Due ore prima dell’alba, seduto in cucina, fumavo una delle sigarette di Sarah. Ascoltavo il vortice e aspettavo. Millsport era andata a letto da un pezzo, ma nella Distesa le correnti ruotavano ancora sui bassifondi; il suono giungeva a riva e si aggirava per la città. Una nebbiolina si alzava dai mulinelli d’acqua, cadeva sulla città come teli di mussola e appannava le finestre della cucina.

È con questo incipit, che potrebbe tranquillamente trovarsi in un romanzo di Chandler o Ellroy, ad aprirsi un romanzo che, invece, poco dopo aggiungerà: Tornare dalla morte può essere spiacevole. Perché non siamo a Los Angels o Now York, ma tra migliaia di anni, nel futuro. Ed è proprio quest’anima noir proiettata su uno sfondo fantascientifico (richiamandosi alle atmosfere di Blade Runner o Neuromante) a costituire l’essenza di Altered Carbon di Richard Morgan. Nel futuro si è ormai riusciti a trasferire la coscienza in pile corticali virtualmente indistruttibili. I corpi diventano così mere “custodie” che i piú potenti e ricchi possono permettersi di cambiare come abiti o macchine usate. Il soldato speciale Takeshi Kovacs viene estratto dal “sonno” cui era stato condannato, e ingaggiato da un potente miliardario, la cui custodia precedente pare essersi suicidiata senza alcuna ragione. Inizia così un’indagine poliziesca che coinvolge il mistero della coscienza, e quanta realtà può sopportare il genere umano, parafrasando Eliot. Questo romanzo fu l’esordio di Morgan stesso come scrittore, facendo incetta di premi e riconoscimenti. Seguirono altri due romanzi di Kovacs, che ne ampliavano ulteriormente il contesto anche politico, due stand-alone distopici (Black Man e Market Forces) e la trilogia fantasy grimdark A land fit for heroes, con protagonisti il tenebroso cavaliere omosessuale Ringil Eskiath (che, guarda caso, è l’anagramma di Takeshi), l’aliena lesbica e tossicodipendente Archeth, il barbaro reietto Egar. Tre solitudini, che si incontrano in un mondo dove, dopo secoli, si risveglia un’antica magia oscura.

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Altered Carbon era stato subito opzionato da Hollywood per un adattamento cinematografico. Eppure, per oltre quindici anni, le sceneggiature sono passate di mano in mano, finché Netflix non ha deciso di ricavarne effettivamente una serie tv, che esce oggi, 2 Febbraio 2018. Per l’occasione TEA ripubblica Altered Carbon nella splendida traduzione di Vittorio Curtoni, uno degli eroi della fantascienza italiana. Il volume comprende una conversazione che ebbi con Richard Morgan. L’intervista si concentrava particolarmente sul libro e la serie in arrivo, ma il dialogo era risultato assai piú vasto, spaziando da Steiner all’epica classica e norrena, dai “malvagi” alle sfide della scrittura stessa, dalla politica alla ragnatela che collega i vari romanzi. Decidemmo di raccogliere le domande-risposte piú legate al rapporto romanzo-serie come postfazione al volume stesso, e pubblicare altrove il resto del dialogo, troppo ricco di suggestioni per andare perduto.

Anche a nome di Richard Morgan, dunque ringrazio profondamente Crapula per averci voluto cortesemente ospitare. 

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Edoardo Rialti: Inizierei dalla tua scena di violenza che trovo piú disturbante e intensa. Non è una sparatoria o una scena di tortura. È il momento in cui Kovacs si aggira segretamente in un bordello d’alto lusso e incappa in un miliardario che violenta alcuni cani:

Con la sensazione di avere perso il controllo, come accade in sogno, lo raggiunsi e appoggiai la testa alla superficie della porta. L’isolamento acustico era buono, ma i neurochim Khumalo al massimo se lo mangiavano. Ai limiti della soglia uditiva, suoni come punture d’insetto penetrarono nel mio orecchio. Tonfi ritmici, smorzati, e qualcosa d’altro che potevano essere gli urli d’implorazione di qualcuno allo stremo delle forze. I suoni si interruppero quasi immediatamente. Il cane smise di uggiolare nello stesso momento e si sdraiò`davanti alla porta. Quando me ne andai, alzai la testa a guardarmi con un’espressione di puro dolore distillato e rimprovero. In quegli occhi vidi riflessa ogni vittima che mi avesse mai fissato negli ultimi tre decenni della mia vita attiva. Poi l’animale girò la testa e si mise a leccare, apatico, le zampe posteriori rotte.

Un tuo romanzo successivo si apre con una citazione del critico George Steiner, ed è proprio un altro passaggio di Steiner in Errata che, a mio giudizio, esprime il medesimo strazio provato da Kovacs, e dal lettore attraverso i suoi occhi: La tenebra bruciante nella quale mi sento trascinare trascende la mia volontà. Sono in preda dell’enormità. Ma questo odio e questo cordoglio disperati, questa nausea dell’anima, risvegliano un’eco antitetica. Non so come dirlo con altre parole. Al centro della disperazione che porta a impazzire vi è l’intuizione insistete – di nuovo, non trovo altre parole – di un patto infranto. Di un cataclisma tremendo e specifico. Nell’urlo futile del bambino, nella sofferenza muta dell’animale torturato risuona il rumore di fondo di un orrore sorto dopo la creazione, dopo che siamo stati strappati alla logica e al riposo del nulla.

Desideravo chiederti quanto senti tua questa “eco antitetica”, e se questa è effettivamente la radice della rabbia bruciante in tutti i tuoi protagonisti.

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Richard Morgan: Capisco benissimo a cosa si riferisce Steiner, qui. Avevo letto solo il suo La nascita della tragedia, ma piú incappo in suoi passaggi, piú lo sento riecheggiare dentro di me. Questa sorta di basilare umanesimo disperato, che è il fondamento stesso del senso del tragico, direi. Una rabbia che supera i vincoli imposti all’esistenza umana e scatena qualcosa in te. Il problema è che questo ‘qualcosa’ solitamente è altrettanto grave e distruttivo di quanto lo ha scatenato. Ci troviamo così intrappolati in una spirale di violenza che, quando si abbatte su qualcuno, è sempre spaventosa.

ER: Kovacs affronta avversari crudeli come Reileen Kawahara o Kadmin, l’Uomo Patchwork. Eppure è proprio Kadmin a citare i versi di Quellcrist Falconer che anche Kovacs conosce bene, e persino Reileen mostra un suo feroce coraggio samurai. Kovacs non ha solo combattuto contro di loro, ma persino con loro, al loro fianco. E man mano che le vicende si dipanano nei tuoi romanzi, ci scopriamo a dibatterci contro le sabbie mobili del mercato del sesso, dell’idiozia militare, o del fanatismo religioso. Tutti poteri senza faccia o con troppe facce. Possiamo dire che Kovacs affronta più un ambiente, un “clima”, piuttosto che dei meri “cattivi”?

RM: Alla fine è sempre sorprendente accorgersi che poche persone a questo mondo sono davvero malvagie. Di solito, quando qualcosa di orrendo è stato commesso, ciò avviene in un contesto che ha progressivamente portato a tale situazione, ed è questo a spaventarci, l’idea che queste azioni orripilanti non siano commesse da mostri, ma da altri esseri umani, che è difficile risultino poi così diversi da noi. Proprio in questi giorni qualcuno su Twitter ha citato una sniper Russa della Seconda Guerra Mondiale, che aveva ucciso una cosa come 300 nazisti, e tutti alti ufficiali. In un tour negli USA le venne chiesto appunto quante persone aveva ucciso e la sua risposta fu: Nessuna persona, solo nazisti. E questo veniva appunto citato con approvazione. Capisco molto bene il sentimento (alla base anche del “punch the nazi”) eppure credo che così ci sfugga completamente il nocciolo della questione. Che ci piaccia o no, quella donna aveva effettivamente ucciso 300 persone. Potevano essere suoi nemici ed esponenti di una ideologia odiosa e disprezzabile e alcuni tra costoro potevano essere uomini assolutamente disgustosi, ma erano comunque tutti esseri umani, ed è a questo che cerchiamo sempre di non guardare in faccia, ed è per questo che creiamo “i cattivi”. Nei miei libri, alla fin fine, Kovacs si rende sempre conto che non c’è molto che lo separi davvero dalle persone che lui sta affrontando. Per molti aspetti loro potrebbero essere lui, e ne Il risveglio delle Furie si arriva al climax in cui Kovacs combatte effettivamente una sua copia, cioè esattamente se stesso.

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È la stessa scoperta che vedi nelle tregue di Natale delle Guerre Mondiali, l’accorgersi che le persone che combatti sono esattamente come te. Ovviamente devi calarti nei meccanismi psicologici che disumanizzano queste persone, altrimenti ti sarebbe impossibile affrontarle. Non è possibile dire “scusate, nessun rancore, vi ammazzo e basta”. Anche questo inserisce volutamente Kovacs nella tradizione del noir che amo (Chandler o Hammett): è l’accorgersi che l’arena stessa di combattimento è corrotta e sopravviverci ti trasforma in una sua creatura e spesso ti ritrovi così a fissare gli occhi di qualcuno che potresti essere tu.

Ci sono molti momenti-specchio nei miei romanzi. Momenti in cui Kovacs capisce che, se fosse qualcun altro, dovrebbe darsi la caccia e uccidersi. È il paradosso basilare di essere un guerriero. Pensiamo al gran numero di veterani che si uccidono dopo aver portato a termine certe missioni ed essere tornati a casa sani e salvi. Pensiamo al numero di ex forze speciali che si ficcano una pistola in bocca e premono il grilletto, “senza apparente motivo” si dice. Credo che sotto tutto questo covi la percezione terribile che, in fin dei conti, non è detto che tu sia davvero il buono della storia. Questo non è relativismo morale. Non è sostenere che non ci sono battaglie da combattere. Aggiri semplicemente il problema se ti limiti a credere che chi abbraccia un’ideologia orrenda sia o diventi in qualche moto subumano. Paradossalmente è proprio quanto i nazisti sostenevano degli ebrei o dei neri. E ho sempre sentito dentro di me che, quando un personaggio muore, devi comunque avvertirne l’umanità. Altrimenti è solo un film di supereroi. Aggira completamente la realtà effettiva di togliere una vita. Ho sempre cercato di mostrare che quando Kovacs uccide qualcuno – beh, quasi sempre! – ci sono dei danni collaterali: è inevitabile. È quello che mi ha colpito in The Punisher, e ho dovuto vederne 3 episodi per capire cosa non andava. Ottima scrittura, davvero ben fatto, ma non ci sono vittime collaterali. Il protagonista uccide sempre e solo chi se lo merita. È un mito fumettistico, una scialba rappresentazione della verità. Invece devi sempre mostrare che un atto di violenza, che sia compiuto dal buono o dall’antagonista, ricade comunque su un essere umano.

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ER: Mi ha sempre impressionato come questa intuizione sia alla base dell’epica e della narrativa stessa. L’Iliade termina proprio con due nemici che piangono insieme, con Achille e Priamo sotto la stessa tenda che singhiozzano le perdite che la guerra reciproca ha inflitto loro. Non solo. Il poema inizia con l’ira di Achille medesimo, che piange da solo sulla riva del mare, e termina con Achille che versa lacrime insieme agli altri uomini. Mi è sempre parsa la nascita anche del noir, se vuoi del percorso doloroso nel quale scopriamo che l’esperienza delle perdite e della mortalità – che crediamo solo nostra – in realtà ci accomuna tutti. E tale scoperta è già lì, in un poema di quasi tremila anni fa.

RM: Chiarissimo, è già lì, ed è ovunque. Credo sia uno dei motivi per cui il mito cristiano non funziona, col suo Dio totalmente buono e onnipotente. Se pensiamo invece ai miti nordici, troviamo tanta ambiguità morale. Tutti hanno una loro agenda. Certo, gli Aesir sono buoni in quanto resistono ai Giganti e alle forze dell’Abisso che si scateneranno alla fine dei tempi, come il lupo Fenrir, ma covano anche scopi personali e sono tutt’altro che completamente buoni. In effetti, hai la netta sensazione che siano parecchio incasinati, e io sono sempre diffidente nei confronti di libri e storie che non siano incasinati.

ER: Conosci la frase di Thomas Mann: Uno scrittore è quella persona per cui scrivere è piú difficile che per gli altri? Quali sono le difficoltà della scrittura che hai piú care, le fatiche che senti necessarie?

RM: È interessante, non avevo mai sentito prima la citazione, ma capisco bene la sua scaturigine. Non è tanto la questione delle nuove generazioni che passano il tempo a messaggiare col cellulare. È che molta narrativa oggi è scritta con uno stile prettamente utilitaristico. Non che ci sia niente di male in sé, ma è una considerazione che mi capita sempre di fare, quando in drugstore apro un libro e lo stile è spaventosamente scialbo, concepito solo per rivolgersi al pubblico piú vasto possibile, come per rispondere alla richiesta d’una mera sequenza narrativa, senza considerazione alcuna per stile o costruzione della prosa. Devo ammettere che io non riesco. Non mi aggancia in alcun modo. Il classico esempio è Il Codice da Vinci. Ci ho provato tre volte, tanti mi hanno detto che è un ottimo modo di costruire un romanzo, eppure io non riesco ad andare avanti, perché – a costo di sembrare una prima donna – leggerlo mi fa fisicamente male. Niente metafore o similitudini, nessuno spazio per la riflessione interiore, personaggi bidimensionali. Alla fin fine è come nelle soap opera: il capitalismo ti fornisce ondate sempre maggiori concepite per soddisfare quelli che considera i bisogni del mercato. Invece Mann ha ragione, perché chi scrive e ci tiene davvero si rivolge tutta una serie di domande affatto diverse (“Come ci arrivo? Come posso dirlo? Come faccio a renderlo piú intenso?”). Domande che mi pongo sempre, e credo siano condivise da molti autori, sebbene tantissima prosa venga realizzata e pubblicata senza alcuna considerazione in tal senso, indubbiamente. Scherzando, dico che vorrei poterlo fare, ma proprio non ci riesco: proprio come mi è impossibile leggere Il Codice da Vinci, mi è anche impossibile scrivere così. Alla fine, la cosa a cui tengo di piú è quando racconto un gesto, un’azione di un personaggio e neppure io sono del tutto sicuro di sapere “perché lo faccia”. Posso avere delle idee e delle ipotesi ragionevoli al riguardo (“è incazzato, gli serve la tal cosa”), potrei fornire delle considerazioni plausibili, ma non saprei davvero rispondere indicando una singola istanza concreta. Quando mi succede ne sono davvero felice.

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ER: Uno dei personaggi piú importanti della trilogia di Kovacs, la cui presenza aleggia in richiami e citazioni fino all’imprevedibile incontro effettivo, è la figura leggendaria della scomparsa Quellcrist Falconer, una messia della rivoluzione sociale e della guerra al Protettorato. Il tuo stesso account twitter è Quellist1. Quindi ti definisci davvero il primo “quellista”? E cosa significa esserlo?

RM: La questione è interessante. In Quellcrist e nel quellismo ho inserito così tanto delle mie letture… Certamente mi occorreva una forma di “resistenza” al Protettorato e che Kovacs risultasse un outisder, una macchina da guerra addestrata dal regime ma che non fosse un uomo del regime. Il suo animo è altrove. Non l’ho fatto certo quellista, eppure nutre delle simpatie per il quellismo, un po’ come lo Sean di Giu’ la testa di Sergio Leone, un ex rivoluzionario che ha già visto succedere tutto questo e non lo vuole vivere un’altra volta. Però non poteva esserci semplicemente uno sguardo che dicesse: “Beh le cose vanno male e basta e non c’è modo di contrastarle perché qualsiasi risposta fa quasi altrettanto male”. Non fraintendermi, è quasi – quasi! – il mio punto di vista, ma ciò nasconde una qualche forma di acquiescenza.

Perciò, gettai alcune basi e accenni, e nello svilupparsi della trilogia è emerso che forse dovevo tratteggiare qualcosa di più vasto. Per la maggior parte dei lettori Quellcrist e i suoi risultano una sorta di anarchici bakuniani (un lettore americano mi ha detto invece che li riteneva dei libertari), ma tendi comunque a considerarli perlopiù degli estremisti. Eppure – cosa alquanto divertente – quando mi sono messo effettivamente a scrivere cosa fosse il quellismo, è emerso un approccio alle cose alquanto centrista, di democrazia sociale, l’intuizione che non puoi ottenere il meglio dalla società se non fornisci a ciascuno i mezzi per realizzarsi al massimo delle sue potenzialità, ed essere Bill Gates o Umberto Eco, se vuole. È il giudizio secondo cui ogni società repressiva è, per sua natura, uno spreco. È questa la sua demo-dinamica. Se in effetti si provassero a tradurre in pratica i precetti del quellismo, risulterebbero alquanto moderati! [ride] Assicurarsi che il mercato non ti divori e ci siano delle garanzie per tutti. Una visione umanista del sistema sanitario. In effetti il Protettorato è uno stato talmente fascista che semplicemente essere un social-democratico costituisce una forma di ribellione! Sebbene anche la “socialdemocrazia” in Germania sia finita coi campi di concentramento, il che è indicativo: un approccio moderato può rivelarsi estremista se la società stessa è abbastanza repressiva.

Credo che la base del quellismo sarebbe ciò che molti di noi considererebbero una politica di centro-sinistra. E venendo a Quellcrist stessa, molti la considerano una figura eroica, ma, come Kovacs, lei è profondamente – profondamente! – combattuta e piena di errori. È una eroina e una guerrigliera, eppure ha messo in moto eventi che hanno anche causato l’infelicità di milioni di persone. Le manca l’arroganza orgogliosa e la sicurezza di uomini come Trostkij (“ci sarà molta sofferenza ma ne vale la pena, è giustificata”). Lei non ha mai queste certezze, si interroga sempre. Spesso i lettori fraintendono questo aspetto, o lo notano poco. Il quellismo non è certamente figo e drammatico come ti aspetteresti, e la sua fondatrice stessa era una figura estremamente dubbiosa. Il problema è che ogni rivoluzione comprende sempre un concetto molto romantico, per noi. Anche se talvolta non è piú così che valutiamo le guerre, spesso lo facciamo ancora con le rivoluzioni, perché vi percepiamo l’aspetto politico della ribellione esistenziale, della rivolta in senso blakiano o miltoniano, quella di Satana contro Dio ne Il Paradiso Perduto. Ai ragazzi piace Che Guevara, quasi fosse la traduzione effettiva di questo ideale romantico. Ma la verità è che Guevara era un coglione. Certo, era dotato di grande coraggio e determinazione e persino buone intenzioni, e che si possa vederlo sotto entrambi questi aspetti (un coglione e un uomo di grande determinazione) mi ha sempre colpito molto. Torniamo ancora una volta alla complessità della natura umana.

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ER: Takeshi Kovacs, la sua addestratrice Virginia Vidaura (vir-vi), Quellcrist… Nella tua trilogia fantasy i nomi degli Dei beffardi e ambigui della tua Corte Oscura hanno qualcosa di familiare: Takovash, Firfidar (fir-fi), Kelgris…

RM [ride]: The Steel Remains fu scritto davvero in fretta perché il mio precedente sci-fi, Black Man, mi aveva impegnato piú a lungo del previsto, e dovevo consegnarlo velocemente. Mi occorreva un pantheon e me ne sono uscito con questi nomi, che ovviamente si rifanno ai libri di Kovacs, per cui tali personaggi hanno fornito sostanzialmente lo sketch basilare degli Dei stessi. Se avessi voluto immaginare come erano, avrei potuto usarli come base. Ovviamente in una versione letterale ciò comporterebbe che ci trovassimo davvero in un futuro incredibilmente remoto, magari un milione di anni dopo. A quel punto, se si trattasse proprio delle stesse persone, ormai si sarebbero evolute in qualcosa che va oltre l’umano e l’immaginabile, e sarebbe quasi irrilevante che fossero davvero quelle persone o no. Che si parta da un presupposto letterale, oppure lo si consideri solo un easter egg o un giochino postmoderno, sicuramente questi Dei non sono affatto i personaggi della trilogia di Kovacs. Come potrebbero, dopo così tanto tempo e così tante ascensioni di livello e potere? Tuttavia mi sono divertito a giocarci e a seminare piccoli riferimenti, come agli Ahn-Foi, che ovviamente riecheggia gli Envoy dei libri di Kovacs. Mi ha sicuramente fornito un’ancora molto vicina e utile. E il senso è anche che alla fine della trilogia si percepisce come Takovash guardi Ringil e in lui veda se stesso. Ricorda qualcosa che proviene dal suo passato, dalle centinaia di migliaia di anni che adesso non ci sono piú. Certamente, Ringil è gay, Kovacs è etero ma in entrambi c’è comunque la sensazione di un’anima già distrutta dalla vita e che cerca comunque di fare la cosa giusta. E alla fine, quando Takovash gli dice appunto “Mi ricordi qualcuno”, Ringil gli dice sprezzante “Felice di ricordarti un tuo vecchio amico” e Tavokash ribatte “Chi ha detto che fosse un mio amico?”

Questa citazione è intenzionale, e dunque puoi vedere Takovash come una versione soprannaturale dell’io digitalizzato di Kovacs stesso, oppure il tutto come un dialogo che io stesso instauro tra i miei libri, nomi e personaggi. Forse tradisce anche il fatto che, qualunque cosa scriva, è difficile che mi discosti troppo dai libri di Kovacs, forse perché è difficile che i miei temi cambino poi tanto! [ride]

*  *  *  *  *

Two hours before dawn I sat in the peeling kitchen and smoked one of Sarah’s cigarettes, listening to the maelstrom and waiting. Millsport had long since put itself to bed, but out in the Reach currents were still snagging on the shoals, and the sound came ashore to prowl the empty streets. There was a fine mist drifting in from the whirlpool, falling on the city like sheets of muslin and fogging the kitchen windows.

It is this incipit, which could easily be found in a novel by Chandler or Ellroy, which opens a novel that, instead, shortly afterwards will add: Coming back from the dead can be rough. Because we are not in Los Angels or New York, but hundreds of years into the future. And it is precisely this noir soul projected on a science fiction background (recalling the atmospheres of Blade Runner or Neuromance) that shapes the essence of Richard Morgan’s Altered Carbon. In the future it has become possible to transfer consciousness into virtually indestructible cortical stacks. The bodies become so mere “sleeves” that the most powerful and rich can afford to change like clothes or used machines. The special soldier Takeshi Kovacs is extracted from the sleep he had been sentenced to, and hired by a powerful billionaire, whose previous custody seems to have committed suicide without any reason. Thus begins a police investigation which involves the mystery of conscience, and how much reality can be borne by humankind, paraphrasing Eliot. This novel was Morgan’s debut as a writer, taking up prizes and awards. Two other Kovacs-novels followed, which further broadened their political context, along with two dystopian stand-alone novels (Black Man and Market Forces) and the fantasy trilogy grimdark A land fit for heroes, with the homosexual knight Ringil Eskiath (who, by chance, is the anagram of Takeshi), the lesbian alien and drug addict Archeth and the barbarian-mercenary-renegade Egar as main characters. Three solitudes, which meet in a world where, after centuries, an ancient, dark magic awakens.

Altered Carbon had immediately been optioned for film adaptation by Hollywood. And yet, for over fifteen years, the screenplays have passed from hand to hand, until Netflix has decided to actually make a TV series, which is released today, February 2,2018. For the occasion TEA republished Altered Carbon in the splendid translation of Vittorio Curtoni, one of the heroes of Italian science fiction. The volume includes a conversation that I had Richard Morgan. The interview focused particularly on the book and the upcoming series, but the dialogue was much broader, ranging from Steiner to the classical and Norman epic, from “villains” in fiction to the challenges of writing itself, from politics to the spider web that connects the various novels. We decided to collect the questions-answers most closely related to the novel-series relationship as an afterword to the book itself, and to publish elsewhere the rest of the dialogue, too rich in suggestions to be lost.

Also on behalf of Richard Morgan, I thank Crapula so much for kindly hosting our talk.

Edoardo Rialti: I would start from the scene of violence whom I find most disturbing and intense in your book. It is not a shooting or a scene of torture. It’s the moment when Kovacs secretly wanders around a luxury brothel and hurts into a billionaire who is raping some dogs:

A dull, rhythmic thudding sound and something else that might have been the pleading screams of someone whose strength was almost gone. It stopped almost as soon as I had tuned it in. Below me, the dog stopped keening at the same moment and lay down on the ground beside the door. When I stepped away, it looked up at me once with a gaze of pure distilled pain and reproach. In those eyes I could see reflected every victim that had ever looked at me in the last three decades.

Another novel of yours will open with a quotation from critic George Steiner, and it’s precisely another passage of Steiner in Errata which, in my opinion, expresses the same torment experienced by Kovacs, and by the reader through his eyes.

When I am confrontedvia reportspictures, personal notice, of the infliction of wanton pain on children and on animals, a despairing rage floods meThere are those who tear out the eyes of living children, who shoot children in the eyes, who beat animals across their eyes. These facts overwhelm me with desolate loathing. But this despairing hatred and grief, this nausea of the soul, have a strange counter-echo. At the maddening centre of despair is the insistent instinct—again, I can put it no other way—of a broken contract.

I wanted to ask you how much you feel this “counter echo”, and whether this is actually the root of burning anger in all your main characters.

Richard Morgan: I understand very well what Steiner is referring to here. I had read only his The Birth of the tragedy, but the more I come across to his quotes, the more I hear him echoing inside me. This sort of basic desperate humanism, which is at the very foundation of the sense of tragic, I would say. An anger that overcomes the constraints imposed on human existence and unleashes something in you. The problem is that this’ something’ is usually as serious and destructive as the thing against whom it reacts. We are then trapped in a spiral of violence that, when it falls on someone, it’s always frightening.

ER: Kovacs faces cruel opponents like Reileen Kawahara or Kadmin, the Patchwork Man. Yet it is Kadmin himself who quotes the verses of Quellcrist Falconer that Kovacs also knows well, and even Reileen shows his fierce samurai courage. Kovacs not only fought against them, but sometimes he has fought even with them, at their side. And as events unfold in your novels, we discover ourselves debating against the quicksands of the sex market, military idiocy, or religious fanaticism. All powers without face or with too many faces. Can we say that Kovacs faces more an environment, a “climate” rather than mere “villains”?

RM: In the end it’s always surprising to realize that few people in this world are really, really evil. Usually, when something horrendous has been committed, this happens in a context that has progressively led to such a situation, and it is this that frightens us, the idea that these horrific actions are not committed by monsters, but by other human beings, who is difficult to reveal very different from us. Just these days someone on Twitter quoted a Russian sniper of the Second World War, who had killed something as 300 Nazis, and all officials or so foth. On a tour in the USA she was asked exactly how many people she had killed and her answer was: No people, only Nazi. This was mentioned with approval. I understand the feeling very well (also at the base of the “punch the nazi”) and yet I believe that this completely misses the core of the issue. Whether we like it or not, that woman had actually killed 300 people. They could be her enemies and exponents of a hateful and despicable ideology and some of them could be absolutely disgusting men, but they were all human beings anyway, and that’s what we always try not to look in the face, and that’s why we create “the bad guys”. In my books, in the end, Kovacs always realizes that there is not much that really separates him from the people he is fighting. In many ways, they might be him, and in Woken Furies you get to the climax where Kovacs actually fights a copy of him, that is exactly himself.

It is the same discovery that you see in the Christmas truces during the World Wars, realizing that the people you fight are exactly like you. Obviously you have to go into the psychological mechanisms that dehumanize these people, otherwise it would be impossible for you to deal with them. It’s not possible to say “apologize, no hard feelings, I just kill you “.

This, too, deliberately inserts Kovacs in the tradition of the noir I love (Chandler or Hammett): it is the realization that the arena itself is corrupt and surviving in it transforms you into its creature and you often find yourself facing the eyes of someone who could have been yourself.

There are many moments-mirror moments in my novels. Moments when Kovacs understands that if he were someone else, he would have to hunt down and kill himself. It is the basic paradox of being a warrior. Think of the large number of veterans who kill themselves after completing certain missions and return safely at home. Think about the number of former special forces that put a gun in their mouths and pull the trigger,”without apparent reason”. I believe that beneath all this lies the terrible perception that, at the end of the day, you are not necessarily the good one of the story. This is not moral relativism. It is not saying that there are no battles to fight. But you simply avoid the problem if you limit yourself to believing that those who embrace a horrific ideology, are or become subhuman. Paradoxically it is exactly what the Nazis claimed about Jews or Black people. And I’ve always felt inside me that, when a character dies, you have to feel his humanity anyway. Otherwise it’s just a film of superheroes. It completely erases the actual reality of taking a life. I’ve always tried to show that, when Kovacs kills someone – well, almost always!- there are collateral damages: it is inevitable. That’s what struck me in The Punisher, and I had to see 3 episodes of it to understand what was wrong. Excellent writing, really well done, but there are no collateral victims. The protagonist always kills only those who deserve it. It is a cartoon-myth, a shallow representation of the truth. Instead, you must always show that an act of violence, whether committed by the main character or the antagonist, falls on a human being.

ER: It always impressed me how this intuition is at the basis of the epic and narrative itself. The Iliad ends precisely with two enemies crying together, with Achilles and Priam under the same tent, weeping the losses that the mutual war has inflicted on them. And even more. The poem begins with the rage of Achilles himself, who cries alone on the seashore, and it ends with Achilles pouring tears with other men. I have always seen it as the birth of the noir, if you want, the painful path  where we discover that the experience of loss and mortality – which we believe only ours – actually unites us all. And this discovery is already there, in a poem of almost three thousand years ago.

RM: Crystal clear, it is already there, and it is everywhere. I believe it is one of the reasons why the Christian myth does not work, with his God totally good and omnipotent. If we think of the Nordic myths, we find so much moral ambiguity. Every god has his own agenda. Of course, the Aesir are good because they resist the Giants and the forces of the Abyss that will be unleashed at the end of time, like Fenrir the wolf, but they also have personal purposes and are far from being completely good. In fact, you have the distinct sensation that they are quite messy, and I’m always suspicious of books and stories which aren’t messy.

ER: Do you know this Thomas Mann’s sentence: a writer is a person for whom writing is more difficult than for others? What are the difficulties in writing that you hold dearest, the fatigues that you feel necessary?

RM: It’s interesting, but I had never heard the quotation before but I well understand its root. It is not a question of the new generations spending time texting. It is that much narrative today is written with a purely utilitarian style. Not that there is nothing bad in itself, yet it is a consideration that always occurs to me, when in drugstore I open a book and the style is frighteningly dull, conceived only to address the widest possible audience, as if to respond to the request of a mere narrative sequence, without any consideration for style or construction of the prose. I have to admit that I doesn’t work, for me. It does not engage me in any way. The classic example is The Da Vinci Code. I’ve tried it three times, many have told me that it’s a great way to build a novel, and yet I can’t go on, because – at the cost of looking like a  drama queen- reading it almost hurts me physically. No metaphors or similies, no room for inner reflection, two-dimensional characters. In the end it’s like soap operas: capitalism provides you with ever-increasing waves designed to meet what it considers the needs of the market. Instead, Mann is right, because those who write and who really care about it, they are always asking themselves a whole series of very different questions (“How do I get there? How can I say it, how do I make it more intense?”) Questions that I always ask myself, and I think they are shared by many authors, although a great deal of prose is produced and published without any regard of it, undoubtedly. Joking, I say that I would like to be able to do it, but I just can’ t: just as it is impossible for me to read The Da Vinci Code, it is also impossible for me to write like this.

In the end, what I’m most interested in, it is when I write down a gesture, an action of a character and I’m not quite sure why he does that. I can have some reasonable ideas and hypotheses about it (“he is angry, he needs it”), I could give some plausible considerations, but I really wouldn’t be able to answer with a single straight answer. And when it happens to me, I’m really happy.

ER: One of the most important characters in the Kovacs trilogy, whose presence hovers in references and quotations until the unpredictable, actual encounter, is the legendary figure of disappeared Quellcrist Falconer, a messiah of the social revolution and the war against the Protectorate. Your own twitter account is Quellist1. So do you really define yourself as the first “Quellist”? And what does it mean to be one?

RM: The issue is interesting. I have inserted so much of my readings into Quell and Quellism…. I certainly needed a form of “resistance” to the Protectorate and that Kovacs turned out to be an outsider, a war-machine trained by the regime but not a man “of the” regime. His soul is elsewhere. I certainly didn’t make him a Quellist, and yet he shares some sympathies for Quellism, a bit like the Sean of Giù la testa by Sergio Leone, a former revolutionary who has already seen all this happen and doesn’t want to live it again. But there couldn’t have been a prospective that simply states:”Well, things go wrong and that’s all and there is no way to fight them because any answer does almost as much harm”. Don’t misunderstand me, it’s almost – almost! -my point of view, but this hides some form of quiescence.

Therefore, I laid some basics and hints, and in the development of the trilogy it emerged that perhaps I had to outline something broader. For most readers Quellcrist and her followers are a kind of bakunian anarchists (an American reader told me that he thought they were libertarians), so people tend to consider them extremists. And yet – which is rather funny – when I truly put myself to write what Quellism was like, it emerged as a rather centrist  approach, a kind of social democracy, the intuition that you can’t get the best from society if you don’t provide everyone with the means to realize their full potential, and become Bill Gates or Umberto Eco, if they want. It is the judgment from whom every repressive society is, by its nature, a waste. This is his demo-dynamics. If someone actually try to put into practice the precepts of Quellism, it would result quite moderate [laughs]! Make sure that the market doesn’t swallow you and there could be guarantees for everyone. A humanist vision of the health system. In fact, the Protectorate is such a fascist state that simply being a social-democratic is a form of rebellion! Although “social democracy” in Germany has also ended with concentration camps, which is indicative: a moderate approach can be extremist if society itself is repressive enough.

I believe that the basis of it would be what many of us would see as a centre-left policy. And coming to Quellcrist herself, many see her as a heroic figure, but like Kovacs, she is profoundly, deeply torn and full of errors. She is a heroine and a guerrilla-leader, yet he has set in motion events that have also caused unhappiness for millions of people. She lacks the proud arrogance and security of men like Trostkij (“there will be much suffering but it is worth it, it is justified…”). She never has these certainties, she always questions herself. Readers often misinterpret this, or notice it little. Quellism is certainly not as cool and dramatic as you would expect, and its founder herself was an extremely doubtful figure. The problem is that every revolution always includes a very romantic concept. Even if it is no longer how we evaluate wars, we often still do so with revolutions, because we perceive them as the political aspect of the existential rebellion, of the revolt in the blakian or miltonian sense, that of Satan against God in Paradise Lost. Boys like Che Guevara, as if he was the actual embodiment of this romantic ideal. But the truth is that Guevara was a wanker. Of course, he was endowed with great courage and determination and even good will, and that you can see him in both of these respects (a wanker and a man of great determination) has always struck me very much. So we come back once again to the complexity of human nature.

ER: Takeshi Kovacs, his trainer Virginia Vidaura (vir-vi), Quellcrist… in your fantasy trilogy the names of the Gods in the mocking and ambiguous of your Dark Court sound quite familiar: Takovash… Firdidar (fir-fi)… Kelgris…..

RM (laughs). The Steel Remains was written in a hurry because my previous sci-fi, Black Man, had envolved me much longer than I expected, and I had to deliver it quickly. I needed a Pantheon and I came out with these names, which obviously refer to Kovacs’ books; so these characters have provided as the basic sketch for the Gods themselves. If I wanted to imagine how they were, I could use them as a basis. Obviously, in a literal version, this would mean that we really are in an incredibly remote future, perhaps a million years later. At that point, if they were really the same people, by now they would have evolved into something that goes beyond the human and the imaginable, and it is almost irrelevant whether they were really those people or not. Whether you start from a literal presupposition, or consider it as just an easter egg or a postmodern game, these gods are certainly not the characters of the Kovacs trilogy at all. How could they, after so much time and so many ascents in level and power? However, I enjoyed playing, and sowing small references, such as the “Ahn-Foi”, which obviously echoes the “Envoy” of Kovacs’ books. It has certainly provided me with a very close and useful anchor. And the sense is also that at the end of the trilogy you perceive Takovash while he is looking at Ringil, and see himself in him. Ringil reminds him of something that comes from his past, from the hundreds of thousands of years that are gone. Of course, Ringil is gay, Kovacs is straight, but in both of them there is the feeling of a soul already destroyed by life and still trying to do the right thing. And in the end, when Takovash says to him, “You remember me of someone”,  Ringil contemptuously reply “Glad to remember you of an old friend” and Tavokash  say “Who said he was my friend?”

This quote is intentional, so you can see Takovash as a supernatural version of Kovacs’ digitize self, or all as a dialogue that I establish between my own books, names and characters. Perhaps it also betrays the fact that, whatever I write, it is difficult for me to go too far from Kovacs’ books, perhaps because it is difficult for my themes to change so much! (laughs)

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Un estratto dalla postfazione alla nuova edizione TEA

Trailer [ITA] della serie tv

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Altered Carbon
Richard K. Morgan
TEA, 2018
Trad. it V. Curtoni