Si può parlare di Avventure di un romanziere atonale, di Alberto Laiseca, tentando di incastrarlo in una categoria o genere letterario, nel modo in cui si cerca di incastrare un pezzo tondo in un buco quadro. Oppure, si può considerare un’opera polimorfa, in cui le due narrazioni stanno in piedi anche da sole come due racconti lunghi, slegati tra loro, oppure leggerle come due racconti che dialogano in maniera sotterranea, tanto che non è semplice ad esempio capire quale storia, in questo senso, generi l’altra prima dell’altra, o per dirla con le parole di Laiseca “L’uomo del passato trovò l’uomo del futuro che, in un certo senso, era ancora più leggendario, remoto e arcaico”(pag. 103). Questa polimorfia, per la quale vale la definizione di fantastico come modo[1] non come genere, è la quinta dell’opera di Laiseca.
Questi due racconti presentano ciascuno un inizio che proietta il lettore immediatamente nella materia del libro (per la seconda narrazione, parte o racconto, si può senza dubbio parlare di un proemio):
“In una stanza cavernosa, quasi sferica, un romanziere scriveva. Qualcosa di molto divertente, pare.[2]” (Avventure di un romanziere atonale, pag. 7)
“Tempo verrà in cui qualcuno, quale novella Discordia, su consiglio dell’Anti-essere, ruberà una mela di uranio dal giardino delle Esperidi e la getterà alle grandi nazioni perché se la contendano.” (L’epopea del re Teobaldo, pag. 61)
I due periodi incipitari alludono non tanto soltanto agli argomenti, come ci si aspetterebbe da un proemio classico, quanto dicono del tono, si potrebbe quasi azzardare della musicalità (sia le Avventure che l’Epopea hanno continui rimandi al mondo musicale).
Nella prima parte, dal nome identico a quello dell’intero libro, Alberto Laiseca narra le disperate avventure del romanziere (atonale come la sua opera, il romanzo atonale appunto, che è paragonata non senza una nota sarcastica alla musica composta da Schönberg, la modale), il quale vive in una stanza a pagamento – anche se è più giusto dire a sfruttamento – nel palazzo della tremenda Doña Clota, despota e fattucchiera (autoproclamatasi madre adottiva del romanziere), che lo considera non molto diverso da un impostore infame, un mangiapane a tradimento, che lo guarda coi i suoi “occhi di vetro” nonostante i quali “vedeva alla perfezione.” Che quasi lo ipnotizza, lo stordisce con “la sua crocchia vudù” e con “quella sua faccia di Reggente, così simile a uno stendardo di Attila sfilacciato e scolorito dalla pioggia, dal vento e dal sole” (pag. 13) , trasformandosi, nella mente allucinata del romanziere, nella Reggente. Doña Clota, però, si dimostra per interesse buona, la Reggente invece è malvagia. E il romanziere, per non cadere in errore e non rischiare di rimanere senza casa, teme democraticamente l’una e l’altra. Il ruolo di Doña Clota sarà decisivo per dare inizio tanto all’ascesa quanto al declino del romanziere, ragione per cui nemesi della padrona-matrona maligna è Coco Pico Della Mirandola, philologus e facilitatore, sprone per l’amico romanziere sordo al richiamo del mondo e nichilista (cit.). Coco Pico, che lo convincerà a pubblicare presso un editore sado-masochista, resterà fino alla fine anche l’unico testimone del romanzo, o almeno di ciò che ne resta: L’epopea del Re Teobaldo. La polimorfia non solo a livello delle forme, ma anche dei temi: guerre che richiamano e distorcono momenti bellici della Storia Universale, innestate in un tempo mitico, antistorico, in cui i re cavalcano tirannosauri e prima di partire per la guerra i suoi soldati si chiedono: “«I russi sono musulmani, a quanto so. Ma esistono veramente?» (pag. 77); i re che ricordano i Giganti o i Titani esiodei, tracotanti, potenti, ostinati; e infine l’Archeologo, nemesi del tempo, della Storia Universale.
L’aspetto più straordinario di quest’opera è la sua densità di immagini, eventi e tutte le possibili interpretazioni che Laiseca stesso sembrerebbe suggerire. Raramente un testo deputato alla brevità della forma richiede al lettore uno sforzo di conoscenza e di applicazione così intenso.
A un altro livello di lettura, e come anticipato dall’incipit delle Avventure, la comicità, o meglio il comico, che sbocca spesso nella totale irrisione, riveste un ruolo fondamentale: da un lato, è uno specchio per le allodole per quei lettori che si fermano allo strato più superficiale della narrazione, per quelli che vedono/leggono soltanto le metafore, le similitudini, le allegorie, insomma tutto l’armamentario puramente tecnico della scrittura; dall’altro lato, il comico delle Avventure di un romanziere atonale, però, rappresenta una chiave di lettura molto più profonda (si verifica un sovvertimento della realtà che avvicina le Avventure ad esempio alla commedia di Aristofane), che sposta l’asticella dell’assurdo e del fantastico al di là dei risultati più evidenti del comico contemporaneo. È un comico che non si fonda sui tópoi della commedia di costume, ma li sovverte: le maschere diventano mostri. Doña Clota è costretta dal romanziere a esercitare un potentissimo sortilegio; l’editore dal nome parlante Juan Batista Ferochi è ancora più della megera affittacamere il personaggio comico, poiché è insieme vittima e carnefice delle sue stesse manie. Ecco il ritratto che ne fa Laiseca: “era stato un uomo straodinario. Ammaestrava gli operai a revolverate, placava gli amanuensi a suon di schiaffoni e spogliava le donne a colpi di frusta. Un signore.” (pag. 25). Se dunque nelle Avventure il comico viene fuori dal contrasto tra Doña Clota e il romanziere, tra l’editore e il romanziere e così fino alla fine, nell’Epopea del Re Trobaldo il comico è sfumato nell’assurda stratificazione storica; sono rintracciabili momenti di pura ilarità che precedono o seguono la crudeltà più spietata (si consumano durante la ritirata dopo la campagna di Russia dell’esercito del re atti di filologicamente crudo cannibalismo).
Come accennato prima, Coco Pico Della Mirandola è colui che preserva la memoria dell’opera monumentale del romanziere, di cui l’Epopea è solo una infinitesima parte. Della Mirandola è filologo (nonché scrittore di un’opera che farebbe apparire il Marchese Divino uno scolaretto alle prime armi), e il suo complemento si trova nell’ultima parte del libro: l’Archeologo. A queste due figure Laiseca demanda il ruolo di gancio tra una storia e l’altra, la loro presenza per quanto evidente e palpabile è insieme anche sotterranea, creando nel substrato mobile della materia letteraria dei passaggi, delle vie che si intersecano e che riconducono una storia nell’altra, senza apparente soluzione di continuità, come ad esempio il finale assolutamente dissonante, improvviso come un assolo di free jazz.
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Alberto Laiseca
Avventure di un romanziere atonale
A cura di Loris Tassi
Edizioni Arcoiris 2013
Collana: Gli eccentrici
Pag. 114
[1] Per una definizione di fantastico come modo della letteratura e non come genere rimando a Rosemary Jackson, Il fantastico
[2] Queste due brevi frasi ricordano l’incipit di una favola, pur senza il classico “c’era una volta”, o di uno sketch di E ora qualcosa di completamente diverso dei Monty Python.