[Questo racconto, qui nella versione del 2016, è presente in altra forma in virtù di un altro editing nella raccolta Il vizio di smettere edita da Racconti nel 2018.]

Il ragazzo comparve ad A***** nel tardo pomeriggio di un venerdì di aprile. Arrivò a piedi, costeggiando i tralicci dell’alta tensione che dalle colline alle spalle del paese scendevano fino a valle. Attraversò in diagonale i campi, attento a non calpestare il mais piantato da poco. Quando fu in prossimità della linea ferroviaria, impossibilitato a proseguire a causa dei cavi elettrici sopra le rotaie, si sedette nell’erba e attese.
Dopo qualche minuto venne notato da un abitante di A*****, un ciclista amatoriale che aveva approfittato della temperatura mite per allenarsi e stava tornando verso casa. Il ciclista scese dalla bicicletta, incuriosito. Un forestiero era una rarità da quelle parti. Si avvicinò al ragazzo.
Ha bisogno di aiuto?, chiese, e solo allora vide i fili. Sembravano fuoriuscire dai polsi del giovane e salivano in cielo per un lunghezza infinita, o comunque sufficiente a nasconderne l’altra estremità.
Il ragazzo guardò il ciclista.
Grazie, no, sto solo aspettando qualcuno disse.
I fili accarezzati dal vento che scendeva dalle colline mandavano deboli riflessi quando un raggio di sole ci passava attraverso.
Il ciclista pensò a uno scherzo, poi a un gioco di prestigio, e prima ancora di decidere quale fosse la definizione esatta di quel che aveva visto stava già pedalando verso la piazza della chiesa, dove giunse senza fiato. Lasciò cadere la bicicletta, entrò nel bar del paese.
Questa la dovete proprio vedere, disse ansimando, venite, presto, venite.

Serena vive ad A***** da cinque anni. Ha lasciato la città per seguire il marito veterinario, e si è abituata in fretta ai ritmi sonnacchiosi della vita in campagna. Ogni pomeriggio alle tre e mezzo esce di casa, sale in macchina e va a prendere i figli a scuola. Poi, a seconda dei giorni, porta il maggiore a casa di qualche compagno di classe, o alla scuola calcio, come oggi. Aspetta che l’allenamento sia finito, passeggiando con il figlio minore e facendolo giocare un po’ nel prato appena fuori dal centro sportivo.
Quando risalgono in macchina sono le sei passate, i figli sono entrambi esausti, la madre anche.
Non lavora, Serena. La scelta di mettere i bambini in una scuola a tempo pieno non è stata dettata dalla sua impossibilità di occuparsi dei figli nel primo pomeriggio. Serena e il marito hanno deciso di comune accordo che un po’ di tempo da dedicare a se stessa le avrebbe fatto bene. Suo padre, poco convinto, ha obiettato che tutto quel tempo da sola a casa avrebbe potuto favorire una ricaduta; è stato zittito, e la ricaduta non c’è stata.
Sulla strada di casa, mentre i figli dormono sul sedile posteriore, Serena si ricorda di aver finito il latte. Con un riflesso automatico pensa di chiedere al marito di passarlo a comprare di ritorno dal lavoro, poi si ricorda che è all’estero e rientrerà solo domenica sera.
Per evitare di dover svegliare i figli e trascinarli insonnoliti e capricciosi tra le corsie del supermercato, Serena decide di comprare mezzo litro di latte al bar della piazza centrale. Parcheggia, controlla che i bambini siano addormentati, scende dalla macchina.
Quando il ciclista entra nel bar, Serena sta aspettando il suo turno al bancone. Sono le sei e mezzo passate. Serena ascolta il resoconto confuso del ciclista, incuriosita lo segue attraverso la tenda di perline che sostituisce la porta del bar dalla primavera in poi. Si offre di dargli un passaggio in macchina visto che non sembra in grado di pedalare. Il ciclista, ancora senza fiato nonostante i polmoni allenati, lega la bicicletta a un palo della luce e accetta. Siede in macchina accanto a Serena, i figli si svegliano e si guardano attorno spaesati. Dove andiamo mamma, perché non andiamo a casa?, chiede il più piccolo. Questo signore deve farci vedere una cosa, poi andiamo a casa, risponde Serena.
Ed è così che diventa la seconda abitante di A***** ad ammirare il prodigio del ragazzo appeso al cielo.
Tira fuori il cellulare dalla borsa, preme una combinazione di tasti, lo accosta all’orecchio.
Pronto, papà?, dice Serena, girando le spalle al ragazzo, seduto tra il ciglio della provinciale e le rotaie, e al ciclista, pallido e zitto.
Scusami ma non è un buon momento, risponde Renato, ho dei casini sul lavoro e…
Papà, ascoltami, prendi una troupe e vieni qui, subito.
Ma ho la diretta tra poco più di due ore, non posso… Che c’è, è successo qualcosa, stai bene?
Sto bene, sto bene, ma qui c’è qualcosa… non te lo so spiegare, lo devi vedere. E credo dovresti anche mandarlo in onda, è una bomba. Però muoviti, se si sparge la voce qui saremo presi d’assalto dai giornalisti, e questa è una cosa su cui faresti carte false per avere un’esclusiva.
Serena, so che non dovrei chiederlo, ma hai… insomma, hai bevuto?
Oh, cazzo, no che non ho bevuto, e mi piacerebbe che tu smettessi di chiedermelo ancora dopo cinque anni. E adesso, se vuoi fare il più grosso colpo della tua carriera vieni qui.
Ok, ma non puoi dirmi di che si tratta? Devo giustificare in qualche modo la trasferta con quelli della rete…
Te lo spiegherei volentieri, ma non so neanche da che parte cominciare. L’unica cosa che posso fare è mandarti una foto.
Serena chiude la telefonata, scatta, invia il messaggio.
Dopo pochi secondo il telefono squilla.
È un trucco?, chiede Renato, il tono incredulo, eccitato.
Non lo so cosa sia, papà, non lo so, ma ce l’ho qui davanti, e dal vivo fa ancora più impressione che in fotografia.
Va bene, va bene, entro un’ora al massimo sono lì. Cerco di portare una troupe e di fare la diretta da lì.
Di sicuro una cosa del genere il tuo pubblico non l’ha mai vista. Non l’ha mai vista nessuno, probabilmente. Prendi la statale, gira verso l’abbazia, ti aspetto all’incrocio prima del passaggio a livello della ferrovia. Ma fai in fretta.

Serena ha vent’anni anni e non dorme da tre notti.
Succhia una ciocca di capelli come faceva da bambina, un tic che Renato non vedeva da qualche anno e che adesso, complice la stanchezza e lo stress, è tornato a galla.
Non è colpa tua, dice Renato.
Non penso sia colpa mia, dice Serena con la ciocca che le spunta dall’angolo della bocca.
Perché pensi sia colpa mia, giusto?, risponde Renato.
Certo, ma non è questo il punto.
E qual è allora?
La soluzione che pensi di aver trovato.

Giunto il furgoncino della rete, la prima cosa che Renato nota è la station wagon verde bottiglia di Serena parcheggiata in bilico a lato della strada. Due ruote nell’erba, le altre due sulla linea continua che delimita la carreggiata.
Prepara tutto, non abbiamo molto tempo, dice all’operatore, poi scende dal portellone laterale, vede i suoi due nipoti addormentati sul sedile posteriore, e con gli occhi socchiusi per il riverbero del sole al tramonto si avvicina al capannello di persone.
Dieci anni di dirette pomeridiane, centinaia di storie raccontate, una bacheca traboccante di premi televisivi: in una situazione normale il suo arrivo in un piccolo paese sarebbe un evento. E in effetti c’è chi lo riconosce, teste che si voltano, qualche gomitata.
C’è quello della tv, dice qualcuno, ma è un interesse accessorio; le teste tornano a voltarsi, Renato si mette gli occhiali da sole, inizia a vedere nitidamente, cerca di farsi largo, alza gli occhi, e quegli strani fili opalescenti sono lì.
Cerca di scorgerne la fine, su e su, ma si perdono nel cielo arancione del tramonto, allora fa il percorso opposto, torna a seguirli sulla terra, sposta due tre persone che bisbigliano, ecco da dove partono, ecco il ragazzo.
Renato si toglie gli occhiali da sole, tutto sembra rallentare e poi accelerare, come un nastro che deve rimettersi in pari dopo essersi bloccato; sente una mano sull’avambraccio, il profumo di Serena, poi la voce, Che ti avevo detto, papà? Ne valeva la pena, no?
Renato guarda l’orologio, si alza sulle punte dei piedi oltre le teste delle persone, guarda verso il furgoncino della rete. L’operatore è inghiottito per metà dal portellone laterale, srotola cavi, prepara le luci. Prende il gruppo elettrogeno, lo appoggia sull’erba, preme un pulsante. L’assistente di Renato invece si liscia le pieghe della gonna, si guarda attorno, scambia due parole con la truccatrice. Dalla loro calma è evidente che non hanno ancora capito il motivo per cui sono lì, e di certo non hanno notato i fili.
Renato esce dal gruppo di persone che circondano il ragazzo, tira fuori il cellulare dalla tasca della giacca, compone un numero. Sta ancora aspettando la risposta quando il gruppo si dirada, si divide in due metà, lascia passare il ragazzo che si avvicina a Renato, lo fissa negli occhi e Finalmente è arrivato, dice.
Mi aspettava?, chiede Renato.
Sapevo che sarebbe venuto, sì.
Be’, di questo magari parliamo dopo.
Renato prende il ragazzo a braccetto, attento a non toccare i fili. Cerca di scostarlo un po’ dalla gente per parlargli in privato. Il ragazzo oppone una leggera resistenza, poi lo segue, uno, due, tre passi.
Allora, dice Renato, ascoltami: sei la cosa più incredibile che io abbia visto in vita mia. E di cose strane ne ho viste parecchie. Ho un programma in tv…
Lo so, lo so, risponde il ragazzo.
Bene, allora: ti voglio intervistare. In diretta, da qui, copertura nazionale, e voglio l’esclusiva. Sei d’accordo?
Sull’intervista sono d’accordo. Sull’esclusiva, be’, di quello credo dovrai occuparti tu.
Perfetto, dice Renato.
Si avvia verso il furgoncino della produzione, dice qualcosa all’operatore, poi si allontana con un megafono in mano.
Sale su una collinetta, preme l’interruttore del megafono, la voce gracchiante, un vento leggero.
Signori, dice, scusate, signori.
Teste che si girano verso di lui, un mormorio.
Signori, dice Renato, sapete chi sono? Mi riconoscete?
Sì, dicono un po’ di voci tra la folla, sì.
Molto bene, molto bene. Dunque, quello che sta succedendo qui oggi è… un prodigio, qualcosa di nuovo, incredibile. Ve ne sarete già accorti, immagino. Quello che vi chiedo, almeno per ora, è di non parlarne con nessuno. Niente telefonate, niente messaggi. Vi chiedo di restare qui, di essere testimoni di quanto sta accadendo. Qualcuno di voi guarda la mia trasmissione?
Altre teste che annuiscono, un altro mormorio.
Stasera andrà in onda da qui, in diretta. E voi avete la fortuna di essere presenti, di vederlo con i vostri occhi. Se la cosa diventa pubblica prima della diretta, nel giro di pochi minuti qui ci saranno altre troupe televisive, arriverà la polizia, arriveranno le autorità. Recinteranno la zona, forse anche tutto il paese, e questa storia smetterà di essere vostra. Vi chiedo quindi di avere pazienza, di custodire tutto questo per un po’, di non svenderlo a nessuno che non sia già qui. Se avete parenti in paese andate pure a prenderli. E poi seguitemi, scopriremo insieme cos’ha da raccontarci questo ragazzo. Siete con me?, dice Renato.
Sono con lui. Qualcuno si allontana e torna dopo pochi minuti riportando con sé dal paese un parente o un amico. La maggior parte si aggira, frastornata, ogni tanto alza gli occhi, cerca l’inizio dei fili in cielo, li riabbassa, non crede a quel che vede anche se quel che vede è lì.

Abbiamo fatto tutto il possibile, Serena, lo sai anche tu.
Odio quando dici le cose a me per convincertene tu.
Non devo convincere nessuno, è un dato di fatto. Non potevo permettere che questa cosa rovinasse anche le nostre vite, oltre che la sua.
No, tu non volevi che questa cosa rovinasse la tua carriera. È di questo che parliamo, della tua immagine pubblica, delle tue dirette, di quelle vecchie rincoglionite che guardano la trasmissione e devono illudersi che tu sia perfetto, che tu abbia una vita perfetta, una famiglia perfetta, in cui nessuno grida, nessuno perde il controllo e impazzisce. Ma che ne direbbero, secondo te, della tua assistente? Del fatto che abbia conquistato la sua posizione stando in ginocchio sotto la tua scrivania?
Quando lo schiaffo le gira la faccia, Serena apre la bocca quel tanto che basta per perdere la presa sulla ciocca di capelli. Le punte sono sfibrate, la ciocca inumidita oscilla accompagnando il movimento della testa.

Renato ha avvertito il responsabile della programmazione della rete, ha spiegato quel che riusciva a spiegare, ha creato un’aspettativa che spera ben riposta su tutto il resto.
Io ti do l’ok per la diretta, ha detto il responsabile, ma non mi deludere. Lo sai che periodo di merda stiamo attraversando, non posso più permettermi passi falsi.
Ti ho mai deluso, risponde Renato?
No, ma vedi di non cominciare adesso.
Zuppo di sudore, con un’ansia accucciata dietro al pomo di Adamo che non provava dai tempi dei suoi esordi in tv, Renato ha chiamato a raccolta le persone, le ha raggruppate come una quinta di occhi sbarrati e bocche tirate a far da sfondo alle due sedie pieghevoli appoggiate sul prato. Un paio di faretti sono puntati sulle sedie, spenti. L’operatore ha assicurato che ancora per un po’ la luce naturale sarà più che sufficiente.
Il ragazzo sta seduto in disparte, gli avambracci appoggiati sulle ginocchia e le dita delle mani incrociate. Non dice nulla, non si guarda attorno, non cambia espressione, i fili che adesso sembrano aver perso tensione e ricadono mollemente fino a sfiorare l’erba.
L’operatore si avvicina.
Ci siamo quasi, dice, posso microfonarla?
Il ragazzo si alza, si stiracchia, i fili che seguono il movimento delle braccia, sembrano riavvolgersi di qualche spanna, riacquistano tensione.
Mentre aggancia il microfono alla maglietta del ragazzo, l’operatore osserva i fili da vicino: per colore e trasparenza gli ricordano il corpo di un calamaro. Al loro interno gli sembra di intravedere qualcosa che si muove, un flusso di sangue, o forse minuscole scosse elettriche. Da qui la convinzione che i fili siano qualcosa di inspiegabile ma organico. Niente metallo, niente plastica, niente giochi di prestigio.
Provi a parlare, dice l’operatore sforzandosi di distogliere lo sguardo dai fili.
Bla bla bla, dice il ragazzo.
Vuole un po’ di trucco?, chiede l’operatore.
Non credo che la gente presterà molta attenzione alla mia faccia, dice il ragazzo, e indica i fili con l’indice.
Come vuole, dice l’operatore. Renato, dice alzando un braccio, qui siamo pronti.
It’s showtime, mormora Renato, una formula che nel corso degli anni ha usato prima di ogni diretta come mantra per allontanare gli imprevisti – tranne quelli incoraggiati o creati ad hoc dalla produzione per aggiungere brio alla trasmissione – e che oggi per la prima volta gli sembra un vezzo inutile.

Signore e signori, dice Renato guardando dritto in camera, buonasera.
Come vedete, oggi Una vita in venti minuti in via del tutto eccezionale non va in onda dai nostri studi. Per una volta non abbiamo invitato gli ospiti, ma ci siamo mossi noi per raggiungerne uno davvero speciale. Perdonateci quindi eventuali disguidi tecnici, ma questa storia va raccontata, e per farlo non potevamo che venire qui. Di fronte a me siede un ragazzo che sono sicuro vi toglierà il fiato, come lo ha tolto a me e a tutte le persone che vedete qui dietro di noi.
L’inquadratura passa da Renato al ragazzo, poi allarga sul prato, sulle persone in piedi, su quelle sedute, sulle facce che adesso, solo per qualche istante, dimenticano il ragazzo e si rendono conto di essere in onda. Una donna si aggiusta i capelli, un uomo inspira e trattiene la pancia, un bambino saluta con la mano. L’inquadratura lascia il pubblico, torna sul ragazzo, sulle sue mani, poi si arrampica lungo i fili, prova a mettere a fuoco il punto in cui scompaiono, lassù.
Di solito partiamo con una presentazione dell’ospite, ma quest’oggi ne so quanto voi, quindi non ho molto da dire prima di cominciare. Non so nulla del suo passato, non abbiamo parlato molto prima di andare in onda. Possiamo dire che voi e io faremo un percorso insieme, partendo dallo stesso punto. Vi chiederete cosa ci faccia qui l’ospite, visto che non sappiamo nulla di lui. E sarebbe una domanda sensata, se non fosse per questi… cavi che collegano il nostro ospite al cielo. Quindi, insieme, cercheremo di capire se si tratta di un miracolo o di una truffa, cercheremo di capire da dove venga questo ragazzo e come sia possibile vivere, come dire?, vivere appesi al cielo. Gli chiederemo dove finiscono i cavi, se lo sa, e perché abbia deciso di farsi vedere proprio qui, proprio oggi. Oltre che per comparire nel nostro programma, si intende.
Qui Renato sorride, cerca di riprodurre l’espressione che lo ha reso un sex symbol per signore di mezza età, quella con cui le ha guardate, ammiccante, dalle copertine dei giornali di gossip, ma riesce a ottenerne solo un’imitazione distorta dal disagio, perché mentre sorride sente su di sé lo sguardo del ragazzo, fisso.
Gloria osserva il risultato sul monitor a bordo del furgoncino. Il pregio di Renato, quello che gli ha permesso di diventare uno dei conduttori più pagati della rete, è sempre stato quello di apparire sincero anche quando raccontava storie false di attori spacciati per persone comuni. E invece adesso che la storia raccontata, seppur inspiegabile, pare sia vera, tutto in Renato sembra artefatto, assemblato a tavolino da qualcuno che abbia dell’essere umano una conoscenza poco più che approssimativa.
Allora, direi che possiamo cominciare, dice Renato.
Prima di tutto, facciamo le presentazioni. Come si chiama?
A costo di sembrare scortese, risponde il ragazzo, credo che sarebbe meglio tagliare da questa intervista tutto ciò che è ininfluente. Lei, il suo pubblico, la gente che c’è qui, nessuno è interessato al mio nome. Quindi, che differenza fa come mi chiamo?
Come potete vedere, dice Renato, il nostro ospite ha le idee chiare su come si conduce una trasmissione. Vuole rubarmi il posto, dica la verità?
Qualcuno tra il pubblico alle spalle di Renato ridacchia.
Usa sempre questo tipo di umorismo per togliersi dalle situazioni imbarazzanti?, chiede il ragazzo.
Certo non si può dire che al nostro ospite manchino carattere e lingua affilata. Appurato che non vuole dirci il suo nome, forse potremmo raccontare qualcosa del suo passato. Ad esempio, com’è possibile che nessuno l’abbia mai incontrata prima d’ora? Perché lei se ne rende conto, immagino: data l’eccezionalità della sua condizione, la sua presenza non passa certo inosservata.
Suppongo di sì. Ma il mondo è vuoto, per la maggior parte. Forse ho solo avuto sfortuna. O fortuna, a seconda dei punti di vista.
Insomma, lei sostiene di non aver mai incontrato nessuno prima d’ora?
Non che io ricordi, no.
Io non posso credere che… Va bene va bene, passiamo a qualcosa di più pratico. Quello che credo molti dei telespettatori si stiano chiedendo è come funzionano i suoi… fili, le corde, i tendini, a proposito: lei come le chiama?
Non mi sono mai posto la domanda. Forse tendini sarebbe una definizione appropriata. Ma visto che a quanto pare il mio aspetto evoca in voi quello di una marionetta, chiamiamoli pure fili.
Sembra non saperne molto neanche lei, insomma. Quindi immagino non sappia neppure di cosa sono fatti, giusto?
In tutta sincerità, fatico un po’ a seguire le sue domande. A lei interessa di cosa sono fatti i suoi capelli o le sue ossa?
Senta, nessuno dei telespettatori e delle telespettatrici che in questo momento stanno guardando la trasmissione è interessata ai miei capelli. Sono capelli, sono fatti di capelli come quelli di tutti.
Anche questi, anche i fili sono fatti di quello che sono fatti, dice il ragazzo, e non si capisce se sia lui a scuoterli piano muovendo le braccia o se siano loro a far muovere le braccia a lui.
Lei è un po’ snervante, lo sa? Ma va bene, lo capisco. Lei ha in mano una storia unica, un po’ di pretattica è più che comprensibile. Ora, le stavo chiedendo se sarebbe in grado di dirmi come funziona, be’, il meccanismo. Mi spiego meglio. Quando, poniamo, lei beve un bicchiere d’acqua… Perché lei beve acqua, giusto?
Sì, il mio corpo non è diverso dal suo.
Benissimo, allora: quando lei beve un bicchiere d’acqua, è lei a portare il bicchiere alla bocca, o sono i fili a farle sollevare il braccio? Andando dritti al punto: lei sa se c’è qualcosa, o qualcuno, che muove i fili, e quindi che muove lei?
Se chiedessi a lei la stessa cosa, cosa risponderebbe?
Le ho già spiegato che non siamo qui per parlare di me.
Davvero? Eppure questo è il suo show, no? Questo programma parla di lei almeno quanto parla di me.
Renato si lascia andare sullo schienale della sedia. Sospira, rimette in ordine le idee, ricomincia a parlare.
Il punto, dice, e spiegarlo mi sembra offensivo per la sua intelligenza, è che le mie mani sono libere, vede? Niente cavi, fili, o quel che sono. Libere.
È una cosa di cui sembra andare molto fiero, questa sua libertà di movimento.
Renato guarda in camera. Pelle lucida sulla fronte, sul labbro superiore. Il timer dice che manca un minuto scarso prima della pausa pubblicitaria. Renato aggrotta la fronte, torna a guardare in camera.
È evidente, dice, che il nostro ospite di stasera è riluttante a dare risposte. Ma abbiamo ancora tante domande da fargli, ci sono molte, molte cose che non sappiamo di questa storia incredibile, quindi non cambiate canale. Torniamo dopo la pubblicità, in diretta da A*****. La vita in venti minuti di oggi è la più interessante che vi abbiamo raccontato, restate con noi.

Mentre la truccatrice gli tampona la fronte, Renato fuma una sigaretta. Il tempo è poco e lo costringe a tiri sincopati, che arroventano la punta della sigaretta, ridotta a una cuneo incandescente. Con la mano sinistra sbottona la camicia. Ha un alone di sudore lungo tutta la schiena, una macchia di Rorschach in cui intravede la prima diretta che gli sta sfuggendo di mano da quando lavora in televisione.
Lascia cadere la camicia sporca nell’erba, alza lo sguardo e incontra quello della sua assistente. Me ne serve un’altra per la prossima pausa, dice, sto sudando come un maiale.
Non sta funzionando, Renato, dice Gloria. Non è collaborativo, risponde a ogni domanda con una domanda. La storia è forte, questo lo capirebbe chiunque, ma l’intervista non ingrana. Non li riempiamo venti minuti con le risposte evasive che ti dà.
Crollerà, dice Renato mentre schiaccia la sigaretta sotto la suola della scarpa e finisce di abbottonarsi la camicia pulita, identica a quella che ha buttato per terra.
Non ne sarei così sicura. Senti, lavoriamo insieme da più di vent’anni. Capisco che questa storia sia importante, ma non lo è di più di tutta la tua carriera.
Questa intervista vale tutta una carriera. E ora, se permetti, dobbiamo ricominciare.
Tre, due, uno, in onda.

Prendermi a schiaffi non serve a niente, dice Serena rimettendosi in bocca la ciocca di capelli. Schiaffeggiavi anche lei? È così che ti illudi di mettere a posto le cose?
Serena, non so cosa ti abbia raccontato, ma devi tenere presente che tua madre non sta bene.
Certo che non sta bene, l’hai fatta impazzire tu a furia di tradimenti!
Gloria non ha nulla a che fare con lo stato di salute di tua madre, ficcatelo bene in testa.
E tu ficcati bene in testa che non avrai mai la mia approvazione né il mio perdono per come l’hai ridotta.

Bentornati a Un vita in venti minuti. Come vi avevo preannunciato il collegamento da qui poteva presentare qualche inconveniente. E in effetti come vedete alle nostre spalle minaccia di scatenarsi un temporale. Speriamo quindi che il dio della pioggia sia clemente e ci permetta di raccontare fino in fondo la storia straordinaria di oggi. Se vi siete messi in ascolto solo ora, stiamo parlando con questo ragazzo, del suo passato, su cui non sembra intenzionato a raccontarci molto, e della sua condizione a dir poco… unica.
L’inquadratura sale di nuovo dai polsi del ragazzo fino al cielo, dove intercetta nuvole cariche di pioggia che scendono rapide sulla vallata.
Inizia a fare buio, Renato chiede all’operatore di accendere i faretti per illuminare lui e il ragazzo.
Continuiamo con la nostra intervista, dice poi, e speriamo che i fili non attirino i fulmini.
Di nuovo quell’espressione tirata, il sorriso rigido che sembra scorrere verso il basso e poi richiudersi di scatto come quello del pupazzo di un ventriloquo.
Serena ha lasciato il pubblico alle spalle del padre e dell’ospite, è andata a controllare i figli in macchina. Dormono ancora. Serena benedice la loro stanchezza: se fossero svegli assisterebbero allo spettacolo poco edificante del nonno in difficoltà. Ma lo è davvero?, si chiede. La sensazione che suo padre stia perdendo il controllo, così palese per lei e che si evince anche dallo sguardo preoccupato di Gloria, è decifrabile anche a chi non lo conosce bene? Cosa sta pensando il pubblico a casa? Sta notando i piccoli segnali di cedimento, ha intravisto le piccole crepe che si stanno aprendo nella monolitica sicurezza di sé di cui Renato ha dato prova in centinaia e centinaia di dirette?
Serena dà un ultimo sguardo ai figli, torna verso il padre e il suo ospite, ma non fa il giro per portarsi alle loro spalle, si ferma dietro all’operatore per avere una visione frontale di quel che succede. Renato adesso sembra aver ripreso un minimo il controllo della situazione. Dalla sua nuova posizione a Serena sembra che il viso del padre sia meno lucido di prima, che stia sudando meno, forse anche per merito del vento che sta spazzando la valle, rinfrescando l’aria e portando con sé nuvole sempre più gonfie, sempre più vicine.
Renato adesso incalza il ragazzo, lo provoca, ma riceve in cambio risposte elusive, un giocatore di scacchi troppo prudente o forse solo troppo esperto per scoprirsi.
Diamo ora la linea alla regia per il secondo e ultimo break pubblicitario, dice Renato dopo qualche minuto, poi torneremo qui, in diretta da A*****, sperando che il nostro ospite abbia voglia di raccontarci qualcosa in più su di sé. A tra poco.
Si alza dalla sedia, rivolge uno sguardo stizzito al ragazzo e si allontana.

Hanno chiamato dalla rete, dice Gloria. Mi hanno chiesto se sei sicuro di quello che stai facendo.
E tu che gli hai detto?, risponde Renato.
Gli ho detto di sì.
Ma…
Ma valgono tutte le cose che ti ho detto prima. Non sei a tuo agio, e si vede.
Ascoltami, dice Renato con un sospiro, per l’ultima volta: dopo tutte le interviste piagnucolose che ho fatto, per non parlare di quelle che abbiamo inventato di sana pianta, questa è la prima storia davvero interessante che mi sia capitata fra le mani.
Lo so, ma non esiste intervista senza un intervistato disposto a rispondere. E quel ragazzo non ha la minima intenzione di darti qualcosa in cui affondare i denti.
Se è qui e ha accettato l’intervista un motivo ci sarà, no? Anzi, ti dirò di più: quando chiudiamo la diretta continuiamo a registrare. E non smettiamo finché quello stronzo non ci spiega chi è e da dove viene.
Non si può fare, risponde Gloria. Dobbiamo tornare agli studi, sono stati tassativi su questo. E dal tono di voce che avevano al telefono non prevedo nulla di buono.
Non se ne parla, risponde Renato.
Hai avuto la diretta, ed è andata come è andata. Cosa vuoi, ancora?
Oh Cristo, Gloria, li vedi anche tu quei fili? Serve che te li indichi? Quei cazzo di fili che si perdono tra le nuvole, li vedi o no? Anche se tacesse per l’eternità, quel tizio è una delle cose più incredibili che siano mai state trasmesse. Adesso che ho detto dove siamo, nel giro di mezz’ora tutti i giornalisti del Paese si catapulteranno qui per sbranarlo, disposti a qualsiasi cosa pur di portarsene a casa un pezzetto. Prima di allora, io non lo mollo un secondo. Il ragazzo mangia un panino? Lo registriamo. Si addormenta? Lo registriamo. Va a pisciare contro quell’alberello là in fondo? Indovina un po’? Lo registriamo!
Ok, come vuoi. Però lascia che ti chieda almeno questo: cosa speri di ottenere? Vuoi risposte?
Certo, o almeno che tutto il pianeta si ricordi che sono stato il primo a cercarle.
Dieci secondi, dice l’operatore.
Renato finisce di abbottonarsi la terza camicia bianca, torna alla sedia di fronte al ragazzo, si siede, si schiarisce la voce.
Il ragazzo si gratta un gomito.
Tre, due, uno, in onda.

Bentornati a Un vita in venti minuti, telespettatrici e telespettatori, dice Renato guardando in camera.
Non ci resta molto tempo, ancora qualche minuto e dovremo dare la linea al telegiornale. Quindi, mi auguro che il nostro ospite si decida a raccontarci qualcosa che sia interessante almeno quanto la sua… apparizione. Se così non fosse, qui Renato indica il ragazzo e la voce assume per la prima volta un tono sprezzante, sarà difficile fugare il dubbio che si tratti di una trovata pubblicitaria, di un bluff. Ben organizzato, certo, ma pur sempre un bluff.
E lei ne sa qualcosa di bluff, non è vero?
Senta, dice Renato, le mani che artigliano i braccioli della sedia, io le ho messo a disposizione un’intera diretta. Mi ha ripagato con sorrisetti e risposte evasive, ma adesso basta. Non sono un pupazzo con cui lei può permettersi di giocare.
Certo che no, so bene quanto lei sia capace di prendere decisioni anche sgradevoli in assoluta autonomia, senza ascoltare i consigli delle persone che le stanno attorno.
Oh, guardate un po’! A quanto pare il nostro ospite rifiuta di parlare di sé ma ha la pretesa di conoscere benissimo il sottoscritto.
Vuole sapere qualcosa di me? D’accordo. Sa cosa cos’è l’anancasmo?
No, ce lo spieghi lei. Almeno avremo il piacere di sentirla dire qualcosa.
L’anancasmo indica l’ineluttabilità di alcuni comportamenti da parte delle persone affette da disturbi ossessivi-compulsivi. La costrizione a eseguire un’azione o ad avere un determinato pensiero.
Mi faccia capire: mi sta dando del disturbato?
Non sto parlando di lei, ma di me, anche se in senso figurato. Sto cercando di spiegarle che se sono qui è per una qualche forma di costrizione su cui non ho alcun controllo. Non ho deciso di essere qui oggi, né di sedermi a parlare con lei. Lo veda come un dato di fatto, come qualcosa che è così e basta.
Prima le ho chiesto se c’è qualcuno a muovere i fili. Devo prendere questa sua spiegazione come una conferma che lei è in qualche modo controllato? Ovvero, mi sta dicendo che lei non ha il libero arbitrio?
In un certo senso potremmo dire che no, non ho la possibilità di scegliere. Oppure, potremmo dire che ho una funzione ben precisa e che non fa alcuna differenza se sia io a sceglierla o meno, purché questa vada a buon fine. Del resto, il libero arbitrio non è una garanzia di operare le scelte migliori, e questo lei lo sa bene. Si è mai pentito di una sua scelta?
Le ho già detto un mucchio di volte che non siamo qui per parlare di me! La finisca di tirarmi in ballo per giustificare la sua reticenza!
Ho toccato un nervo scoperto, a quanto pare.
Serena ha seguito lo scambio di battute senza distogliere lo sguardo da suo padre. Ha visto il rossore uscirgli dal colletto della camicia e arrampicarsi sul collo, le vene sulla sua fronte gonfiarsi, segnali di congestione in aperto contrasto con la sensazione di freddo che ha invaso lei, forse anche a causa del vento che le asciuga il sudore alla base della schiena. Un brivido, poi un’intuizione di quelle che quando compaiono non lasciano spazio a dubbi o smentite. Il ragazzo sembra conoscere particolari, risvolti, cicatrici.
Fallo smettere, dice Serena accostando la bocca all’orecchio di Gloria, fallo smettere prima che sia troppo tardi.
Quello che legge negli occhi della donna che ha odiato di più in vita sua, e verso la quale adesso sente una strana forma di vicinanza che la stupisce, è che è già troppo tardi.
Sussultano insieme quando Renato inizia a urlare.
Come ti permetti?, dice passando al tu senza rendersene conto, chi cazzo ti credi di essere?
Fosse scoppiato un paio di secondi prima il tuono avrebbe coperto la prima parolaccia di Renato in vent’anni di dirette, invece copre la risposta del ragazzo.
Fai qualcosa, adesso!, dice Serena nell’orecchio di Gloria, che a questo punto si avvicina a Renato, senza curarsi di impallare l’inquadratura.
Si china su di lui. Smettila, sussurra. Tra poco abbiamo finito la diretta, mantieni la calma, o se proprio non ce la fai manda la pubblicità.
’Fanculo la pubblicità!, risponde Renato mentre le appoggia una mano su un fianco e la scansa.
Il pubblico dietro alle due sedie rumoreggia, una signora si porta una mano alla bocca, due ragazzini sghignazzano, la madre li zittisce con uno schiaffetto sulla nuca. Inizia a piovere, qualcuno si copre la testa con un giornale, qualcuno abbandona la sua posizione e va a rifugiarsi in macchina. Chi è venuto a piedi inizia a correre verso il paese.
Sono anni che racconti storie altrui, dice il ragazzo, forse sarebbe il momento di raccontare la tua, che ne dici? E per una volta di raccontarla senza l’aiuto degli autori del programma, raccontarla così come si è svolta. I personaggi di questa storia sono tutti qui, mi pare. Tranne uno, ovviamente. Abbiamo tua figlia, là dietro. Il tuo pubblico la conosce? No, vero? Non hai mai parlato molto di lei nelle interviste, in effetti. E abbiamo qui anche la tua assistente, fedelissima. L’hai scacciata in malo modo, ma almeno il pubblico ha potuto vederla. E chi manca all’appello? Lo vuoi dire tu o lo dico io? Vuoi dire perché la tua ex moglie non è qui, perché non può essere qui? Perché viene tenuta sotto osservazione e imbottita di calmanti da quando ha scoperto…
Renato scatta in piedi, il viso stravolto dalla rabbia, i capelli scompigliati dal vento che sbattono sulla fronte.
Chi ti ha mandato, dice, come cazzo fai a sapere…
La pioggia aumenta di intensità, l’operatore asciuga con un panno l’obiettivo della telecamera ma le gocce si riformano troppo in fretta per riuscire a mantenerlo asciutto.
Un lampo illumina a giorno la valle, Renato in piedi, il ragazzo seduto con le mani intrecciate sotto il mento, la poca gente rimasta ad assistere, l’operatore con un fazzoletto in mano, Serena con le braccia incrociate all’altezza dello stomaco, Gloria che scherma con la mano destra il display del cellulare, poi preme un tasto e rifiuta una chiamata.
Non starò qui a farmi insultare, urla Renato per evitare che la voce venga coperta dagli scrosci della pioggia, te lo faccio ingoiare quel sorriso, pezzo di merda!
Anche Gloria inizia a gridare, Spegni tutto, dice, spegni le luci e quella maledetta telecamera. L’operatore ha la pioggia negli occhi, cerca di asciugarli con una macchina, Che cosa?, grida anche lui, ma un nuovo tuono copre la sua voce, e poi è la volta del fulmine che si abbatte sul gruppo elettrogeno e fa saltare le luci in una girandola di scintille che si spengono non appena toccano l’erba fradicia. I pochi rimasti a seguire la trasmissione si allontanano gridando, qualcuno cade, viene calpestato, si rialza, corre via.
Per un secondo c’è solo il rumore della pioggia, e Serena sente a malapena la voce di uno dei suoi figli che la chiama. Ha aperto la portiera della macchina, sta piangendo. Serena corre verso di lui, senza voltarsi indietro, e quando è a pochi passi dalla macchina vede in lontananza un bagliore che si avvicina. Sono fanali di una, due, tre auto, e dietro di loro i lampeggianti del cellulare della polizia, un camion dei pompieri. Hanno imboccato la provinciale all’inizio della valle e si stanno avvicinando a velocità sostenuta.
Serena sale sul sedile posteriore, si mette in mezzo ai due figli, li abbraccia entrambi. Va tutto bene, è solo un temporale, tra poco andiamo a casa. Aspettate qui, torno subito.
Anche senza le luci, e pur avendo perso il minutaggio della diretta, l’operatore ha continuato a girare. Si è tolto la giacca e la usa per proteggere l’obiettivo dalla pioggia. L’inquadratura è fissa, e senza le gente a far da sfondo dietro le sedie si vede il dolce pendio che dalla pianura conduce alla collina, sferzato dalla pioggia battente.
Renato è ancora in piedi, il ragazzo seduto; restano a fronteggiarsi nella luce stroboscopica dei fulmini sempre più frequenti.
Che cosa vuoi da me?, urla Renato.
Te l’ho già detto, non volevo nulla di diverso da quel che è successo. Solo che tu facessi i conti con quello che hai fatto in passato.
Non è stata colpa mia! Cos’altro avrei potuto fare? Fingere che tutto fosse come prima? Non è colpa mia se lei era così fragile!
Non è con me che ti devi scusare.
Il ragazzo si alza in piedi, i lampeggianti che si avvicinano alle sue spalle.
Gloria si toglie i capelli bagnati dagli occhi, indecisa se seguire la truccatrice e andare a cercare riparo nel furgoncino, strappare la telecamera dalle mani dell’operatore, schiaffeggiare il ragazzo, provare a calmare Renato.
Nella luce abbagliante di un lampo vede che il ragazzo ha un paio di forbici in mano. Grida qualcosa a Renato, inizia a correre, ma i tacchi affondano nell’erba bagnata e dopo due passi si ritrova inginocchiata, l’orlo della gonna che beve il fango.
Vede il ragazzo che solleva le forbici, spalanca le lame, con un taglio secco recide il filo che gli fuoriesce dal braccio sinistro, poi quello del braccio destro.
Le pare di sentire, ma nel frastuono del temporale potrebbe essere solo una suggestione, il rumore dei fili che si arrotolano. Li vede venir risucchiati verso le nuvole, in una manciata di secondi scompaiono.
Gloria si rialza a fatica, cammina controvento per raggiungere Renato, lo abbraccia e lo sente singhiozzare.
Le macchine, il cellulare della polizia e il camion dei pompieri si sono fermate a poca distanza. Alcuni giornalisti con un microfono in mano, due agenti e un vigile del fuoco scendono dai veicoli e si guardano intorno.
Che sta succedendo qui?, chiede un agente mentre cerca di aprire l’ombrello.
Gloria non risponde, da sopra le spalle di Renato segue con lo sguardo i movimenti del ragazzo, libero dai fili.
Un lampo, il ragazzo sta correndo verso la cima della collina, un lampo, l’ha raggiunta, un lampo, il ragazzo scompare oltre il crinale e non lo si vede più.

***

In copertina: Enzo Benedetto, Ciclista, 1926.