È estate, voi,
miriadi di promesse nella pioggia,
scrosciate. Io vi amo.
Pensate per me un ritmo e un volto,
perché satiro
non voglio più essere
senza il riso che mi straccia i denti.
E tu, femmina,
tra tutte le gocce esplose
ti avvicini, ti allontani,
mi pare sempre di attendere un canto,
ma oggi la pioggia m’inganna.
Eppure ti vedo,
mentre ti dono cento gazzelle
per danzare insieme nella mia savana.
E colgo per te tutti i leopardi,
sonnolenti, dagli alberi
perché tu li rincorra
e salga sui loro colli massicci
fino a perderti fra le macchie, lieve del tuo colore.
Qui, nella casa, piove.
Soltanto per distrarmi ad amarti
dentro le gocce ialine io spingo l’occhio buono,
il destro, e mi scorgo
a istruire per te
lepri di bosco, che ti mostrano
i sentieri tra le erbe e i pini, come ti fuggono
le compagne spaurite,
ora che diventi volpe.
E seguo il tuo olfatto
negli atomi nebulizzati, tra i pollini,
mentre fingo che il sole,
monco com’è d’ogni altro senso,
non vede, non sa.
E lascio che il tuo calcio
segni il passo, il mio passo di satiro,
ora che capisco amaramente
che io posso essere là dove
tu sei senza nome.
Eppure tu, tutta rossa di pelo,
subito buia ti fai come la notte, mia civetta,
e tagli col tuo volo
la carne bianca della luna
e la crosta grumosa di bave delle sue parole,
cui non cedi o cederai,
intanto che io sto lì col piede storto,
un corno rotto, mezzo morto,
– fingendo che l’amore sia stato,
l’amore colpevole – per te
che non so chi sei.
È ancora estate,
quando socchiudo gli occhi
e di voi, miriadi di promesse nella pioggia,
soltanto il rumore resta,
mentre scrosciate. Sì, io vi amo.