Carmine è nato a Napoli nel 1970, cresciuto vicino Piazza Garibaldi. Non è andato a scuola per molto. Era molto più impegnato, insieme ai suoi due fratelli, a rubare, a girare sul motorino sin dall’età di dieci anni e fumare sigarette di contrabbando comprate nelle vicinanze della stazione. Non è che Carmine non amasse studiare, anzi; il problema era la famiglia. Il padre di mestiere beveva fino a stordirsi e non ricordare nemmeno il nome dei figli; la madre si incurvava la schiena nelle case dei signori del Vomero a pulire i gabinetti, le cucine, i salotti, le cristalliere e le camere da letto. Carmine leggeva molto: le etichette dei cibi che rubava, le copertine dei libri, le locandine dei film. In particolare i film lo affascinavano: la sera del mercoledì, quando il cinema Metropolitan vicino Piazza Dante era deserto e non ci entrava nessuno se non i vecchi solitari e fumatori, lui prendeva i soldi che aveva racimolato durante la settimana e comprava un biglietto. Guardare un film era come leggere un libro, ma più facile; le figure e le scene raccontavano una storia che, in un libro, avrebbe preso centinaia di pagine. E Carmine non aveva tempo per leggere centinaia di pagine quando in casa nessuno poteva mangiare se non si andava a fare la spesa, non si cucinava e non si trovava un modo per sbarcare il lunario. Il cinema del mercoledì sera era l’unico momento di svago concesso a Carmine, che nemmeno sapeva quanto poco fosse normale avere a dieci anni la pesantezza di vivere di un uomo vecchio. Lui e i suoi due fratelli aiutavano la madre come potevano, ma Carmine sentiva di non fare abbastanza, visto che ogni giorno sembrava ingobbirsi di più.
A dodici anni, Prisco arrivò al quartiere con un trenino giocattolo nuovo di zecca; lo regalò proprio a Carmine. Prisco era un uomo alto e grosso, con due mani da manovale callose, gli occhiali da sole perennemente inforcati e la sigaretta poggiata tra le labbra. Spesso Prisco tornava al quartiere carico di giocattoli per i bambini e soldi da dare alle famiglie per campare durante il mese. Agli occhi di Carmine e di tutti i ragazzi Prisco era il benefattore del quartiere, un Babbo Natale che aveva la peculiarità di arrivare quasi ogni mese. Il regalo più bello si diceva lo facesse al ragazzo più vivace, più intelligente, più furbo. Quel mese il trenino giocattolo era toccato a Carmine, il quale si chiese il perché per giorni interi. Forse perché era bravo a scippare le vecchiette mentre correva con il motorino, oppure perché riusciva a scassinare una serratura in meno tempo degli altri, o ancora perché era l’unico ragazzo che non teneva per sé tutti i soldi che rubava, ma li dava (tranne quelli per il cinema il mercoledì sera) alla madre. Forse Prisco aveva osservato tutte quelle piccole azioni e aveva scelto lui, Carmine, come privilegiato destinatario del trenino.
E effettivamente, dopo pochi giorni, Prisco aveva cominciato a parlare con Carmine più spesso, a portarlo a spasso a fare commissioni, a mangiare pesce nei ristoranti per ricchi; una sera lo aveva anche accompagnato a vedere un film al cinema, ma si vedeva che non aveva capito molto, si era annoiato subito. Carmine gli era ugualmente grato, perché era la prima persona che si prendeva la briga di accompagnarlo al cinema, che fino a quel momento era stata una passione solo sua; adesso sapeva di poter parlare con lui di film. Qualche sera dopo, Prisco portò Carmine a vedere un film pieno di pistole e scagnozzi americani che inseguivano fuorilegge: sembrava più attento, assorto, quasi divertito. Carmine pure rise, perché rideva Prisco e a lui faceva piacere partecipare alla gioia della persona con la quale, ormai, andava ovunque, e a cui doveva un’improvvisa stabilità economica.
Alla fine del film, Prisco gli chiese: «Te piacisse si’ a prossima vota te rialassi ‘na pistola?» Carmine ci pensò, in fondo il trenino era bello e gli bastava per giocare in casa, visto che per gran parte del tempo era in giro sul motorino o con gli amici. «E che aggia fà co ‘na pistola, Priscù?» «Nente, è comme o’ trenu, e’ ‘a pazzià!» E visto che era un gioco, a Carmine faceva piacere, quindi rimase in silenzio e sorrise.
Così Prisco, due giorni dopo, tornò da Carmine e gli portò una pistola, che però non sembrava un giocattolo; era pesante e conteneva proiettili, faceva fatica a tenerla tra le mani e luccicava, il che voleva dire che non era di plastica come lo era il trenino. Quando Carmine prese in mano la pistola, la sua vita cambiò.
Ora Carmine ha quarant’anni e riesce a tenere la pistola senza fatica, non lo infastidisce più quel luccichio minaccioso del metallo e non lo intimorisce il rumore che fa la pistola quando spara. Ci ha messo tempo ad allenarsi, Prisco lo portava dietro i vicoli del quartiere e lo faceva sparare contro i bidoni. All’inizio gli urlava contro, perché Carmine non sapeva sparare, cadeva per via del rinculo e, soprattutto, aveva paura, anche se si impegnava molto per non darlo a vedere. Dopo una settimana Prisco si era stancato delle sue debolezze e, alla decima caduta di fila di Carmine, lo prese per il collo della camicia e gli urlò: «A’ vuò rà ‘na mano a mammeta ppe campà, sì o no?» In quel momento Carmine capì che il tempo dei giochi si era concluso, e non cadde più.
Cominciò a portare i soldi a casa, soldi veri, tantissimi, talmente tanti che la madre si spaventò e cercò di convincerlo a smettere, qualunque cosa stesse facendo. Carmine ricorda la madre piangere dopo cena, seduta su una sedia della cucina, con la sigaretta accesa e il balcone aperto; gli occhi chiusi e la mano libera dalla sigaretta poggiata sulla fronte, in segno di resa. Pianse spesso in quella posizione, molte sere di fila; ma a un certo punto, dopo anni interi passati a piangere senza risultati, la madre di Carmine cominciò ad accettare in silenzio. Il padre era morto da tempo, non avrebbe potuto consolarla; anche se, in fondo, non l’aveva mai consolata neanche da vivo. I fratelli, invece, si erano sposati e andarono a vivere poco lontano; uno fa il barbiere, l’altro guida gli autobus. Carmine non li vede mai, si dimentica sempre di chiamarli, di salutare i nipoti e le mogli. Non si ricorda i volti di nessuna delle due, e piano piano sta cancellando anche quelli dei fratelli, per non doverci pensare troppo.
Carmine va tutte le settimane al porto ad aspettare il carico di droga, controlla che tutto sia in ordine e assiste al processo di smistamento; lui e Prisco controllano il giro da anni. L’unico vero concorrente è Salvatore, che distribuisce la droga a Secondigliano attraverso un altro fornitore e che, piano piano, sta scendendo anche verso il centro di Napoli, appropriandosi di un territorio che non gli appartiene.
«Tu o’ saje che e’ ‘a fà,» Prisco dice una sera a Carmine. Sono a tavola insieme: la madre di Carmine lancia uno sguardo di terrore al figlio ma nessuno se ne accorge. Carmine annuisce, bacia la mamma in fronte e va a dormire.
La mattina dopo a Napoli fa talmente caldo che per strada non c’è quasi nessuno; a Piazza Plebiscito il sole batte così forte che le pietre sembrano tremare; Carmine la guarda di sfuggita mentre corre sul lungomare con il motorino. Sa che avrebbe trovato lì Salvatore, e infatti ci mette un secondo a distinguerlo, di spalle, tra le poche persone che passeggiano; Carmine si sorprende a pensare che, se lo avesse visto senza sapere chi fosse, non l’avrebbe mai notato. Carmine non ha molto tempo quindi prende in mano la pistola e spara; spara subito, di getto, senza mirare. Non si rende conto subito di dove sia andato a finire il proiettile, ma sono anni che si allena e non manca mai il bersaglio.
Carmine torna a casa, una strana adrenalina lo pervade, cerca di addormentarsi per non dover pensare. Chiude gli occhi e si appisola poco dopo; non sono ancora le undici.
Un’ora dopo, le urla disperate della madre lo svegliano. Carmine si alza di scatto e prende la pistola dal comodino dove era appoggiata, arriva in soggiorno e vede la madre in ginocchio a terra, col telefono di casa vicino all’orecchio, che batte un pugno verso il pavimento. Quando lo vede, la madre si alza di scatto e gli tira uno schiaffo in pieno viso, talmente forte da lasciargli il segno delle cinque dita in faccia: «L’è accisu tu! O’ figlio mij!»
Carmine fatica a capire: è troppo tardi per chiedere perdono, per ricordarsi del volto del fratello morto e di quello ancora vivo, per ripensare a come può aver sbagliato mira, ma soprattutto a come ha fatto a non vedere il fratello tra la gente. È in ritardo di trent’anni, e niente ora può riscattarlo. Si inginocchia disperato davanti alla madre, così improvvisamente piccola e vecchia, urla: «Tu m’è ‘a perdunà! Tutto chell che aggio fatto, je l’aggio fatto sulo ppe ‘ce fa campà!».
«Vulesse ca fussi morto tu, quann Prisco te canuscette». Dice così la mamma e se ne va in bagno a piangere.
Carmine è in ritardo, ma vorrebbe essere in anticipo per la sua morte. Il giorno dell’incarcerazione c’è solo Prisco a fargli compagnia, la madre e il fratello vivo sono al funerale. Prima di entrare in carcere, Carmine urla a Prisco: E’ ‘a dicere a mammà ca so’ cuntento e’ stà cca dìnto, accussì nun me vere chiù e può penzà ca so’ morto o’ veramente. Solo una questione lo tormenta, una domanda che lo lascerà insonne per le notti future: quale dei due fratelli ha ucciso?