Ho comprato del prosciutto, in barba ai vegani e all’atroce morte dei maiali. Non credo si possa abdicare al cannibalismo, mangiare prosciutto è la mia parte cannibale, quella accettata.
Non potevi sapere che era in frigo, accanto al salame, lontano dalle cipolle e dal crème caramel.
L’hai saputo stanotte, nel sonno, come capita da sempre.
In quello spazio nostro travasiamo sogni, emozioni, desideri.
Quelli che come grumi ci portiamo a spasso durante il giorno, coaguli di materia impalpabile che passano da me a te e viceversa, diventando fluidi.
I sogni sono il momento del non ricordo per me, e quelli della pervicace costruzione di senso per te.
Il prosciutto che hai sognato stanotte era il mio.
Ogni volta che mangio la carne, mi viene un immediato moto di disgusto.
Il suo sapore mi nausea.
Con il prosciutto è differente.
Per via del sale e della stagionatura che rende la carne morbida.
Poi c’è il grasso. Quello che offende e ferisce gli occhi degli altri, ma che serve a non rendere la carne secca. Ispida. Insapore.
Poveri maiali così uguali a noi.
Con questo sapore dolciastro, zuccheroso, perché la dolcezza anche nell’uomo è della carne.
Per evitare di rovinarne il sapore, il prosciutto deve essere tagliato a punta di coltello.
Così tengo il coltello per il prosciutto a portata di mano, un feticcio, ci sbuccio anche la frutta.
Tagliare è un’arte.
Ho iniziato da bambina, pezzi di frutta, cortecce, fino a quando non ho reciso il mignolo a Maria.
L’ho fatto perché era sempre nervosa.
Sapevo che tagliandole il dito le avrei portato via anche il dolore sordo che la faceva urlare senza sosta.
Glielo hanno ricucito bene.
Neppure si vede la cicatrice.
Lei non ha detto che ero stata io ad amputarla.
Ho tagliato dieci dita a dieci volontari. Lo prendevano come un gioco.
È durato fino a quando non mi hanno portato in quei posti dove si bara con le malattie, e la lucidità viene assopita dalle pillole.
Non parlavo con nessuno.
Li ascoltavo.
Le giornate erano vuote di ore dissipate.
I medici mi hanno spiegato che facevo a pezzi il corpo degli altri per la smania di perfezione, e perché le ferite che portavo dentro non riuscivo a ricucirle.
Mi hanno dimessa quando hanno visto che mangiavo solo verdure, e spezzavo ogni cosa con le mani.
Sapevo che non mi era passata ma volevo smettere di prendere le pillole.
Le pillole sono un bagaglio a mano, pesano e fanno riemergere il dolore all’improvviso.
Ho scelto così di tagliare qualcosa di inerme come il prosciutto.
Mi piace affettarlo per poi riporlo nei contenitori di vetro che abbiamo comprato.
Mi chiedevi: «Non saranno troppi?»
Annuivo e sorridevo mentre li accumulavamo.
Se devo fare a fette il prosciutto come posso mettere insieme le fette vecchie con quelle nuove?
Come potrei di notte raccontarti queste cose?
Cosa penseresti di questa mania compulsiva che mi possiede?
Te lo racconto stanotte perché mi hai parlato del solaio.
«Ogni notte cede un po’, potrebbe crollare», hai detto.
Mi sembrava un luogo sicuro la soffitta, i contenitori non mi bastavano più, il luogo adatto per macellare i maiali da me.
Il giorno dopo lui si svegliò e salì in soffitta.
Non riuscì a entrare, il pavimento crollò.
Lei morì soffocata dal prosciutto frammisto a pezzi di solaio.