L’intervista “Roberto Bolaño, a cinco años de su muerte”, ad opera di Marcelo Damiani, è stata pubblicata dal quotidiano La Gaceta il 3 agosto 2008. Ringraziamo l’autore per averci concesso di tradurla e pubblicarla su CrapulaClub.
Traduzione di Francesca Regni.
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La prima volta che ho sentito il nome di Roberto Bolaño, ho pensato che mi stessero parlando di Roberto Gomez Bolaños, quell’attore messicano che è diventato famoso con il film El Chavo. Che c’entra, ricordo di essermi chiesto, il creatore de El Chavo del 8 con La letteratura nazista in America? Forse el Chavo era nazista? O forse Bolaño, come tutti gli attori in preda al loro ego, una volta terminato il successo legato al loro personaggio, pur di richiamare l’attenzione, si era messo a fare dichiarazioni imbarazzanti? Evidentemente non era nulla di tutto ciò. Roberto Bolaño, a parte la sospettosa somiglianza con il nome, non aveva niente a che fare con Roberto Gomez Bolaños. Si trattava di uno scrittore cileno, quasi sconosciuto, giramondo erudito, per non dire ai limiti del maledetto che, dopo aver sofferto un destino abbastanza latinoamericano, con una incarcerazione politica, la fuga argentina e un’agitata permanenza in Messico, era finito a vivere in un paesino costiero chiamato Blanes, a un’ora di treno da Barcellona. Era arrivato lì per puro caso, come lui stesso mi confessò nell’intervista che ho avuto la fortuna di fargli nel 1999 e, alla fine, è morto lì vicino il 14 luglio del 2003.
Nel 1999 ha vinto il prestigioso premio internazionale “Rómulo Gallegos” con I detective selvaggi che racconta la storia di tre poeti, uno dei quali è l’alter ego di Bolaño, Arturo Belano, che si butta a capofitto nella ricerca di una poetessa coinvolta in un tipico percorso latinoamericano. Una delle più importanti conquiste del romanzo è il fatto che, per la prima volta dopo molto tempo, si propone di pensare in forma narrativa l’America latina come un unico insieme, un tutto. In altri termini, rappresenta uno dei primi romanzi effettivamente latinoamericani che si siano potuti leggere in anni, e non è strano che l’artefice fosse un cileno-quasi-argentino-messicano, che viveva in Spagna. Fu in questo momento, nel pieno del boom post Detective, prima, però, del premio Rómulo Gallegos, che mi sono ritrovato a Blanes per cercare Bolaño; come se all’improvviso mi fossi trasformato in uno dei suoi personaggi, gettato dentro la trama di una delle sue storie. Mi ha invitato a casa sua per passare insieme una domenica nella quale abbiamo parlato di tutto, dalle 10 del mattino fino alle 6 della sera, pranzo e spuntino inclusi, con la sua adorabile moglie, Carolina, e suo figlio Lautaro, per il quale aveva una devozione speciale. Alla fine me ne sono andato con cinque cassette registrate che poi, nel mio lungo viaggio, ho finito per perdere. Gli ho scritto immediatamente, afflitto, e lui mi ha risposto di mandargli l’intervista che avevo composto e che mi avrebbe risposto di nuovo a tutto senza problemi, via mail. Mi ha mandato la sua versione del reportage ricostruito, qualcosa che, sospetto, si può leggere come uno dei suoi racconti. Giuro che quando l’ho letta, ho pensato che fosse una delle migliori interviste della mia vita.
Marcelo Damiani: Gentile Bolaño, mi hanno detto che lei beve solo tè.
Roberto Bolaño: Per favore, diamoci del tu.
MD: È che mi fa un po’ effetto darle del tu… .
RB: E perché?
MD: Non lo so, immagino per rispetto.
RB: Certo, i giovani oggi sono molto rispettosi. Io a ventidue anni sono andato a fare un’intervista a Onetti e la prima cosa che ho fatto è stata proprio dargli del tu. E Onetti sì che incuteva timore! Niente a che vedere con me, che oltre ad essere un pessimo scrittore (occhiolino: paragonato a Onetti), ho un’indole schietta e giovanile.
MD: Però sta diventando calvo, maestro.
RB: Una chierica da niente.
MD: Onetti è il suo scrittore preferito?
RB: Che Cristo! Ma davvero non riusciremo a darci del tu?
MD: Scusa.
RB: No, non è Onetti il mio scrittore preferito. Non ho uno scrittore preferito.
MD: Però gli hai fatto un’intervista e addirittura gli hai parlato dandogli del tu.
RB: Vivevo in Messico. Onetti era nel suo hotel. Io ero arrivato poco prima che andasse via. Stava facendo le valigie e lo aiutai. Gli dissi: Juan Carlos, vuoi che ti aiuti a fare le valigie? E lui disse, sì giovanotto, buona idea, lei cominci da quella e io finirò di fare questa. Così cominciai ad aprire una valigia di cuoio marrone chiaro, la ricordo perfettamente, come il colore del mantello di un cavallo baio e iniziai a mettere dentro dei panni, delle medicine e qualche libro.
MD: Onetti non le ha dato del tu?
RB: Mah! Ora che ci penso, no.
MD: E che libri leggeva Onetti?
RB: Non credo che leggesse i libri che stavo per mettergli in valigia. Per quello che ricordo, erano libri di autori messicani contemporanei, tutti autografati e, quando mi vide disse, no, giovanotto, i libri no. Così li ho tirati fuori e li ho appoggiati sul letto. Poi lui li ficcò in una busta di plastica di quelle che davano al Gigante, un supermercato che c’era in tutti i quartieri di Città del Messico, mi disse che se ce n’era qualcuno che mi piaceva, lo potevo tenere. Risposi che non volevo prenderne nessuno e allora Onetti prese la busta e li gettò nel cestino.
MD: Lei ha l’impressione che Onetti non avesse bisogno di libri?
RB: Sì, o comunque, aveva bisogno di pochi libri.
MD: E questa intervista dove fu pubblicata?
RB: Avrebbe dovuto essere pubblicata in una rivista di cui preferisco non ricordare il nome, però alla fine non se ne fece niente. Inoltre, visto che Onetti stava per partire, lo aiutai a fare le valigie e addirittura gliele caricai fino alla reception. Fino a quel momento credevo ancora che avremmo fatto l’intervista, però alla reception gli comunicarono che c’era già un taxi che lo aspettava alla porta, così lo accompagnai fino al taxi e Onetti, ovviamente, se ne andò. Non ebbi modo di realizzare l’intervista.
MD: Che peccato.
RB: Prima di entrare nel taxi Onetti mi diede dei soldi. Non ricordo quanto. Tre biglietti e tutte le monete che aveva nel portafoglio. Si è svalutata così tante volte la moneta messicana, che adesso non ricordo se fossero quindici pesos o quindicimila. Probabilmente entrambe le cifre sono sbagliate. Però quello che mi ricordo è che bastavano per andare a cena fuori, al cinema, o per comprarmi due libri. In quegli anni i libri non erano cari.
MD: E l’intervista?
RB: L’intervista me la sono inventata, però non l’hanno voluta pubblicare.
MD: Quanti anni hai vissuto in Messico?
RB: Dal 1968 fino a gennaio del 1977. Con un intervallo di alcuni mesi, poco più di mezzo anno, durante il quale ho viaggiato per l’America centrale verso il Cile, dove sono arrivato nel luglio o agosto del 1973 e poi sono ripartito nel gennaio del 1974.
MD: La quantità di viaggi che sperimentano i suoi personaggi è una sorta di ricerca poetica, come quella che pare compiersi nella sua scrittura; oppure questi viaggi sono una specie di metafora della perdita del senso della vita da parte dei suoi personaggi?
RB: I viaggi sono casuali.
MD: Qual è la sua concezione della storia: la struttura o la destrutturazione?
RB: Non lo so, caro Damiani. Qual è per lei?
MD: Credo la destrutturazione, o la struttura destrutturata, però non ne sono così certo.
RB: Guardi, per me la miglior concezione (anche se forse dovrei dire definizione) di un romanzo è ciò che disse Stendhal e cioè che un romanzo è uno specchio che percorre una strada. O è uno specchio o sono molti specchi, gli specchi vanno verso un’unica direzione o da tutte le parti possibili, a volte volano e a volte si rompono e quindi hai sette anni di sfortuna (per lo scrittore), però in fondo l’idea è questa, uno specchio che percorre una strada. In un certo senso, si può dire che è un esercizio di volontà.
MD: Ci sono romanzi in cui la volontà è stata eliminata, annullata.
RB: Che romanzi ricorda lei di questo tipo?
MD: La metamorfosi, di Kafka.
RB: Può essere. O Bartleby, di Melville.
MD: I turbamenti del giovane Törless, ad esempio, è un romanzo dove la volontà sembra sradicata a metà.
RB:: E Alice nel paese delle meraviglie?
MD: Alice, in un certo senso, è come Guerra e pace.
RB: Passiamo alla domanda successiva.
MD: Perché vive a Blanes?
RB: È un caso.
MD: Ezequiel de Rosso sostiene che la maggior parte dei racconti di Chiamate telefoniche, creano un universo paranoico. È d’accordo?
RB: È possibile. E comunque mi piacerebbe esserlo.
MD: Perché ha chiamato Sensini il personaggio principale del primo racconto di Chiamate telefoniche?
RB: Non lo so. Suppongo che il nome ha evocato in me una certa sensibilità, una certa fragilità. C’è anche un calciatore argentino che si chiama così e che gioca in Italia. Credo che sia abbastanza bravo. È un difensore, ma appena può va a giocare in attacco. Anche se adesso sto pensando ad altro.
MD: A cosa?
RB: A quello che ho detto sulla volontà e sul vuoto della volontà. E alla sua ostinazione a non darmi del tu, cosa che ha fatto sì che neanche io glielo dia. Qualcosa deve pur significare.
MD: Lei è di quelli che credono che tutto ha un significato?
RB: No, io piuttosto credo che siamo tutti personaggi consegnati al caso. Anche se a volte vorrei credere che tutto sia relazionato e faccia parte di un unico linguaggio, e che dunque si dia la possibilità di rinvenire un messaggio. Un messaggio possibile o forse impossibile, però questo è un altro discorso. Ieri notte ho visto in televisione una serie in cui uno degli attori diceva che è possibile che Dio ci parli. Può darsi che Dio ci stia parlando ininterrottamente dal secolo XIX o dal 1914, non ricordo, e il problema dunque sta nel linguaggio, nella comprensione. È come dire: gli extraterrestri arrivarono sulla terra duecento anni fa, però siamo noi che non riusciamo a vederli.
MD: Adesso non mi dica che lei è religioso…
RB: No, non molto, che è una risposta più adeguata.
MD: Come vede la narrativa cilena e, in particolare, quella latinoamericana?
RB: In realtà sulla narrativa cilena non ho niente da dire, in primo luogo perché non credo esista, in secondo luogo perché fino ad ora non ho potuto finire di leggere nessun libro di un giovane autore cileno. Per quanto riguarda la nuova narrativa latinoamericana… forse in questa cornice è possibile trovare qualcosa. Però ho paura che noi nuovi autori latinoamericani stiamo invecchiando troppo velocemente, voglio dire che di nuovi ce ne sono pochi. Mi interessa César Aira. Mi interessano i suoi esperimenti. Leggo con molta attenzione Juan Villoro. Forse il miglior scrittore di racconti latinoamericano oggi è Rodrigo Rey Rosa.
MD: Di cosa trattava esattamente il recente scandalo che lo ha visto coinvolto e che si è creato per l’invito da lei ricevuto ad andare in Cile?
RB: Ho urtato vari nervi a fior di pelle, come direbbe Nicanor Parra. Il Cile è il paese di punta dell’America Latina per il primato di avere al suo interno il più gran numero di gente ridicola per chilometro quadrato. L’umorismo e la ridicolaggine sono da sempre in contrasto.
MD: Si può affermare che “Joanna Silvestri” (in Chiamate telefoniche, NdT) è uno dei pochi racconti latinoamericani a giocare con il genere pornografico?
RB: Non credo. Si tratta piuttosto di un racconto melanconico.
MD: Un altro dei suoi racconti, “Sensini”, è una sorta di lezione magistrale sulla letteratura argentina degli anni ’80. Come la considera adesso?
RB: Bene, bene. Come sempre. La letteratura argentina è un’altra cosa. Forse come la messicana. Per certi versi la letteratura argentina e la messicana mi ricordano quella francese. Non la letteratura francese contemporanea, ma quella che si scriveva e che si viveva alla fine del XIX secolo. Sia nel bene, che nel male. Se è possibile: più in un senso negativo.
MD: Come le è venuta l’idea di scrivere La letteratura nazista in America?
RB: Non lo so. È affiorata da sola. Ad ogni modo, la sua genealogia è chiara. Viene dalla Sinagoga degli iconoclasti di Wilcock, che viene dalla Storia universale dell’infamia di Borges, che a sua volta viene dai Ritratti reali e immaginari di Alfonso Reyes, che deriva dalle Vite immaginarie di Schwob, che a sua volta, viene dalla prosa enciclopedistica. Come può notare, il mio è il peggiore della stirpe.
MD: Come e quando scrive?
RB: Al computer, la mattina. Prima, cioè molti anni fa, scrivevo durante la notte e a mano – credo di ricordare, infatti, che la mia relazione con la letteratura era migliore. Però tutto questo è finito.
MD: Quali sono stati i libri e gli autori che l’hanno influenzata di più?
RB: Mark Twain. C’è stato un periodo in cui mi piaceva tantissimo. Poco dopo, e questo è abbastanza strano, mi sono dedicato a leggere l’opera completa di Dostoevskij, a parte I fratelli Karamazov, che non ho voluto leggere perché avevo visto il film. In mezzo c’è stato un altro autore, credo fosse Victor Hugo. Credo di essere stato l’unico della mia generazione ad aver letto tutta l’opera di Victor Hugo. Infatti, a sedici anni quando vivevo in Messico e tutto mi sembrava grande e avverso, per molto tempo ho creduto di essere “L’uomo che ride”. Salivo sugli autobus o entravo nelle sale da biliardo con una stranissima smorfia in bocca.
MD: Sarebbe d’accordo con quella frase di Faulkner che sostiene che ogni romanziere è uno scrittore di racconti frustrato, e che ogni scrittore di racconti, a sua volta, è un poeta frustrato e, aggiungerei, che ogni poeta è un musicista frustrato?
RB: La frase è molto bella. L’idea anche, però non quanto il suono delle sue parole. A volte penso che ogni artista è un essere umano frustrato. Altre volte, al contrario, penso che ogni artista è un samurai, un killer professionista, un avventuriero. Cioè un essere umano frustrato, però pericoloso. Che vive nel pericolo di certa libertà limitrofa. Ad ogni modo io sono un poeta, uno scrittore di racconti e di romanzi e non mi sento per niente (per lo meno, non tutte e ventiquattro le ore del giorno) un musicista frustrato. Mi sarebbe piaciuto essere detective.
MD: Lei crede che l’artista è quell’essere che corre il rischio fino ai limiti del buonsenso, per il quale sembra non esserci differenza tra arte e vita?
RB: Prima di tutto io credo che, soprattutto con gli amici, la propria moglie e i propri figli, l’artista debba essere una persona gradevole. Gra-de-vo-le. Non bisogna aggiungere più immondizia di quella che già c’è. C’è una poesia di William Carlos Williams che parla proprio di questo. Se non puoi portare qui qualcosa che non sia la tua stessa merda, è meglio che te ne vai. Dopodiché credo che un artista debba sembrare tale e non un addetto alle vendite di polizze assicurative o un banchiere. Sulla differenza tra arte e vita, che cosa vuole che le dica caro il mio amico Damiani: non c’è nessuna differenza, è esattamente la stessa cosa.