’ riprendi, ma basta stronzate». Io che dovevo fare? C’ho in mano un bicchiere, ne faccio arma. Gli tiro in faccia cinque euro di rhum e coca, alla facciaccia sua. Quello si fa afferrare per pazzo, mi vuole acchiappare, lo tengono, io però so’ smilzo, me la svigno ridendo. Il concerto, come d’uopo, addio, caput, finito. Questo però se la lega al dito, e figurati, capuzziello testa di cazzo. Allora mi fa seguire, e un giorno pure mi acchiappa. Torno a piedi nella Torre Annunziata mia devastata e bella, cerco un passaggio. Quello si ferma, mi prende, io neanche me ne accorgo che è lui; a’ melmaglia così c’ho sputato sopra tante volte, mica tengo inventario di tutte la facce. Lui allora, forte più ancora della mia sorpresa, mi piglia col gomito sullo zigomo sinistro, prende una stradina laterale mentre io ancora stordisco e mi finisce. Naso bocca e costato da chirurgia plastica. Mi lascia per strada. Allora scopro proprio il sapore del sangue; il proprio sangue, dico, il dolore. Me lo cullo, da allora. Lui stesso mi ha dato la misura del buco che devo entrare. Il dolore cumpagno mio.
Con la mente ho viaggiato ovunque. Conosco il globo intero, io e Allen Ginsberg abbiamo scoperto le Americhe. Coi miei piedi neri miei però meno, molto meno. Mo’ che passiamo le Alpi, si può dire che valico Italia vergine. E allora? Le vacanze del cazzo con mammà in Costa Azzurra e le borse di pelle, le zizze al vento mica valgono. Mi perdo così, ricordi mitici di viaggi. Alessandro a rifare l’India, Annibale nel traffico sul passo del Brennero; in elefante. Nel vagone ce n’è uno baffone, parla francese, forse è svizzero. Mi da a parlare pure se puzzo, buon segno. Vuole sapere che annoto sul mio quaderno tutto carta di riso. «La bohème», gli dico. Ride forse capisce.
Non so, valicare frontiere mi mette scariche elettriche ovunque; prendo la chitarra allora e gli canto una cosa, una mezza idea che pensavo mentre il polenta mi sbatteva il naso nella fontana. Una cosa che sale, con strofe e armonia semplici, versi brevi. Un ritornello base e molte assonanze. E vocali – zio canto sono un albero. Ci sono cose da fissare però. Ci sono sempre cose da fissare e pure la perfezione è un morbo che non posso smettere: non finire mai di cercare, ma cominciare. Lui pure gode a sentirmi, mi pare. Fosse anche bello qualcosa pure accadrebbe…
Poi tremo. Stiamo in Svizzera, primavera inoltrata eppure densità di neve. Il baffone scende e ne entra un altro, ma non proprio fisicamente – è un segno, dovevo capirlo. Stiamo a Basilea e mi vengono le lacrime. Federico Nietzsche baffone, qua sopra, centocinquant’anni fa. Mi esce una specie d’inchino commosso, manco post-comunista il 25 Aprile.
È colpa tua, baffo, tu mi hai messo in mano la lira di Orfeo; io ci provo. Tu mi hai messo negli occhi una cosa che all’inizio non si vedeva e le trippe si rigiravano. Poi invece più chiaro, dieci volte più fondo s’è visto dentro le cose. Tu mi hai messo quel demone di taranta nei piedi; e la bugia, la maschera nella lingua.
Apro gli occhi di nuovo, un sorso, e cambio; butto giù la statua. Tu proprio, baffone, mi vedi? Puzzo. Viaggio, parto, scappo perché devo; come te d’altronde. Però non c’ho una lira. Dimmi un po’ tu come hai fatto a girovagare e scrivere e scalare montagne per vent’anni… Dillo! Una pensione a vita dalla scuola di gobbi di merda dove insegnavi! E perché poi? Infermità, dolori di testa e crampi allo stomaco. Renditi conto, maestro, se mi visitano a me oggi con tutto lo schifo sovrumano che mi bevo e mi faccio mi fanno medaglia al valore, eroe della patria. Non è giusto, maestro.
Mi torna una cosa strana, battiti di tempie: la paura. Non che non ci sia abituato, mai dire questo di me; io ci sguazzo nella paura. Pure fa male. Mi prende da dietro e quello che penso non dico, ci stanno i mostri là sotto. Trovare la misura, il buco senza contorni.
Mal di mare sulla ferraglia, la bottiglia non aiuta più, al contrario. Uno allora si aggrappa a quello che può – penso le origini. E che sono le origini? Nato da fica con mèches, morto di vari catrami; questo è tutto? No, non è possibile, non così. Allora a galla tra mostri e ferraglia, per un attimo, la testa riprende la superficie. Dice: io, la mia vena abboffata, la nebulosa elettrica, la terra umida, le radici. Mi rivedo, la terra vulcanica calda; intorno l’inferno radioattivo, il deserto metallico, papiri infangati e chiese rococò. Giù da me siamo in tanti a sragionare, io però ne voglio fino all’ultima goccia, me ne vado.
Mi rivedo, i compagni miei titani. Chi sa dove stanno, ognuno il proprio destino di satiro… Ricordo cose stupende e non mento: noi – studenti sanguigni delle più disparate lettere – tutti allucinati una volta discutendo come demiurghi per le scale di un androne rinascimentale. La parola o la vita, a inventare il discorso; la scuola filosofica di Atene sotto al vulcano. Ce n’era uno riccio e biondo tale e quale al putto della fontana che ho evirato qualche paese fa.
E ancora noi titani una volta in una loggia di quella caserma lasciva – chi di dovere la chiama Università – a giocare con le cose proibite più leggeri della pietra pomice. Era la festa di qualcuno ma in realtà era sempre festa; noi tutti pieni di liquidi e spezie a celebrare la vita fremente, in mezzo un’euforia panica. E danzando danzando pisciare, dal balcone della loggia, sulla corte interna dell’edificio – la platea educaticcia della cultura. Gialla come l’estasi di Santa Teresa, ma profana. Letteralmente: gli ombrelli a ripararsi non bastavano. Vi amo proprio compagni titani, voi siete la vita.
Il fumo è finito, la bottiglia e il sonno sono ormai nemici giurati. In Alsazia, stanco. Canticchio una canzone del principe, Buonanotte fratello, mi tiene calmo. Fuori c’è un verde denso, la foresta nera dove quel coniglio svevo di Heidegger veniva a sentire gli dei parlare in greco antico. ’Sto cazzo, io sento solo la ferraglia stramazzare sui binari, e sputi gutturali dalla bocca della gentildonna di fronte – se non è tedesco questo mi devo rivedere il manuale di linguistica daccapo. C’ha un occhialetto che tira pompini, io mi innamoro solo dei dettagli – da come mi guarda, di fatto, devo essere tornato presentabile. O lo sono sempre stato. «Lei dov’è diretto giovane signore?», mi fa, in italiano petrarchesco. Io mi guardo le scarpe, mi viene da dire, con il mio cantautore preferito: «Sulla cattiva strada, lei ci verrebbe con me, gentildonna?». Ma non glielo dico, sono stanco e si sente. «A nord», mi limito a emettere. Lei sorride e si sente di aggiungere «c’è ancora tanta strada da fare». I suoi seni straripanti mi ricordano una fanciulla che ho amato e che è finita a schiaffi. Li squadro senza nemmeno saperlo, lei non si scompone. «Il mio nome è Katrine, sono una ragazza tedesca, studio in Francia, a Strasburgo». C’è un’assenza di pudore nel suo fare che mi rimette lo spirito del gioco. «Cosa studi Katrine? Io sono Mario, giovane pittore veneziano». Lei si fa più vicina, lo scollo del petto ha un odore. «Interessante, io studio biologia. Io non sono proprio erudita in italiano», qui arrossisce, «però il tuo accento Mario, se permetti, mi pare avvicinarsi di più a quello del mezzogiorno». Cara mia qua sei in trappola: «Hai orecchio, giovane studentessa, in effetti i miei genitori vendevano il pesce a Napoli prima del colera. Senti, io adoro dipingere busti, ti andrebbe di posare mezza nuda per me? Il bagno del treno è abbastanza grande per entrambi». Se è ciuffo di pudore o ormone in allerta non so, fatto sta che qualcosa nel viso suo si fa porpora di nuovo. «Io adoro l’arte pittorica più della scultura», mi fa, «parla di più alla mente. Li hai con te i tuoi strumenti per dipingere? Se vuoi altrimenti ho una macchina fotografica, potrebbe essere una buona base per poi sviluppare il disegno». «Mi bastano i tuoi seni, poi un foglio e matita. Questi ce li ho sempre a portata di mano». Lei si alza allora, fa per chiudere la porta del compartimento e la tenda. «Senti Mario, penso che qui dove siamo è meglio che in bagno. Se poi lasciamo aperta la tenda del finestrino hai più luce naturale e ombre meglio definite, per quanto la fonte luminosa sia instabile». Io questa studentessa l’adoro, meno male che scende a Strasburgo se no l’avrei uccisa di serenate – alla giunonica Musa. «Perfetto, Katrine, ti piace Caravaggio?».
Mario, certo. E Antonio, Ciro, Guglielmo, tutti nomi già usati. Li schifo i nomi propri, il mio l’ho quasi già dimenticato. Venezia stava bene in effetti, l’ho pure vista un paio di volte la laguna di tanfo; il colera poi è storia. Però Katrine c’aveva due frutti del mezzogiorno in mezzo alle spalle: chiari e torniti, le venuzze abbozzate in controluce. Li ho disegnati per bene, credo, senza nemmeno toccarli. Lei sicuro è stata contenta; in cambio m’ha dato uno spruzzo che mai era successo, manco fatto a oppio. Solo a stimolare ghiandole e muscoletti, senza sfiorare l’oggetto proprio della contesa, come un gioco d’assenze e rimandi, piano piano il miracolo che sfida la gravità, e un’eruzione lenta, lavica effusiva. Non dio ma un genio ha fatto la prostata, e forse eri proprio tu; grazie Katrine.
Mi sento strano però, come dolciastro. È pomeriggio tardo, forse ho fame e le palle vuote. Forse il sole calante, non so. Mi sento come trasparente, mi è sparito il doppiofondo, già quasi mi manca; forse solo quiete apparente. Sono mica diventato fatalista?
Me ne canto una che di solito mi salva, Hurricane del fratello Dylan, maestro dei maestri; eppure stavolta non basta. A Bruxelles entra uno, un’aria invasiva da psichiatra, mi scruta. Che vuole, mi chiedo, ma non glielo lo dico; le forze mi scemano, la fine del viaggio è vicina. Poi è lui a togliermi le parole di bocca; mi chiede, in inglese, dove vado. «Amsterdam», ammetto stavolta. «Solo?», domanda. Annuisco. C’ha un’aria austera, mi toglie la maschera. «Ci va per restarci a lungo?», m’incalza. «Yes, sir, roger», gli faccio, a sfottò. «I suoi genitori lo sanno?». Questo che vuole da me? «I miei sono seppelliti da cose che non vogliono vedere, scappo». «E una donna, un amico, un legame affettivo non ce l’ha?». Qui rido ma quello che dico risuona tetro. «Gliel’ho già detto, dottore, sono solo». Si rigira i polpastrelli nella barba, pensoso, poi mi guarda inquieto ma comprensivo: «Capisco, giovane uomo». Caccia all’uopo un foglio bianco dalla valigia di pelle, uno scarabocchio prospettico nel centro: un coso diritto, grondante. «Mi dica: lei qui, in fondo, cosa vede?».
Santa ferraglia, ’sto treno va; quasi ci siamo, già da un pezzo si respira nord. Gli indigeni c’hanno tratti d’altre razze: arti nasi facce ossa lunghe, spalle infinite quelli più bianchi, albini proprio. E barbe varie semite, l’Arabia intera nel paese delle dighe. Buono, multicolore; starò bene qua, canterò con i muezzin all’ora della preghiera a cacare il cazzo agli albini. Mille volte meglio che la pippa mentale dei nostri geni del west. Suono jazz, l’architettura del caos. Vattene a suona’ le lamiere tossiche e storte del Guggenheim di Bilbao allora, e liberaci dal male.
Ancora mi torna, di nuovo, il motivo che il dottore m’ha insinuato all’orecchio – cosa vede, che cerca lei in fondo, giovane signore?
Vecchio dottore, gliel’ho già detto mille volte. Una cosa che non riesco a dire ma che giù da me non trova sfogo. Una densità di materia che vuole esplodere, che mi devo portare altrove; anzi a dire il vero è proprio lei che mi guida. Mi porta fuori perché da fermo scoppio – lei li ha mai mangiati i funghetti dottore? Così proprio. Però io lo so questa da dove mi viene, ’sta forza, lo so bene. La morte che passa per aria a gratis a casa mia, la natura a precipizio e i pummarulilli del pendolo, tutto così insieme appassionatamente. Il calderone indifferenziato a cielo aperto – uomini, lamiere e fluidi fluorescenti – mano a mano coll’affresco antico, la corte interna neoclassica e il floreale napoletano. Lo scorcio, la storiografia e la coltellata nel vicolo scuro; la musica dentro e la terra che trema. C’è un sentiero da Boscoreale, a piedi sulla lava causticata di un’eruzione vecchia, sali sali – attento se cadi ti sfracassi, la lava è dura ma si sfrantuma – sali e a un certo punto lo vedi: il mare sporco, le rovine di oggi e quelle antiche più in voga, il golfo che gira come una linea di chiappa soda; e sopra il vulcano che se li chiava tutti quanti.
La vita nuda, dotto’, mi sono spiegato? Da qualche parte pure si deve sfogare.
Eccoci qua, stazione van Amsterdam. Scendo, poi si vede: Berlino, vichinghia, Russia. Intanto mi canto un’altra canzone, m’è nata già scritta nel viaggio, al ritmo scomposto della ferraglia. Canto di Primavera si chiama. Avanti, blanditiae fallunt[1].
Poi si vedrà.
[1]L’autocompiacimento – la meschineria – inganna.