[NdA: Il seguente racconto di fantasia prende le mosse da un fatto reale avvenuto alla fine del luglio 2016. Notizie al riguardo sono reperibili qui: http://bari.repubblica.it/cronaca/2016/07/30/news/lecce_obesi-145074439/
Alcuni nomi di persona sono stati cambiati dall’accorto curatore ARDV per evitare alla rivista fastidiose ripercussioni legali. L’autore, da parte sua, avrebbe tratto dall’evenienza molto divertimento.]
Il generale diede l’ordine al suo popolo-esercito di fermarsi. Si trovavano in una piana di terra compatta e all’apparenza arida, circondata da colline. Pochi arbusti secchi contribuivano a dipingere il quadro di una landa desolata, respingente. A parte i centri di potere, che per ovvi motivi non avevano mai visitato, tutto il mondo a loro conosciuto era fatto di boschi o piane aride come quella. Il posto, riparato com’era, allo smilzo comandante sembrava però adatto ad accamparsi e far riposare i cavalli ma soprattutto le donne e i bambini al seguito del contingente. 229 elementi umani in tutto, di cui circa la metà soldati; una razza di straccioni disidratata, affamata, distrutta dall’erranza era quanto rimasto degli antichi uomini.
Il cambiamento era iniziato cinque secoli prima con una rivolta pacifica, un esposto al ministero col quale si chiedeva la modifica della dicitura “obesità mostruosa” utilizzata nelle diagnosi mediche per coloro che avessero superato i 180 chili di peso. Correva l’anno 2016 dell’era antica, l’anno 0 di quella moderna. Anche ora, nel 468, la storia non si era offuscata e chiunque avrebbe potuto raccontarla nei particolari. Il condottiero che per primo aveva alzato la voce si chiamava Tiberio Prima e all’epoca della lettera al ministero aveva 47 anni e pesava 200 chili. Alcuni sostenevano che l’avesse scritta col suo stesso sangue e inviata con un sigillo di burro ma molto spesso, nella vicenda del Prima – tramandata perlopiù oralmente da molte generazioni – verità e leggenda si sovrapponevano. Era pensiero comune che la lettera fosse ancora conservata da qualche parte in una delle capitali, magari addirittura nell’antico edificio ministeriale a cui era stata indirizzata, ammesso che fosse ancora in piedi. Forse era stato trasformato in una delle migliaia di fortezze dei Ciccioni sparse per il Paese, una delle milioni sparse su tutta la Terra. Nella lunga missiva si diceva fossero raccontate le tante storie di soprusi e umiliazioni vissute da Prima durante la sua vita di uomo civile, quando non era ancora il capo della più grande rivolta di cui si avesse memoria.
Un episodio conosciuto, ad esempio, riguardava la rovinosa caduta dal letto ortopedico fornito all’uomo dall’antica “asl”, organo assistenziale di quei tempi. La struttura aveva ceduto nottetempo e solo l’intervento dell’anziano padre di Prima, aiutato da altri sei uomini, aveva potuto liberare il futuro capo dal ginepraio di ferri. Tiberio Prima aveva dovuto dormire in sedia a rotelle per molti giorni; nessuno sapeva se il letto gli fosse stato in seguito sostituito.
La lettera al ministero era stato come incendiare una miccia: i giornali ne avevano parlato con titoli altisonanti quali “La rivolta degli extralarge!”, “Rivoluzione obesa!”, “«Siamo grassi ma non mostruosi»: obesi in rivolta”, che avevano infiammato i dibattiti e i cuori dei milioni di Ciccioni sparsi in tutto il mondo ma ancora timidi, spaventati.
Il ministero non aveva risposto e quest’indifferenza, per Prima, era stata l’ultimo affronto. Rivendicando i termini “Ciccione” e “Obeso”, aveva fondato il “Comitato Orgoglio Nazionale Obesi”, così da attirare l’attenzione di un altro personaggio molto influente, passato alla storia come Mario Adinholf. Arringatore nato e dal peso per quei tempi prodigioso di 209 chili – alcune cronache riportavano questa cifra ma c’era chi supponeva ne pesasse almeno 300 – Adinholf aveva raggiunto in pochissimi mesi la posizione di vicepresidente del CONO, affiancando Prima in ogni sua decisione e diventando la voce pubblica ufficiale del Comitato. Un anno dopo la fondazione, il CONO si era trasformato in partito politico, cui si poteva accedere da tesserato solo a partire dai 180 chili di peso in su. Tre anni dopo ancora, forti del consenso di tutta la gente grassa del Paese e degli altri Paesi del primo e secondo mondo (organizzatasi nel frattempo in comitati dipendenti da quello centrale guidato da Prima e Adinholf) i due condottieri avevano preparato un colpo di stato e si erano impadroniti del potere.
Le modalità e i particolari della prima battaglia non erano pervenuti ma si sapeva che ovunque si erano scatenate rivolte violente e la guerra contro i Ciccioni aveva attraversato fasi alterne; tuttavia, nell’anno 98 d. P. (dopo Prima), i capi della rivoluzione morti già da decenni, le persone obese legiferavano in tutti i Paesi dell’Occidente senza più ostacoli. Cent’anni dopo (198 d. P.), a causa della proverbiale pigrizia dei Ciccioni, il mondo era ormai regredito a un nuovo medioevo e quasi tutte le scoperte tecnologiche avvenute nei secoli precedenti erano andate perdute. Il CONO si era nel frattempo trasformato in una monarchia assoluta di carattere imperiale e vassallatico; demani e contee venivano assegnati ad amministratori locali i quali rispondevano a centri di potere sempre più importanti: una rete che portava direttamente all’Imperatore, il Ciccione più grasso, scelto tra una rosa di 10 finalisti e pesato durante una solenne cerimonia pubblica che si concludeva con l’incoronazione. Il criterio puramente fisico della scelta del sovrano portava spesso il CONO a dover sopportare momenti complessi: i pretendenti all’Impero provenivano da ogni parte del mondo conosciuto, spesso parlavano lingue incomprensibili o si rivelavano non in grado di gestire il potere. Ma il peso diceva la verità, il peso stesso era il potere.
Nel periodo precedente all’anno 0 si sentiva spesso parlare di società liquida e, per contrasto, di un eventuale e possibile ritorno delle cosiddette “logiche pesanti”. Filosofi del tempo di Tiberio Prima ne avevano scritto ma nulla era rimasto, eccetto un paio di nomi: Romano Luperini, Raffaele Donnarumma. Nomi associati dai più alla storia dell’avvento degli Obesi ma di cui si conosceva poco altro. Era famoso il racconto della decapitazione, nel 15 d. P., di un certo Bauman, probabilmente un guerriero che aveva combattuto gli Obesi. Bauman, diceva il mito, era addirittura centenario quando aveva guidato un’armata contro i Ciccioni e li aveva fronteggiati con impareggiabile coraggio, prima di essere catturato e giustiziato.
L’avvento del CONO aveva letteralmente incarnato il ritorno delle logiche pesanti. Termini quali “automobile”, “connessione”, “pochemongò”, “televisore”, “smartfon” ogni tanto spuntavano fuori ma sul loro reale significato c’erano solo supposizioni, teorie fantasiose. Nessuno sapeva granché del mondo precedente alla lettera al ministero di Tiberio Prima, a parte ciò che raccontavano le storie, vere o false che fossero. Il concetto stesso di “verità” era radicalmente mutato e, d’altro canto, non esistevano più i presupposti perché a qualcuno interessasse ridefinirlo. Storia, filosofia, letteratura. Astronomia, biologia evoluzionistica, matematica. Tutto dimenticato. Tutto sepolto da una coltre di adipe che aveva ridefinito e rigenerato ogni parametro intellettuale, morale, fisico.
I Ciccioni si erano affermati con la possanza di una specie nuova e superiore che rivendicava il peso corporeo come forza assoluta, in grado di zittire tutta la cosmogonia del passato e qualsiasi tentativo di argine. Dopo il colpo di stato fu avviata una campagna di reclusione sistematica delle persone di peso inferiore ai 180 chili (misura poi riveduta a 150 per gli uomini e 120 per le donne). Chi non raggiungesse queste misure fu costretto a ingozzarsi nel tentativo di arrivare al peso standard minimo, pena il lager e lo sterminio.
Dopo due secoli gli uomini magri erano estinti e le logiche pesanti si erano affermate in via definitiva. I pochissimi superstiti o scampati per miracolo alle deportazioni e alle stragi di massa, rifiutandosi di ingrassare, vivevano nascosti nelle fogne o nelle zone abbandonate, scappando e acquattandosi come altrettanti ratti e scarafaggi. I ribelli si cercavano continuamente a vicenda, tentando di resistere alla polizia obesa e fare blocco come meglio potevano. Sempre nascosti, avevano costruito una parodia di esistenza nei luoghi più remoti e impervi, spostandosi altrove al minimo sospetto di essere stati individuati. Prima o poi, comunque, venivano stanati e messi all’ingrasso o giustiziati sulla pubblica piazza. Data, ormai, la rarità di eventi simili, quando si organizzava un’esecuzione pubblica di smilzi milioni di Ciccioni accorrevano anche dai centri di potere più lontani.
Il generale era nato nell’ultima comunità clandestina di smilzi conosciuta nell’Occidente, figlio del capo in carica. Quella era la sua gente e da quando, dopo la morte del generale suo padre, il comando era passato a lui (previa approvazione del consiglio dei tre anziani) aveva tentato di salvaguardarla in ogni modo, spingendosi sempre più a est, rifugiandosi sulle montagne o nei boschi di cui buona parte del mondo era di nuovo piena, cercando durante il cammino altri smilzi da annettere al proprio gruppo perché la Resistenza sopravvivesse e magari, un giorno non troppo lontano, i magri prendessero di nuovo il sopravvento. L’est del mondo costituiva una speranza debolissima, il generale lo sapeva, tuttavia nessuno conosceva la situazione orientale: forse, lì, gli smilzi erano molti di più. L’unica era marciare e nascondersi, marciare e nascondersi, marciare e nascondersi per non soccombere. Prima o poi, chissà, sarebbero arrivati davvero da qualche parte.
Aveva dato l’ordine di fermarsi nella piana desolata, nonostante sentisse forte il bisogno di allontanarsi, di spingersi ancora più a est. Un centro di potere era a soli quindici giorni di cavallo, lo avevano aggirato passando attraverso i boschi, tenendosene molto alla larga. C’erano voluti quasi due mesi di cammino: si trovava alle loro spalle, adesso, ma non così lontano. Il contingente si muoveva a passo d’uomo, anzi, più lentamente, considerate le donne e i bambini e le vettovaglie. I cavalli a disposizione erano una decina e destinati allo Stato Maggiore ma quasi sempre i luogotenenti camminavano di fianco agli animali, su cui a turno venivano poggiati i piccoli più stanchi o i pochi vecchi rimasti o gli ammalati.
C’era bisogno di riposo, tutti dovevano recuperare le forze dopo la marcia delle ultime settimane, nessuno escluso. Il generale, ancora in groppa al cavallo mentre gli altri si apprestavano a preparare l’accampamento e qualche timido fuoco da bivacco veniva acceso, stette per un po’ a osservare la sua gente. Avrebbe voluto poter fare di più per quelle facce scavate, per quei corpi rachitici. Qualcosa di più che costringerli a fuggire come gli ultimi topi di fronte all’infinita, adiposa fiumana dell’eccesso che investiva il mondo da quasi cinquecento anni. Gli ultimi magri rimasti erano niente più che topolini in balia di una corrente a cui provavano a resistere con le ultimissime forze a disposizione. Stavano morendo, il generale lo vedeva. A ben pensarci, la cosiddetta “società liquida” degli anni prima di Prima esisteva ancora, aveva solo mutato forma. I Ciccioni l’avevano fatta loro, di quel fiume costituivano ora il letto, avevano imparato a orientarla, opponendo ai suoi flussi arbitrari il loro peso, la misura di ogni cosa. Forse, pensò il generale in preda allo sconforto, forse i Ciccioni costituivano davvero una razza superiore, meritavano davvero di resistere e spazzare via tutti gli altri. Forse gli smilzi erano davvero canne oscillanti al vento, impossibilitati a far altro se non lasciarsi andare, arrendersi allo scarto evolutivo, al nuovo e al vecchio che avanzando insieme avevano cambiato l’assetto della Storia e della stirpe umana. Forse l’est nemmeno esisteva.
Sentì in lontananza uno schiocco, come un suono di nacchera. Lo schiocco si ripeté secco, da dietro le colline. Una figura comparve su una cima, oscurando per un attimo il sole che si andava, via via, abbassando. Il Ciccione era nudo e doveva pesare almeno quattro quintali. Tutti gli smilzi, uno dopo l’altro, guardarono in direzione dell’Obeso in controluce: anche da lì si poteva notarne gli enormi polpacci, grossi ognuno come il tronco di un cavallo in buona salute. Nei secoli, la struttura ossea dell’umanità dominante si era modificata in modo da poter sostenere senza alcuno sforzo un peso di quattro, cinquecento chili e anche oltre. Il generale aveva sentito dire che i Ciccioni avessero un cuore grosso tre volte quello di uno smilzo. L’Obeso aprì la larga bocca e la richiuse di scatto: un altro schiocco secco, insopportabile. Poi le nacchere cominciarono a risuonare tutto intorno. Di punto in bianco, sembrò quasi che le colline circostanti la piana si stessero dotando di un altro livello, di nuove sommità: migliaia di Ciccioni, aprendo e chiudendo ritmicamente la bocca, comparvero nudi, con lentezza, in cima alla catena. Il suono di nacchere delle bocche si era fatto assordante. I bambini più piccoli cominciarono a piangere, atterriti d’istinto da quegli schiocchi orrendamente preverbali: alludevano a una verità terribile, implacabile, sempre più vicina. Guardando in basso e facendo attenzione a dove mettevano i piedi ma senza smettere di far schioccare i denti, le torme di Ciccioni cominciarono a scendere dalle colline, da tutte le direzioni.
Eccolo, il ritorno delle logiche pesanti.
Il generale chiuse gli occhi: non sopportava la vista di quel ballonzolio che ricopriva poco a poco i declivi delle colline come una glassa rosa, claudicante ma spietata, inarrestabile. Ebbe anche la tentazione di coprirsi le orecchie con le mani per non sentire il suono di tutti quei denti e il lamento del suo popolo. Un paio di cavalli disarcionarono i loro passeggeri e presero a correre per la vallata, imbizzarriti; un vecchio sbalzato a terra si era fratturato un braccio e aveva cominciato a piagnucolare e rigirarsi nella polvere ma nessuno pensò a soccorrerlo. Gli ultimi uomini aspettavano il compiersi del loro destino, immobili. Vedevano davvero, adesso, coi loro occhi, la sconfitta di specie. La piana si era dimostrata un vicolo cieco: forse i Ciccioni li avevano seguiti e spiati, aspettando che si cacciassero da soli in quella trappola. Proprio come topi, pensò il generale, mentre la massa si avvicinava e le logiche pesanti, forse per l’ultima volta, mordevano e schioccavano contro i residui barlumi di civiltà.
In copertina: elaborazione grafica di Francesco Palomba.