Encore et encore. La quarta de Il presente.
Il presente, di Ciro Monacella (qui gli altri episodi: uno, due e tre, cinque, sei).
Al matrimonio di sua sorella eravamo a tavola con un po’ di gente grigia, che pigliava colore solo alla nuova portata, specie se di carne. Ma giusto per i riflessi dei vassoi. E Sara era moscia: era un po’ di tempo che le mancava quella vivacità da fiorellino di scogliera inchiodato sulla spalla. Temevo che con me si annoiasse, allora ero sempre più propositivo con lei, infastidendola ulteriormente credo adesso. Anche io sono stato bambino, e ricordo la sensazione che si prova quando la ruota della macchinina si è storta, e per paura che non corra più come prima le si chiede di correre più veloce di prima. E quella si rompe. Sara non aveva mai avuto le guance tanto rigide e gli occhi tanto immobili: credevo si stesse rompendo. Poi così, come niente fosse, si alzò e propose un brindisi per gli sposi. Quando chiese la parola e il microfono, sua sorella conoscendola ebbe paura, e giurerei di averla vista intimare, con occhiatacce, al pianista affinché si tenesse ben stretto il microfono. Ma Sara negli occhi ha un diavolo di cera grezza, che piglia forma a seconda della debolezza di chi la osserva. Forse divenne La Scala in quel momento. Già un bicchiere di vino bianco in mano:
-Attenzione a tutti. Bisogna fare un brindisi per gli sposi, affinché le gioie che quest’unione vorrà riservargli siano incomparabilmente più dolci di quelle che il tempo non ha saputo o voluto trattenere, e che la felicità, e la passione, restino immutate nel rispetto di quando non esistevano. Perché l’amore si crea, non si ricorda.
La sala si fermò, per poco, come pure La Scala per il pianista. Cinguettò finanche un uccello che poté ascoltare di nuovo un mondo senza posate. Poi qualcuno, ripensando alle frasi di Sara, dovette ricordare gli ultimi suoni dove c’era la parola amore che tanto riempie la bocca in certe circostanze, e applaudì. Un altro paio di invitati, e qualche vecchia zia, pur senza capirci niente si fidarono della parola che tutto contiene. E in pochi istanti tutti erano ad applaudire qualcosa che non aveva senso apparente. Io no. Cioè, anch’io applaudivo, ma l’amore così detto non m’aveva fregato: ero già troppo cinico per lottare, ma ancora abbastanza cinico per indossare la mutanda bianca sottraendola all’asta.
-Sara, posa il vino e dimmi, cara: ma che diavolo hai detto?
-Non ricordo più. Oggi si sposa mia sorella, fece con le lacrime agli occhi, e non ti permetto di angosciarmi.
-A te? Ma chi ti angoscia a te?
-Tu. Cerchi sempre di capire tutto, hai l’ossessione di perderti qualcosa! Sempre! Tu a contare i fagioli nelle scatole eri buono, eri il migliore!
-Non ti capisco, le dissi che già stava singhiozzando. Non capisco cosa dici e cosa fai. Non capisco cosa provi. Ma perché sei così… così… bucata?
-Vuoi capire? Sei sicuro di voler capire?
-No.
-Allora ti spiego.
Si avvicinò all’orecchio, e l’alito le puzzava di vino e vongole.
-Stanotte non sapevo dormire. Era come se ne avessi dimenticato lo stato d’animo. E lo so che forse non esiste lo stato d’animo adatto per dormire. Ma io questo pensavo. E questo conta. Tu dormivi, tu non hai problemi col passato, ricordi sempre tutto, e si tratta solo di organizzare i segmenti in modo da fare il minimo sforzo per il massimo guadagno, per te, architetto! Sono uscita dalla stanza con addosso la vestaglia. Mia sorella era in camera sua mentre quel rimbambito di Tiziano era in salone che, sai, sposo e sposa è conveniente che non si vedano fino alla chiesa. Stava sul divano pancia all’aria. Io ho preso dell’acqua dal frigo e sono andata a sedermi sulla poltrona. Bevevo e lo guardavo. Un respiro profondo, eppure troppo eunuco per sconfinare con liberazione nel russare bello dell’uomo che riposa. Cosa ci trova mia sorella in quello lì? Tu lo sai?
-No che non lo so. Ma dimmi cosa cazzo è successo, Sara!
-Quello che doveva.
-Cosa?
-Mi sono alzata in piedi, e la vestaglia m’è scivolata a terra. Ancora lo guardavo dormire. Che mezz’uomo! Incapace di sentire l’odore del mio sesso nella stanza: non s’è mica svegliato! Finché non gli sono scivolata nelle coperte…
-Sara! Ma che cazzo stai dicendo?
-Nelle brache, hai ragione. E’ quella la parola: brache!
-Sì, papà, c’era una macchina bianca in cortile, ferma, ma ancora calda. Lo so perché per guardarci sotto mi sono appoggiato al cofano. Poi sono entrato in casa. Ho cercato giù, prima. Dopo sono salito.
Mio figlio ha detto che quella donna è matta, e che forse lo pensava anche prima di salire a cercare il pallone. Quella volta che lei mi disse di essersi fatta Tiziano la notte prima delle nozze, io corsi al bagno, a vomitare e a guardarmi in faccia. A cercare di fissare nella memoria il disgusto di quel momento, per ricordarlo e organizzarlo in seguito, forse adesso, per evitare di farlo parte di me come sacrificio per la vita che Sara mi dà. Lo specchio del bagno del ristorante, la macchina bianca nel cortile. Organizzare: la macchina bianca nel cortile è successo oggi.
-Cosa hai trovato quando sei salito?
-Papà, diceva parlando di naso Giulio perché la bocca ai lati gli tremava, io non volevo… ma dovevo per forza passare di là per andare alla vecchia cassa nel ripostiglio…
-Di là dove?
-Dalla camera tua, e di Sara.
-Perché? Che è successo? Che hai visto?
Quando poi io uscii dal bagno era passata buona mezz’ora, e c’era chi ballava, e c’era chi cantava. Comunque tutti avevano bevuto, tranne me. Ed è per questo che, poi mi sono detto, ma proprio a lavorarci sopra come a un progetto, quello che è successo l’ho visto male, dando più peso di quanto ne abbiano dato gli altri. In fondo, ed è un’ipotesi, se Sara era già ubriaca quando m’aveva detto quella schifezza al tavolo quello che poi è successo quando ha inastato il microfono ne era la logica conseguenza. Ma io questo non lo so. E non potrò mai saperlo. Così pensavo quando la vidi fuori, vicino alla fontana, che si slacciava le scarpe. E per la prima volta non accorsi quasi che fossi assuefatto alla minaccia, al dramma, tanto da confonderlo col sogno, o con la realtà, a seconda che lo si voglia ritenere dell’una o dell’altra natura. Quella si buttò nella fontana, e s’agitava non si capiva bene a quale scopo. Pure con la testa andava sotto, e una volta spuntava una caviglia, una volta tutta la coscia. Non l’avessero già conosciuta un po’ tutti, la mia Sara, mi sarei umiliato quando a uscire dall’acqua fu la sua natica. Ma, chi prima chi dopo, un seno dalla maglia trasparente, o dall’asciugamano allacciata larga, l’avevano già conosciuto gli invitati. Poi dall’acqua uscì con un grosso pesce rosso in mano. S’arrampicò in braccio alla statua d’una donna che allattava i pesci con zampilli dalle mammelle, e sventolò il pesce che ancora si dimenava. Solo quando tutti l’ebbero guardata, dal novantenne al neonato, disse:
-Tiziano! Prendi questo, provaci con questo: che puzza di meno e vive di più!
E lanciò quel pesce allo sposo che, non so se fosse dietro la torta o nella pista, si fece rosso tanto che non mancò qualche simpaticone ad avanzare battutine sul colore del pesce e su quello dell’imbarazzo di Tiziano. Un rosso Tiziano. Io risi, anche lo specchio è vano se la luce non cattura l’immagine. Ed io vivo di una luce artificiale, estranea a me e alla natura. E quando quella luce brillò non ci furono appigli a cui tenermi saldo, io… volai. E dimenticai la distinzione fra me e il dolore, perché questo copriva i miei buchi.
Ma oggi no: questa stanza 22 non l’ho mai vista prima. È lei a vedere me.