Mi arrischio: Panorama di Tommaso Pincio (NN editore, 2015), per il suo stile piano e fluido, il tono leggero e insieme mai banale, per lo sguardo ampio eppure misurato, per il gioco realtà-finzione privo di toni apocalittici, non sembra un libro italiano. Di più: nonostante i legami, stretti ed evidenti, che Pincio (a partire dal nome) intrattiene con la cultura e la letteratura nordamericana, mi sembra che il suo ultimo lavoro si avvicini invece alla tradizione del romanzo breve latinoamericano, tradizione di cui fanno parte, tra gli altri, Cronaca di una morte annunciata di Márquez, Gli addii di Juan Carlos Onetti e Stella distante di Roberto Bolaño. (Mentre lo scrivo, mi rendo conto di non fare giustizia a Calvino, alla sua eredità in Italia. Ecco: chi ha raccolto, in Italia, l’eredità di Calvino? E in ogni caso il padre, da noi, del filone cui Panorama sembra appartenere è Pirandello, e l’Ottavio Tondi di Panorama potrebbe anche essere Mattia Pascal.)
Pincio, l‘artigiano
Al di là delle categorie editoriali – romanzo come contenitore spesso abusato, accentratore – esiste una tensione tra forme brevi e forme estese, che ho analizzato a più riprese a proposito di Pedro Paramo di Juan Rulfo, dei racconti di Borges e dell’opera di Bolaño in relazione alla tradizione borgesiana e cortazariana. Proprio Cortázar suggerisce come questa tensione tra forme brevi e forme estese (racconto-romanzo) apra a una successiva opposizione: forme chiuse-forme aperte. Il romanzo breve si colloca a cavallo tra queste discontinuità: la forza di traino della trama, la spinta a modificare le condizioni iniziali (ciò che Ricardo Piglia definisce come la “relazione tra la storia manifesta e la storia segreta”) è in conflitto aperto con la dimensione più romanzesca di tutte, il personaggio, il suo percorso, la sua evoluzione. L’equilibrio è precario, il romanzo breve è un lavoro di calcolo statico di precisione.
Ed è ciò che colpisce di più in Panorama: l’equilibrio ponderato, necessario, tra le dinamiche della trama, che conserva la sua spinta oltre l’ultima pagina, e l’evoluzione dei personaggi (se ne contano tre di rilievo, quattro compreso il narratore).
Per modellare le tensioni strutturali in un congiunto armonioso, Pincio utilizza tre elementi intimamente legati, e di forte connotazione latinoamericana: la lettura (la pratica della lettura, Ottavio Tondi Ultimo Lettore), la finzione autobiografica e infine la rete di rimandi metaletterari, al cui interno trova spazio lo stratagemma borgesiano della falsa attribuzione (i rimandi a opere letterarie presunte). L’elemento più originale e insieme più necessario, però, è il social network – Panorama, appunto. Di fatto, è la sua conformazione specifica, il modo del suo spazio e delle sue regole, l’insieme dei suoi reticoli voyeuristici a rendere possibile l’incrocio, lo svincolo in cui il movimento della trama converge con quello dei personaggi.
C’è grande maestria nel trasformare quello che era un nodo e un conflitto strutturale in chiave di volta, punto erogeno del romanzo. Sarebbe a dire che la scrittura è un’arte, che Pincio – l’artigiano – sa scrivere e che Panorama è uno dei libri, dei manufatti più riusciti degli ultimi anni.
La fine di un mondo (parte II)
Ho letto Panorama, la prima volta, in tre ore. In questo quadro idilliaco da lettore compulsivo, drogato, ho registrato un’unica nota dissonante. Se il social network, Panorama, è ben costruito, originale e necessario in termini di strutture e zone erogene, lo è di meno il suo contraltare: quei gruppi umani renitenti al cambiamento, alla nuova era digitale, alla fine del libro e delle relazioni umane previrtuali – tratteggiati con sufficienza caricaturale, corpi estranei, in fondo, in un libro in cui immagini banali o abusate altrimenti non trovano spazio. La questione dell’impatto della rivoluzione tecnologica, che apre oggi a prospettive non meno apocalittiche del destino della specie, la fine della specie, non c’è o è confinata alle smanie della società letteraria, alla fine della lettura, ai “napoletani” (pasoliniani) che contrabbandano libri cartacei. Ed è comprensibile: è la natura del libro, il suo essere leggero, misurato e conchiuso. È anche il suo limite.
Il disclaimer, alla fine del libro, ci informa che Panorama è il prologo di un testo più vasto e in divenire. Gianfranco Franchi avanza l’ipotesi del “libro chimerico”; io invece lo prendo alla lettera – ne sto già aspettando il seguito: per la goduria di leggere un altro libro pensato e scritto come si deve e per capire se, e come, quel tema appena abbozzato in Panorama troverà lo spazio che gli è proprio. In fondo, non sono io ma la stessa materia narrativa a richiederlo.