È possibile avere un secondo proemio? Se qualcuno cercasse la seconda parola che meglio afferra il flusso verticale e precipitoso dell’Iliade – la prima è chiaramente: ménin, l’ira, posta a fondamento della sedicente letteratura occidentale –, la risposta sarebbe corpi, o meglio, ciò che resta di loro, ombre di corpi, tàs psychàs (Iliade I, 3) – parola che a mio giudizio è errato e per nulla confacente alla poesia omerica tradurre con vite o anime, dato che nell’Ade giunge solo l’ombra di ciò che un tempo fu corpo e vita.
L’Iliade è, dunque, un’opera di verticalità (categoria che va molto ultimamente, l’aggettivo verticale sta per sostituire poetico, e in fondo rappresentativamente è anche giusto) e di concentrazione. E la concentrazione è l’arte di Atena. L’ira e la concentrazione, ménis kaì métis, Iliade e Odissea. Non dimentichiamo che la prima parola dell’Odissea – e con questa il proemio – è un inganno. Di fatto la parola chiave del proemio, che esaurisce i primi 12 libri dell’Odissea, è un avverbio, amóthen: da una parte qualsiasi o da dove la musa (o nel linguaggio accentratore omerico, la dea) voglia iniziare il canto o, come suggerisce il verbo dire, la narrazione.
Il canto di Odisseo, quindi, esaurito il suo carico di vagabondaggi, mostri e donne bellissime, con le quali condividere la più feconda promiscuità, aveva bisogno di un altro proemio, quello che parlasse del ritorno, l’arte segreta di Atena, applicazione pratica della metis, che quindi si raddoppia: una metis ogni 12 libri, un vero affare.
Be careful with that metis Kerényi. Nel suo bellissimo libro Gli dèi e gli eroi della Grecia (Il Saggiatore, 2015) Károly Kerényi traduce o, più precisamente, ritiene che Metide (che è lo stesso di Metis), prima moglie di Zeus, rappresenti o rechi con sé “il buon consiglio”. I greci – quei greci, a cui Kerényi si riferisce alla prima persona plurale, come a suoi diretti antenati – erano estremamente meticolosi nella nomenclatura e nell’acquisizione di capacità ulteriori, quando si trattavano temi genealogici. Già qui ho tratteggiato un profilo della metis, è chiaro che Kerényi non l’abbia tenuto in considerazione per il suo libro, fatto che sinceramente mi dispiace.
Doppia metis. Dicevo della possibilità di individuare una sorta di secondo proemio. Se l’Odissea l’avesse scritta un autore moderno o contemporaneo, di certo avrebbe aggiunto lì all’inizio o nel mezzo del libro Tredicesimo (XIII) un’altra invocazione. E chiediamoci, noi che siamo moderni e contemporanei, se questo non avrebbe costituito un caso letterario. Però, lo so, divago. Quindi: un proemio dal quale fosse escluso ogni altro amóthen; un proemio che concentrasse tutto in una verticalità ascensionale, opposta alla caduta iliadica[1].
Dal verso 287 fino al verso 310, ecco che pare configurarsi questo secondo proemio, questa seconda, doppia metis. Dicevo, all’inizio, che Atena rappresenta la concentrazione in ogni senso e ambito: Achille viene trattenuto per i capelli e invitato a concentrare la sua rabbia verso un solo fuoco, un unico scopo, cioè nella resa di Agamennone; Odisseo anche, sebbene con altre parole, con altro amore, viene incitato a concentrarsi, resistere, sopportare. In pratica a usare l’altra metis, quella propria del ritorno. Sì, è vero, Odisseo anche nella caverna di Polifemo ha il ritorno nel cuore e anche sulle sponde di Calipso e al banchetto dei Feaci, ma hic et nunc siamo a Itaca – e anche qui a Odisseo e ad Atena importa il ritorno più di prima, poiché Odisseo è tornato, ma non è ancora tornato fino in fondo.
La metis – inganno e cazzimma – è il filo rosso che scorre tra gli esametri dell’Odissea; è mutevole, molteplice, ostinata, mai sazia di sé stessa. Perciò Zeus ne fa la sua prima sposa, la figlia Pallade Atena è la sua prediletta e di conseguenza Odisseo suo portatore sano. E dunque, come si presentano le due metis che sono una, che sono molteplici? Durante le sue peregrinazioni Odisseo, sebbene accompagnato dai suoi uomini, sa di essere solo, e sa che il ritorno è riservato solo a lui e seppure non lo sa – se non lo presagisce coscientemente, poiché non è un moderno, nonostante sia testimone dello sfacelo della sua epoca – impara poco a poco a sopportarne il destino, cioè il caso. Solo la metis si oppone al caso. Ed è questa la prima metis.
Metis don’t like nobody. Una volta, però, che il caso, la vaghezza del vagabondo, ha trovato il suo viatico nell’accompagnamento dei Feaci e nel dolce sonno che Atena lascia cadere sulle palpebre di Odisseo, quasi a volerlo preparare, facendolo riposare, all’impatto con la sua patria, con il ritorno e la seconda metis – ecco allora che il sonno abbandona Odisseo, il viaggio è finito, ma non è finito.
La nebbia lo accoglie ad Itaca, la nebbia di Atena, che gli si fa incontro sembrando una donna – sa che Odisseo è sensibile alle figure femminili. E lo lascia parlare, lo tenta, vuole sapere fino a che punto è disposto a mentire, a usare la sua metis, che fino ad allora l’ha accompagnato. Atena sorride e lo accarezza – ed è questo il più bel gesto d’amore dell’Odissea.
Poi, dopo il riconoscimento, Atena gli dice: “Ora sono giunta di nuovo qui”, e lo prepara ad affrontare la situazione che si è creata in patria, in casa, con l’assedio dei Proci. Odisseo è l’eroe che rompe gli assedi (il cavallo, l’inganno a Polifemo sono gli esempi più illustri). E ora, in patria, gli tocca l’ultimo e più difficile assedio, quello in cui bisogna sopportare le peggiori zozzimme degli uomini. La metis di cui dovrà farsi carico (perché metis è anche un peso, è una forma della gravità) non dovrà essere la stessa che gli ha permesso di espugnare Troia o di salvarsi da Polifemo o di disilludere la magia di Circe, è una cazzimma più profonda e radicale. Ē la cazzimma di chi è sotto costrizione, di chi dovrà fingere di essere altro da sé, mescolandosi ai Proci, sopportando l’insulto e lo sputo – e insieme prefigurando, in un climax di versi ripetuti e uguali (la mnemotecnica aedica all’ennesima potenza), e accrescendolo il desiderio di corpi caduti, di ombre con le quali affollare l’Ade. Insomma, giungere al punto in cui la seconda metis s’incrocia con la menis, in cui il sogno di vendetta dell’Iliade si innalza di nuovo e finalmente anche nell’Odissea.
***
Odissea, XIII 248-255
«Perciò, straniero, il nome di Itaca è giunto fino a Troia,
eppure dicono che sia lontana dalla terra achea».
Così disse, il paziente chiaro Odisseo si rallegrò
gioendo per la sua terra, come gli disse
Pallade Atena, la figlia di Zeus Egioco;
e parlando le rivolse alate parole:
ma non disse la verità, mentì[2],
volgendo sempre nei precordi un pensiero molto astuto: […]
Odissea, XIII 287-310
Così disse, sorrise la dea glaucopide Atena,
e lo accarezzo con la mano; sembrava nell’aspetto una donna
bella e alta ed esperta di opere luminose;
e parlando gli rivolse alate parole:
«Dovrebbe essere accorto e abile nei discorsi, chi volesse superarti
in tutti gli inganni, anche se un dio ti stesse davanti.
Ostinato, ricco di astuzie[3], insaziabile di inganni, non dovevi,
neanche trovandoti nella tua terra, smettere gli artifici
e i discorsi falsi, che sono cari nel profondo.
Ma avanti!, non diciamone ancora, conoscendo entrambi
l’accortezza, poiché tu sei tra tutti i mortali il migliore
per consiglio e intenzioni, io tra tutti gli dèi
sono celebre per astuzia e accortezza; neanche tu hai riconosciuto
Pallade Atena, la figlia di Zeus, che sempre
in tutti i dolori ti assisto e proteggo,
e ti ho reso caro a tutti i Feaci.
Ora sono giunta di nuovo qui, per ordire insieme a te un piano
e nascondere i beni, quanti gli illustri Feaci
ti donarono, per il ritorno a casa, per mio consiglio e pensiero,
e per dirti a quanti dolori è tuo destino resistere
nelle case ben costruite, sopporta anche se sotto costrizione,
non parlare ad alcuno né uomo né donna,
a nessuno, del fatto che vagando sei tornato, ma in silenzio
soffri molti dolori, sopportando la zozzimma[4] degli uomini».
Odissea, XIII 339-340
«In fondo mai ho dubitato, ma nell’animo
sapevo, che saresti tornato dispersi tutti i compagni».
[1] L’Iliade, per chi l’ha saputa leggere, è marchiata di tragedia allo stato embrionale. Il funerale di Ettore, i giochi per la morte di Patroclo e la vittoria illusoria di Achille – non sono forse questi i segni distintivi che troveremo dopo due secoli in Eschilo?
[2] Letteralmente: intraprese un racconto contrario, opposto.
[3] POIKILOMĒTA (traslitterato): colui che conosce le sfumature dell’astuzia.
[4] Letteralmente: le violenze.