Semplice e diretto

“Nel racconto [La memoria di Shakespeare], un oscuro scrittore, che ha dedicato la sua vita alla lettura e alla solitudine, per mezzo di un artificio molto semplice e diretto (di quelli che Borges ha sempre preferito per costruire un effetto fantastico), è abitato dai ricordi personali di Shakespeare.” (Ricardo Piglia, “El último cuento de Borges” in Formas breves, Anagrama, 1999. Il corsivo è mio.)

“Un artificio molto semplice e diretto” – le circostanze sono forse eccezionali, letterarie, ma le condizioni del dono sono semplici: il possessore della memoria di Shakespeare deve fare l’offerta ad alta voce, il destinatario del dono deve accettare. Così, ne “La memoria di Shakespeare”, Daniel Thorpe si libera dei ricordi personali del poeta inglese e li trasferisce a Hermann Soergel.

Il sequestro del lettore

Julio Cortázar in “Algunos aspectos del cuento” (1962-63), Obra crítica 2, 1994, Alfaguara:

«Nessuno può pretendere che i racconti si debbano scrivere solo dopo averne conosciuto le leggi. In primo luogo, non ci sono tali leggi; al massimo, si può parlare di punti di vista, di determinate circostanze che danno una struttura a questo genere così difficile da categorizzare; in secondo luogo, i teorici e i critici non devono essere gli scrittori stessi di racconti, ed è naturale che questi ultimi entrino in scena soltanto quando già esiste una traccia forte, una base che permetta di indagare e chiarire lo sviluppo e le qualità del racconto.
Col tempo, con gli insuccessi, lo scrittore di racconti capace di superare questa prima tappa ingenua, impara che in letteratura non bastano le buone intenzioni. Scopre che per riuscire a creare di nuovo, nel lettore, quella commozione che ha spinto lo scrittore stesso a scrivere il racconto, è necessario un mestiere di scrittore, e che questo mestiere consiste, tra le varie cose, nel raggiungere e ottenere questo clima proprio di ogni grande racconto, che obbliga a continuare a leggere, che attrae l’attenzione, che isola il lettore da tutto ciò che lo circonda per poi, una volta terminato il racconto, tornare a connetterlo con le sue circostanze in modo nuovo, arricchito, più profondo e più bello.
E l’unico modo in cui può avere luogo questo sequestro momentaneo del lettore è attraverso uno stile basato sull’intensità e sulla tensione, uno stile in cui gli elementi formali e espressivi si adattino, senza la minima concessione, all’indole del tema, che conferiscano al tema la sua forma visiva e auditiva più penetrante e originale, che lo rendano unico, indimenticabile, che lo fissino per sempre nel  suo tempo, nel suo ambiente e nel suo senso più primordiale.
Ciò che chiamo intensità in un racconto consiste nell’eliminazione di ogni idea o situazione intermedia, di tutte le “riempiture” o fasi di transizione che il romanzo permette e finanche esige. Nessuno di voi avrà dimenticato “La botte di Amontillado” di Poe. La cosa straordinaria di questo racconto è il brusco prescindere di qualsivoglia descrizione dell’ambiente. Alla quarta frase siamo già nel cuore del dramma, assistendo in modo implacabile al compimento di una vendetta. “Gli assassini” di Hemingway è un altro esempio di intensità ottenuta attraverso l’eliminazione di tutto quello che non converge essenzialmente verso il dramma.
Però pensiamo anche ai racconti di Conrad, Lawrence, Kafka. In questi, con modalità tipiche di ognuno, l’intensità è di altro ordine, e preferisco darle il nome di tensione. È un’intensità che si esercita nella maniera in cui l’autore ci avvicina lentamente al  cuore della narrazione. Tuttavia siamo sempre molto lontani dal sapere quello che accadrà nel racconto, e allo stesso tempo non possiamo sottrarci alla sua atmosfera. Nel caso di Poe e Hemingway, i fatti, spogliati di ogni preparazione, ci saltano addosso e ci afferrano; in cambio, in un racconto come “La lezione del maestro” di James, si sente subito che i fatti in sé non hanno importanza, che tutto sta nelle forze che li hanno scatenati, nel tessuto sottile che li ha preceduti e che li accompagna.
Ora: tanto l’intensità dell’azione come la tensione interna dei testi sono il prodotto di quello che ho chiamato “mestiere di scrivere”.»

Sogno di una macchina da guerra

Poe definisce il racconto come unità di fruizione indivisibile: un testo che il lettore legge per intero senza interruzioni[1]. È indubbio che le condizioni di fruizione siano mutate nel tempo – che dunque non sia più possibile, né preciso, operare questa equazione, la quale tuttavia resta sullo sfondo come un fondamento. In questo senso, il sequestro del lettore di cui scrive Cortázar non riguarda solo la sospensione dell’incredulità (come ad esempio in un racconto fantastico) ma un vero e proprio transfert del lettore in un ambiente separato, arbitrario: una prigione al cui interno non vige altro se non le leggi del racconto, le cui pareti sono il racconto stesso. C’è violenza e imposizione in questo processo. Per operare quest’azione da guerriglia, il racconto deve agire come un’unità conchiusa, coesa e aggressiva. Non temere di commettere illeciti, né farsi troppe cure dei diritti del sequestrato. C’è sempre tempo – troppo, secondo alcuni – per rimettersi, per guarire e tornare nel mondo della mediazione, del calcolo e dell’adeguamento dell’intelletto alle cose: il racconto perfetto è un sogno.

L’altro cielo

Poi è lo stesso Cortázar a mischiare le carte: come già in “Continuità dei parchi”, i limiti tra la prigione del racconto e il mondo della veglia e della mediazione si fanno labili, poi si sgretolano, si aggrediscono. L’ultimo racconto di Tutti i fuochi il fuoco (Einaudi, 2014), “L’altro cielo”, mette in scena proprio questo rapimento, la cui prima vittima (la seconda è il lettore) è il protagonista del testo: all’alba di un conflitto, il nostro si trova a vivere due vite, è sdoppiato; egli crede di poter passare indenne da una dimensione all’altra (la sua regolare vita fatta di famiglia e lavoro, e il “mondo delle gallerie”: la movida notturna e i suoi avventori, le prostitute e i freaks), ma non c’è modo di essere neutrali: è una caccia ed è probabilmente proprio lui il primo bracconiere.
Probabilmente: quando il nodo sembra sciogliersi, la voce narrante diventa nebulosa e ondivaga, come se Cortázar volesse rompere le barriere, infrangere le condizioni del sequestro. Ma chi è il sequestrato? Il farsi ambiguo della voce in un punto chiave della narrazione segnala la trappola: una botola che dà accesso a un cunicolo sotterraneo; questo cunicolo collega le due dimensioni: i confini della prigione si allargano, si entra in un circolo e non si smette di girare. In questo modo Cortázar supera i limiti del racconto come forma chiusa, limiti di cui egli stesso discute mentre è alle prese con la scrittura di quel romanzo sfondato che è Rayuela.                

L’idillio

Dove ha inizio, si chiede spesso, l’idillio della letteratura latinoamericana con le forme brevi? Da Quiroga, si può dire con buona approssimazione. Eppure il nodo principale della questione risulterebbe eluso. Quest’idillio, infatti, ha una stanza da letto – un luogo che si situa tra il mistero e il fantastico. È qui dentro che Quiroga si adopera, tra i primi, per consumare le nozze – e il rapimento, la prigionia che ne conseguono in ottemperanza con la legge.

Un sogno?

“Incontro con Henrique Lihn” (in Puttane assassine, Adelphi, 2015) non è il miglior racconto di Bolaño, ma forse l’unica forma breve vera e propria che il cileno abbia scritto. È il modo in cui si entra nel sogno: a differenza di Kafka, la separazione è dichiarata subito – è un sogno. Eppure, una volta dentro, si opera con la logica della veglia: si cercano conferme, si operano ipotesi, si pratica il principio di ragione. La voce oscilla tra il dubbio (la meraviglia diviene terrore in un attimo) e la rassegnazione. Sul finale questo dualismo si scioglie e non si è più nel sogno né in veglia: è la voce, e basta (“atemporale come la merda”).

Per caso

Questa correlazione tra un elemento strutturale del racconto (il sequestro del lettore attraverso gli stratagemmi stilistici dell’intensità e della tensione) e uno di genere (la prigionia e il sogno come motori tematici), come se ogni racconto dovesse necessariamente convergere in quella zona in cui s’incrociano mistero e fantastico, non è che un abuso, un calembour o una coincidenza.


[1] E.A. Poe, “Review of Twice-Told Tales”, in Graham’s Magazine, 1842, pp. 298-300. Riferendosi alla poesia e al racconto breve, scrive Poe: “L’unità di effetto o impressione è un punto di grandissima importanza. È chiaro, inoltre, che questa unità non può essere del tutto preservata nei testi la cui fruizione non può essere completata in un’unica seduta”. Appena prima, precisa che la durata ideale di questa seduta è di un’ora.