Chi ti cerca ha due mani
e un pollice opponibile
e la sua rivolta,
che è stata nel tempo che si quantifica,
in memoria – o in un’altra algebra? –
è un caso rigurgitato,
addome propulsivo e centripeto
e gravitante e rumoreggia tuono
dopo il silenzio lampo – allo stesso modo della vista
che è dopo l’occhio, che è dopo
la percettibilità cerebrale simile a una coercizione
a vedere e dire:
comunque inizi.
E dire, imita la voce di chi porta il dito opponibile,
quei geni in gruppo che creano lo scarto,
e l’errore, pensa, quanto è proficuo
e quanta evocazione (aut musa aut muta!)
per non dire che è già rivoltato.
E vedere il palmo
sul quale l’occhio poggia e fa resistenza al dito
che afferra un pezzo, non l’altro, non l’intero
– e di due furono uno o saranno una massa
che ruota nel vuoto recipiente cosmico
che attrae (Femmina, o musa muta, che voce
ha il vuoto?) o che determina
col calcolo delle sue rime aritmetiche
– e dove furono due (quando?) ora sembrano
– demistificazione, musa oblunga? –
i pianeti e le stelle che fanno il delirio
delle menti ancora contorcenti (serpenti
che prendete e tacete, profeti di sciagure)
intorno al fulcro eretto e pensante, che dice allo specchio
– volto bianco, mille volte ripetuto:
Comunque inizi.
Alla parola rotta, infranta
voce di ciò che è dietro il fastidio
della polvere da scrollare ogni volta
che la mano strappa il momento – passiva
immonda screziatura che spumeggia
residuale a ogni barlume d’eterno
infisso nel cielo scomparse le stelle
nella luce dimenticata della formula –
per attivare e discernere il frutto dalla mano
che lo colse e dalla voce emersa
per nominare ogni sfasatura
della pietra infranta, rotta nella parola.
All’amico che donò il crogiolo e il cucchiaio
la cui voce ora sento (chi sono io, musa estinta,
cui tieni il broncio? E mai c’è stata domanda più idiota di
chi sono, chi sono e l’eco dell’eco e nient’altro
in ritorno?) e mi invita a ridere del calice incrinato
sul tavolo dov’è approntata
la pienezza di poco e si congestiona
ogni respiro nel freddo incollato alle ossa
– e quasi piangiamo, dopo aver goduto del nostro
dito opponibile, della nostra inquieta intellegibilità
che ci ha istruiti a esigue parole
che avanzano sul foglio e lamentano
tregua.
Tregua all’antitesi,
tregua al ritorno cieco, tregua al finale sottratto,
tregua al giudizio, tregua alle maiuscole
dichiarazioni di guerra intestina,
tregua alla volontà-inganno,
tregua dei cardiopatici
afflitti dall’amore per la musa bagnata
che li ha abbandonati in soffitte microscopiche,
nei cervelli, a logorarsi del tempo che esiste, che esiste
il tempo dell’essere stati troppo a lungo a pensare
e a ripetere come chi stringe lo specchio nel labirinto:
Comunque inizi.