Incipit e altre affinità.
Sull’edizione del giovedì del Riverdale Press c’era un articolo che cominciava con Ieri notte un uomo bianco non identificato è stato travolto da un treno della Metro-North che entrava nella stazione di Riverdale in West 254th Street. L’uomo è morto sul colpo.
Il macchinista aveva dichiarato alla polizia che l’uomo era solo e si era buttato sui binari. La polizia aveva rimosso il corpo e cercato i documenti, invano. I 425 passeggeri erano stati trasferiti su un altro treno, che era ripartito con una ventina di minuti di ritardo.
Il Salto, memoir su un amico morto suicida, inizia con un contatto. Sarah Manguso ci trae in inganno: ci suggerisce che parlerà del più familiare dei tabù, il suicidio – l’atto libertario estremo che nell’intimo cova l’umanità tutta –, col distacco gelido del cronista, del lucido e obiettivo terzo occhio senza lacrime, e ce lo dice prendendo contatto – incipit per incipit – con il noto Infelicità senza desideri, laddove Peter Handke si servì del terzo occhio senza lacrime per raccontare la vita della madre suicida:
L’edizione domenicale della «Volkszeitung», un giornale di Carinzia, alla rubrica «Varie», riportava: «Nella notte tra venerdì e sabato una casalinga cinquantunenne di A. (comune di G.) si è suicidata con una dose eccessiva di sonnifero».
L’inganno è servito. Il salto, infatti, non è una prova di distacco ma l’anatomia di un lutto, la confessione di affinità esistenziali tra chi ce l’ha fatta, Harris, e chi invece no, Sarah, a darsi la fine di una vita di depressione e paranoia, tra chi ce l’ha fatta, Sarah, e chi invece no, Harris, a sopravvivere a depressione e paranoia. Non c’è distacco possibile quando c’è affinità elettiva.
Handke, separato dalla madre, costruisce un capolavoro di equilibrio:
Questi due pericoli – il semplice referto e lo scomparire indolore di una persona in una serie di frasi poetiche – rallentano la scrittura, perché a ogni frase ho paura di perdere l’equilibrio. Ciò vale per qualunque attività letteraria, ma particolarmente in questo caso, dove i fatti sono così perentori che non c’è quasi più niente da inventare. Per questo all’inizio sono partito dai fatti e ho cercato delle formulazioni. Poi mi sono accorto che nella ricerca delle formule mi allontanavo dai fatti. Allora, anziché dai fatti, sono partito dalle formule già esistenti, dal patrimonio linguistico sociale, scegliendo dalla vita di mia madre quei fatti che erano già contenuti in queste formule; perché solo in un linguaggio non elettivo e pubblico sarebbe stato possibile rintracciare, fra i tanti dati che non dicono niente, quelli che espressamente richiedono di venir pubblicati.
[Infelicità senza desideri, pp. 34-5]
Manguso, unita all’amico, costruisce un capolavoro di gestione dello squilibrio, di confusione tra confessione personale e passione (in senso biblico) dell’amico; l’inganno torna a chiarirci che la distanza tra lei, noi, e Harris è solo nell’attimo della fine, l’attimo che distingue i morti dai sopravvissuti che poi saranno i morti e altri i sopravvissuti e così via, fino all’attimo della fine che interessa tutti e che nessuno conosce prima a meno che non lo scelga, come ha fatto Harris, come tutti sono tentati dal fare – Sarah e noi –, ma il suicidio è un gesto da minoranza che si elegge da sé.
Ogni volta che andavo da qualche parte potevo morire. Eppure viaggiavo in auto, in aereo, e ingannavo la morte. Chiunque sia vivo è qui, sulla terra, a ingannare la morte a ogni istante. Lo facciamo tutti.
[Il salto, p. 67]
Intermezzo. Andanza.
Il salto è un memoir, scrittura autobiografica, genere caro a Manguso. In quella illuminante raccolta di aforismi e plagi che è Fame di realtà di David Shields, sul memoir si dice tutto quanto si è detto e ancora ci sarebbe da dire. Il memoir è creativo e inaffidabile come la memoria (“i memoir si potrebbero davvero definire i moderni romanzi, visto che hanno perfino un narratore inaffidabile”, p. 33), è frammentario come qualsiasi narrazione autobiografica (“quanto più un’opera si fa autobiografica, intimista, confessionale, imbarazzante, tanto più si frammenta. La nostra vita non è passata al vaglio di un editor e quindi, per sua stessa natura, la narrativa basata sulla realtà – nuda e cruda – si sgretola ed esplode”, p. 35), è indicativa di una urgenza attuale (“l’urgenza oggi si addice di più a un racconto di vita vissuta che a uno modellato dall’immaginazione sulla vita”, p. 238). L’andamento esitante e discontinuo del libro di Manguso, riflessivo, auto-riflessivo, di ricerca e di indagine, un balbettio mentale che vuole stabilire una verità, conferma l’etimologia riportata da Shields che plagia D’Agata (The Lost Origins of the Essay):
In inglese il termine memoir viene in linea diretta dal termine francese per ‘memoria’, mémoire, che a sua volta deriva dal latino memoria. Eppure, nascosta sotto la parola memoir, ce n’è un’altra molto meno affidabile. Dietro il latino memoria c’è l’antico greco mérmeros, un derivato dal persiano avestico mermara, a sua volta derivante dalla parola indoeuropea che indicava ‘ciò che pensiamo ma non riusciamo ad afferrare’: mer-mer, ‘sognare a occhi aperti, essere in ambasce, arrovellarsi’. Dall’angolazione sinistra del linguaggio umano, il termine suggerisce un genere letterario molto meno sicuro rispetto al memoir romanzesco oggi in voga, con le sue esperienze ritrasmesse alla leggera.
[Fame di realtà, p. 51]
E ora possiamo sostare in Andanza, il “diario di un diario” (felice espressione usata da Giorgio Vasta nella recensione sul «Robinson») di Manguso, che altro può dirci sull’esperienza narrativa dell’autrice. Diario di un diario perché sintesi di un’ossessione, quella del tempo, e di una mania: Manguso ha tenuto ogni giorno, come per compulsione, un diario, fino a un certo punto della sua vita. Manguso racconta, in entrambi i libri, anche la sua malattia mentale, combattuta, forse vinta, o sopita. Il rapporto patologico col diario si risolve in Andanza: qui scompone e depone il suo diario reale per comporre la fine del diario, sicché “leggendolo sembra di percorrere le vertebre di una spina dorsale che si va via via fabbricando” (ancora Vasta).
Ma più di tutto è la confessione della malattia a interessarci, perché è la malattia ad accentrare le storie de Il salto:
Non lo sapevo ancora in quel periodo, ma la malattia, da cui non sono ancora guarita, non era il vero problema. Il problema era pensarci, e ora non ci penso più. O perlomeno non nel modo ossessivo, divorante, di un tempo.
[Andanza, p. 91]
Siamo arrivati al punto. Manguso scrive Il salto come un soggetto delirante che cammina avanti e indietro e parla da solo: potrebbe dire anche la verità, ma il modo, l’incedere, è morboso. La scrittura è controllata, meditata, pacata, cela bene i segni del delirio di onnipotenza di chi si immedesima nel suicida, immagina le situazioni vissute dal suicida prima del suicidio, infine giunge alla risoluzione del caso.
Giallo risolto: ricerca e composizione degli indizi
Manguso crede di sapere perché il suo fraterno amico Harris si è suicidato. Mette in atto una scrupolosa indagine psichiatrica, giunge a descrivere effetti di cure e farmaci, proietta la propria esperienza personale su quella dell’amico suicida. Si sente autorizzata a farlo, forse perché poteva capitare anche a lei, di suicidarsi, e per qualche motivo non è successo. Ma prima di risolvere il caso, Manguso trae una conclusione che a leggerla vengono i brividi, perché in essa si esprime la liceità del suicidio come scelta, l’inevitabilità della scelta per chi vive male e la resa rispetto a essa da parte di chi vorrebbe dissuadere:
È impossibile calcolare il numero di giorni felici rimasti a una persona con il tipo di malattia di Harris, quindi forse la mia convinzione che avrebbe avuto molti altri giorni felici da vivere è falsa.
[Il salto, p. 75]
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Sarah Manguso
Il salto. Elegia per un amico (2012)
trad. it. di Gioia Guerzoni
Milano, Enne Enne Editore, 2017
pp. 112
Andanza. Fine di un diario (2015)
trad. it. di Gioia Guerzoni
illustrazioni di Marco Petrella
Milano, Enne Enne Editore, 2017
pp. 116
Peter Handke
Infelicità senza desideri (1972)
trad. it. di Bruna Bianchi
Milano, Garzanti, 1995
pp. 84
David Shields
Fame di realtà. Un manifesto
trad. it. di Marco Rossari
Roma, Fazi, 2010
pp. 264
Giorgio Vasta
Il tempo ritrovato
illustrazione di Emiliano Ponzi
«Robinson», p. 21, «la Repubblica», 1 ottobre 2017
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In copertina: Jean-Michel Basquiat, Fallen Angel, 1981.