È difficile, meglio scomodo, rimanere sul testo — quel mito d’equidistanza critica — quando ci si accinge a scrivere di Antonio Moresco. Tocca provarci comunque e d’aiuto potrebbero essere le categorie extratestuali, da marketing editoriale, già utilizzate per definire L’addio, edito da Giunti: “thriller esistenziale”, “poliziesco che terremota il genere”. A questo punto, come è giusto fare per qualsiasi opera che rientri nel genere thriller, partiamo dal plot.
Siamo nella città dei morti, un luogo che i lettori di Moresco già conoscono. I morti arrivano di continuo, i morti, come i vivi, doppi quasi indistinti, continuano a delinquere. Per risolvere i casi più complicati e terribili i dipartimenti di polizia delle città dei vivi e dei morti collaborano con un sistema di email criptate. L’equilibrio delle giurisdizioni e dei piani della vita e della morte vengono sconvolti quando migliaia di bambini scompaiono e muoiono brutalmente nella città dei vivi.
Sappiamo che ci sono prigioni in cui vengono segregati i bambini e che non riusciamo a localizzare.
Investiti dall’ondata di crimini, i detective della città dei vivi sono come paralizzati; c’è una potentissima e sconosciuta, apparentemente inconoscibile, rete di pedofili e assassini seriali impossibile da fermare. Intanto nella città dei morti, di notte, i bambini morti si riuniscono e, nascosti, cantano. Tocca al detective D’Arco scoprire il perché del canto dei bambini e poi recarsi nella città dei vivi a cercare, se non giustizia — i vivi sono indistinti dai morti — almeno di rompere il ciclo di violenza e massacro.
C’è troppo male. Ogni tanto bisogna fare un repulisti.
Accompagnato da un bambino morto e muto, reso tale da una indicibile violenza in vita, e armato fino ai denti, il detective D’Arco affronterà in tre notti di berserk e overkill i massacratori e torturatori di bambini.
Il romanzo offre pagine felici quando Moresco descrive la morte di D’Arco e gli assassini e maniaci in azione nella città dei vivi. Memorabili quanto cruente sono le scene del container o quella davvero rilevante dell’asilo.
C’è materiale per un grande thriller: un eroe dalla volontà di potenza, un turning point narrativamente solido, un climax tripartito da scuola, scene cariche di suggestioni gore e metafisiche. Gli ingredienti sono tutti presenti, l’autore però è, per sua scelta o a causa di diverse e alte/altre aspirazioni, semplicemente incapace nel combinarli.
L’addio è uno spin-off della trilogia de L’Increato e ne mantiene tutte le tare, peggiorandole dove possibile nonostante le ottime premesse.
Il romanzo comincia con una sorta di lettera al lettore da cui, mai espressamente, misterioso, Moresco si accomiata. Torna ancora sulla sua condizione di scrittore sotterraneo, sul “non riuscire più a sopportare il cinismo dominante, il piccolo cabotaggio esistenziale… la mancanza di grandezza,… d’invenzione” e varie e diverse mancanze da cui, per opposizione, Moresco forse si ritiene immune. Ancora su questo preambolo irrituale dice che “lo so che non si fa, che al romanziere si chiede di raccontare senza tante storie la sua storia… Ma io lo faccio lo stesso.” Passa poco del romanzo e di nuovo l’autore provvede ad avvertire il lettore che, in fondo e andando a fondo, questo non è un poliziesco che ammorba le menti e il gusto di te, lettore.
Al capitolo 7:
Mettiamo subito le cose in chiaro. Questa è una storia diversa e ve la racconterò in modo diverso. Ve la racconterò come potrò e come vorrò, e vi racconterò solo quello che si potrà raccontare
e via ancora in un lungo elenco di quello che il lettore non troverà in questo romanzo a comporre un manifesto negativo che, se non superfluo, è davvero irrilevante.
In troppe scene Moresco fa dire a D’Arco che non racconterà cosa succede e in altre invece il dettaglio è esasperato e spesso adeguato — le belle scene cui accennavo. Comodo, furbo, saltare la descrizione quando un trick davvero creativo sarebbe necessario come nel viaggio tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Silenzio assoluto sull’indagine, la caccia del poliziotto D’Arco. Ancora una volta, necessaria inventiva, Moresco tralascia.
Oltre ai fuori campo, ne L’addio Moresco continua il suo discorso con il lettore, lo rende edotto di fatti e questioni dell’esistente, che è il suo e quello di tutti. Dettami che trovano buon posto, forse, sui manuali di filosofia dei licei ma che sono scomodi, quanto espressi in prosa non mirabile, senza una minima trasfigurazione letteraria. Di discorsi rivelatori, nel senso di evangelici, il romanzo è pieno e gli stessi si ripetono.
Se la vita viene prima e la morte viene dopo, come credono gli investigatori e gli sbirri della città dei vivi, allora perché c’è tutto questo male nella vita?” mi continuavo a domandare. “Com’è possibile, se la vita viene prima? E il male allora da dove viene? Viene prima ancora della vita? E la vita allora da dove viene? Viene dal male o viene prima del male?
E ancora, in un tòpos che altri autori hanno meglio sviluppato:
I loro corpi arrivano a maturazione durante la giovinezza, si abbandonano per un po’ al loro ciclo vitale, credono che gli stia succedendo chissà cosa e invece i comportamenti delle donne e degli uomini di questa specie non sono diversi da quelli dell’ultima colonia di scimpanzé, come ce n’erano prima che la città dei vivi si prendesse tutto. Donne e uomini, né più né meno che gli scimpanzé, bramano solo di accoppiarsi con molti partner, per provare la scossa e lo sballo del piacere, marcare il loro territorio sessuale e trasmettere o illudersi di trasmettere il loro dna.
In una continua ripetizione, in varie forme ma sempre troppo simili, Moresco divulga il “suo” eterno ritorno ‘all’uguale’, le parabole del nichilismo, la brama dell’esserci per il Nulla. L’allegoria thriller soffre (ne soffrirebbe qualunque narrazione) di questa assenza di trasfigurazione, quello che è un sottotesto rilevante esposto in maniera piana e chiara, un’operazione che tende, in troppe parti del romanzo, a negare il senso stesso dell’essere letteratura. Da un autore dal tono a tratti messianico, forse mirato a uno spaesamento che non si realizza, si attenderebbe ben più alta creatività.
Nascondono quello che c’è davvero sotto montagne di parole vuote. Ci sono questi poveri corpi messi sotto supplizio dalla sferza dei loro istinti di vita e di morte inscritti chissà perché nei loro cromosomi, quando il buio e la luce e il bene e il male erano ancora una stessa cosa e il male e il buio venivano prima.
Affrontiamo nella lettura troppo spesso un discorso semplicemente scritto e manifestato tra segni e parole, per nulla nuovo e sì che in questo romanzo novità e creatività latitano. Moresco appare oracolare sul già conosciuto, ma senza un discorso sulle teste di Thomas Ligotti, la lotta contro gli insetti di Giuseppe Genna, le vite e le morti dei protagonisti di Houellebecq o anche solo l’eterno ritorno in semplici gesti di Yalom ne Le lacrime di Nietzsche.
L’addio, candidato allo Strega, è un libro certamente consigliato al lettore che non conosce l’autore, al lettore pigro magari attirato proprio dal poliziesco o a quello che davvero mai si è trovato a impattare su Nietzsche o su Severino. Per gli altri questo libro non terremota davvero nulla. Se nel testo a tratti c’è grandezza, davvero quasi sempre c’è poca invenzione.
Ciao Antonio. Lascio perdere il Moresco. Il tempo è troppo prezioso.
Piuttosto: Dio non è morto perché DeLillo è vivo, niente di più vero. E ciò che ci ha lasciato DFW ne è la controprova.
Cari saluti.
Enrico