Eccoci. Proprio ora, in extremis, il munaciello si rende utile.
Il presente (cinque, quattro, tre, due, uno)
Ho le mani rosse, e se tocco i numeretti d’oro o li si sporco o li metto a nudo. E’ un’unghia a portarmi qui, l’unico pezzo che stona come un tombino conficcato male in strada, e lo smalto, prima che vezzo, è vernice e non inganna. Di questa porta che m’ha sempre visto, io non conservavo disegni fino ad ora. E manco ora, che ci metto gli occhi nella sua carne di legno nero. O sarà perché c’è poca luce qui, e comunque poca sarebbe stata. In ogni caso. Ma questo è il caso di un padre che ammazza, di un tempo presente che vuole ammutolire il fatto, il compiuto, mentre il concluso lo ingloba per la bocca, e poi quello che sputerà sarà comunque un presente. Stanza 22, l’insegna dice che l’albergo vale più di quanto chiede, ma è prassi comune, specie se ciò in cui meglio vale te lo sei portato da casa, o dalla strada, o dalla moglie di un amico, o dalla madre dell’alunno della seconda b.
Dietro, immagino, ma non tocco l’ottone di maniglia, non ancora, dietro una donna che dorme o una donna che si sveglia, coi capelli sciolti e la veste larga, sul petto, e quando vedrò le cosce tagliate dal neon del bagno non me ne meraviglierò. Non posso più: il tempo della meraviglia non è il presente. E se c’è lui, anche lui, il tre-punto-quattordici della famigliola, mi rimetterò al genio delle mani e del cazzo. Ma lui non c’è non può non c’è. Perché Sara è un essere assoluto, e poi non si sono mai viste stelle che esplodono lasciando i satelliti e i pianeti lì accanto come niente fosse. La stella uccide della sua luce, ma poco si soffre. E questo spero dalla porta. Si avvicina un raggio, lo sento. Fra poco dalla 22 uscirà qualcosa, e molto altro, almeno stavolta, entrerà. Entrerà l’anomalia dell’urlo in silenzio. La pace della miseria. La pace della cenere. Sono finalmente un mendicante che implora di dare, però giuro che nessun capello del mio fuoco sarà più sprecato per il calore di questa mia dannata stella. Lo giuro su queste mani che portano i segni della fine dell’utopia del corpo. Giulio, dove hai imparato a parlare così? Cosa ne sai tu del vagabondare della verità? Cosa ne sai della trasmissione a singhiozzi del male?
Ora.
Prendo la maniglia, è fredda ma non è liscia.
Un angolo di futuro già arriva qui, col calore di una doccia appena fatta, e l’odore di frutta di Sara. Ma un po’ di buio più calcato da lì esce, e si mischia a dove sono io intrecciando illusioni nere nel corridoio. Sono i vapori. Basta con la poesia, nemmeno lei è del tempo presente. Ora, ora sono come il picco del monte più alto che si possa immaginare, quello che porta al punto da cui tutto si vede piccolo lontano e fuso, e da qui mi muovo.
La stanza è buia. Finestra chiusa e luce spenta, di fronte a me. Destra, mi muovo, con ghiaccio per sudore. Letto ordinato come una scatola, una piazza, un cuscino. Dal bagno arriva una coda di neon, come lastra sul pavimento. Ma lei è lì, al buio, sulla poltrona, che mi guarda senza parlare, e ne indovino la bocca perché la sigaretta, anche lei, lì s’accende. E’ solo questione di equilibrio di forze e di tempi, come ogni cosa. Sei venuto, poi, mi dice. Non risponderò. Non rispondo. Mi hai trovata per caso, come è sempre stato, anche quando mi hai persa. Io al caso non credo, solo alle forze, ma non glielo dico: poco attenta è stata se ancora pensa che le ho dato la vita per caso. Le ho dato la vita perché è lei a farne vita delle mie lande secche, lei il sole. Ma non può più saperlo, io sono quello che pascola le capre nella neve e le nutre solo della stoffa dei suoi guanti quando provano ad azzannarlo. Ripete del caso di trovarla, e dice dell’altro sul senso reale del verbo trovare, parla di cantare, di versi, credo sia anacronistica, mi dice che le mie intenzioni non la riguardano perché nemmeno le unghie delle mie più alte mani sono in grado di sfiorarle i talloni. Sono neri perché ti bruci apposta, le vorrei dire, ma ora ho la bocca paralizzata dal ghiaccio che mi scorre nella carotide. Emetto un rantolo che lei interpreta come un grugnito. Mi sospetta ancora ubriaco del suo vortice. Non sospetta del mio. É lei che si rimpicciolisce adesso, così tanto da non avvertirlo. Poi. Michele, mi fa. Mi riporta il nome, me lo restituisce… e mi sento presente qui, che lei scalza si avvicina e fa come sull’acqua, mentre nella stanza accanto una puttana polacca deve avere le cosce ben aperte, e un vecchio ci sta mollando il cuore, mentre fuori un clacson scolpisce il silenzio della strada, e un gatto insegue l’odore di carne morta in una casa.