Il cielo smise di piangere lacrime di smog e vapore non appena ebbi posato piede sull’asfalto bagnato della pista del Narita International Airport. Senza soluzione di continuità attaccò a piangere Akiko, la hostess di terra della Fujii Airlines che mi attendeva in kimono bianco alla fine della scaletta e a cui avevo pestato sbadatamente uno dei piedini misura 34.
Era dalla mia diaspora che mancavo da quella terra. Di diaspora parlo perché così ricordo di averla vissuta, anche se il mio è sentire più che ricordare, perché della mia vita, e non solo di quella di allora, non ho una memoria completa, ma frammenti, tessere. E del mosaico intravedo il profilo, i colori di fondo e qualche particolare; mi mancano il tema, la storia, il senso. Il dottor Sapierstein, il mio psichiatra, dice che la mia è incapacità di rievocazione, un’amnesia retrograda forse originata da uno choc. Mi accade di perdere le tracce e solo ogni tanto di ritrovare la strada, a volte per caso, altre per tenacia. Sono uno scout da quattro soldi, uno straniero in patria. È come se vivessi in una città di cui conosco anfratti inaccessibili, nascosti ai più, ignorandone invece le piazze, le direttrici, i simboli. Abito gli angoli, mi è inibito il centro.
Attraverso le lenti deformanti che da sole si sono arbitrariamente sovrapposte alle mie retine, del mio periodo giapponese vedo affiorare un uomo che mi insegue, una villa sul monte Hokodate, un giardino popolato da scimmie supponenti, l’isola di Hokkaido vista dall’alto; e poi numeri, date. A fare da filtro a tutto, un velo rosso e un senso di umiliazione e sconfitta.
E qui adesso ero tornato, da vincitore. Un mio amico editore che mi doveva molta grana a poker, vista la crisi nera del settore mi aveva ammansito proponendomi un pagamento in “natura”: la pubblicazione di un mio attualissimo pamphlet sulla superiorità del pesce cotto su quello crudo e dei danni psicofisici cui andavano inevitabilmente incontro i consumatori del secondo, un’opera unica nel suo genere che mi avevano rifiutato già una cinquantina di volte. Il testo rivisto e rieditato sotto forma di saggio con il titolo “Gli effetti del sashimi sui processi sinaptici dei cuochi”, incredibilmente era diventato un best seller sul mercato giapponese. E questo è quanto. E ora eccomi lì all’ombra del Fujiiama a godermi l’agognato successo e l’agrodolce sapore della vendetta.
Già nel taxi privato che mi aspettava fuori dall’aeroporto cominciai però a intuire quello che avrei scoperto più tardi, e cioè che i figli del sole avevano deciso che non ero uno scrittore di successo ma una specie di sciamano della psichiatria. E così invece che in albergo la Toyota mi sputò direttamente davanti al Keio Gijuku Daigaku Hospital. Poi stampa, flash, fiori di pesco e cazzi vari. Destinazione: “Reparto camicie di forza”, dove avevano organizzato la presentazione del libro e quello che doveva essere il vero tema della matinée.
Una pedana; un tavolo lungo, vetro e alluminio, dove mi aspettava una sedia alto design, trasparente, come gli occhi di Yuki, la ragazza cieca in tubino viola che mi avrebbe fatto da interprete e che dopo avermi fatto accomodare si era seduta accanto a me. Di fronte, la platea: giornalisti, camici bianchi, ragazzi dai capelli colorati, anziani in vesti tradizionali.
Su un lato una tenda, nera, ampia.
Il moderatore era un tale Kimura. Yuki mi informò che si trattava dello psichiatra più cazzuto in circolazione. La prolusione iniziai a seguirla con Yuki che mi bisbigliava in un orecchio la traduzione in simultanea e un occhio sulla copertina di un manga, che stranamente avevo trovato sul tavolo e che per la storia e il tratto del disegno in qualche modo mi era familiare. Rinunziai all’interprete in viola quasi subito, scoprendo che il giapponese lo capivo perfettamente. Un’altra tessera. Ci misi più tempo a lasciare il giornaletto, invece. Kimura era un affabulatore. Disegnò un ampio giro, tracciò coordinate impossibili, riuscì a unire punti lontani. Quello che raccontava, volgendo serio lo sguardo verso di me ogni due minuti, era un mondo. Il suo, ma anche il mio forse. E anche se parlò a lungo, fu conciso. Di ossimori il Giappone è pieno ed è arte praticata quella di far convergere i contrari, rivelarne l’apparenza. L’asimmetria produce armonia, la brevità ampiezza, la morte rinascita, la tradizione scontro ma anche tecnologia. E l’ordine il caos, a volte.
Kimura partì da Amaterasu la dea del sole, attraversò il Giappone degli eroi e degli shogun; soffiò sulla platea il vento divino, il kamikaze, che aveva distrutto la flotta coreana. Fece tappa a Nagasaki. Arrivò alla patologia, al disagio, alla follia del suo paese; agli hikikomori, autoesiliati nelle proprie camere davanti allo schermo; agli otaku, ossessivamente appassionati di manga, anime, videogames.
E poi atterrò, e parlò di me. Della mia capacità di vedere oltre. Degli insospettati effetti collaterali del sushi, del sashimi. E accennò alla stranezza del mio ritorno. Del mio ritorno. Chi era lui per saperlo? E chi ero io, mi trovai a pensare. Non ebbi il tempo di darmi o chiedere risposte. Kimura aveva smesso di parlare e si era seduto. Capii che la sua non era stata una semplice introduzione e che si era già al cuore del discorso.
Manine delicate su interruttori spensero le luci. Altre più energiche scostarono la tenda nera che copriva la parete alla mia destra. Dietro, una stanza sotto vetro e, dentro, quelli che fino all’altro ieri erano stati i migliori chef di Tokio. Minami, Watanabe, Kuroda, Ito, Baishitsu e “Fugu” Amurogama. Ognuno stringeva uno strumento e lo usava, e si muoveva al ritmo di qualcosa, nel silenzio. Intravidi un megafono, una tromba, un sax, batteria, contrabbasso, tastiera. Erano muti. Sembravano pesci in un acquario. Kimura fece un cenno a un infermiere che era in piedi sulla porta di ingresso della stanza di vetro e che azionò subito una manopola su un pannello. Immediatamente il suono invase la sala. Funky jazz. Suonato a trecento all’ora. Da un altoparlante una voce femminile illustrava la scena ai presenti. Gli ex cuochi, tutti esperti nella preparazione di piatti a base di pesce crudo, avevano inspiegabilmente abbandonato tonni, calamari e pesci palla e si erano votati alla musica; adesso erano semplicemente gli “Haiku Acid Cookers” e da 6 mesi 6 erano lì, a suonare con nipponica ossessività lo stesso pezzo, senza soste, eccetto quelle per la razione mirata di sashimi e sakè, gli esami clinici cui venivano periodicamente sottoposti e le perversioni con le infermiere compiacenti dell’ospedale, che a scopo terapeutico donavano il proprio corpo agli ex chef abbigliate da kawaai, scabrose lolite da cartone animato.
Nabuyoshi Araki
A quanto pareva, il mio saggio poteva aver aperto uno spiraglio. Rimasi incantato. Dalla musica. Dalle infermiere. Dagli effetti del sashimi sulla psiche dei cuochi. Un altro giro di manopola da parte dell’addetto e il suono scomparve. Scomparve la campana di vetro dietro la tenda scura.
Kimura mi indicò qualcosa con la mano. Pensai che mi stesse invitando a parlare. Ripeté il gesto e questa volta lo accompagnò con un cenno della testa. Guardai sul tavolo, davanti a me.
Un origami. Un pezzo di carta, impalpabile, candida, che mani esperte avevano piegato e trasformato in una piccolissima tigre. Guardai Kimura. Un altro suo cenno, una seconda composizione, un drago tibetano stilizzato, la cresta, una lingua di fuoco. Non attesi gesti, porsi la mano direttamente. Vi si posò un altro origami. Un pugnale. Ebbi un capogiro. Cominciò con una nebbia, un velo sugli occhi, uno sdoppiamento degli oggetti intorno, dei volti. Passò subito.
E fu come se si accendesse qualcosa nella mia testa. Una luce. Fioca. Poi sempre più luminosa. Quella dei ricordi, della memoria.
Il quarto dono di Kimura non fu un origami. Semplicemente un foglio di carta washi decorata. Mi resi conto di sapere, o forse di ricordare, che si trattava del tipo indicato per la realizzazione dei modelli più semplici. Dalle mie mani uscì una gru augurale. La misi davanti a me. Poco dopo la gru si affacciava in un triangolo. Un minuto e il becco della gru sembrava immerso in una girandola. Chiesi carta velina metallizzata di prima scelta. Era già lì. Le mie mani, rapidissime, piegarono, accarezzarono. Circondai la mia postazione di minuscoli crisantemi di carta, di carpe, sfere rituali, figure floreali.
Compresi che era di sangue il filtro porpora dei miei ricordi sul Giappone. La platea taceva. I giornalisti lo facevano, ma scrivendo. Notai una telecamera in fondo alla sala. In prima fila si alzò una donna. Salì sulla pedana, si avvicinò al tavolo. Stringeva un libro al petto. Era una copia fresca di stampa degli Effetti del Sashimi. Abbozzò un inchino e mi porse il volume, aperto alla prima pagina, appena dopo la copertina. Mi chiese una dedica.
A chi, domandai.
A mia sorella Kimiko, rispose la donna.
Il mio primo autografo. La mia sigla. Sul libro. E anche sulla fine.
Perché la donna tornò al suo posto e mostrò l’autografo a un uomo in cravatta. L’uomo sussurrò qualcosa in un piccolo microfono appuntato sul collo della giacca. Nella sala entrarono tre poliziotti. Mi portarono via.
La luce è tornata. Vivida. A 10.000 watt. So chi sono. So che lo dimenticherò di nuovo, anche. Ma ci sarà qualcuno a vegliare su di me in quel momento, a farmi ritrovare la strada. Sono il mostro di Sapporo. Quello che di notte pugnalava a morte ragazze, rigorosamente giovani, carine, come Kimiko, e lasciava origami sui cadaveri. E che di giorno le trasformava in schizzi, in personaggi femminili dei manga della Kobayashi Animation Inc. I più ricercati dagli otaku, adesso. Hoffmann il disegnatore. Hoffmann che non ha lasciato tracce, foto, dietro di sé, ma solo le sue scimmie ammaestrate e le sue strane cifre: gli origami e la firma svolazzante sulle sue meravigliose tavole e sul contratto, quell’acca inconfondibile. Hoffmann sparito da un giorno all’altro, in pallone. Hoffmann l’orfano. Hoffmann lo schizofrenico. L’assassino.
La messa in scena, il baraccone, il manga scritto, sceneggiato, realizzato nei minimi particolari per scoprirmi, prendermi, con un budget stratosferico stanziato da Kobayashi san in cambio dei diritti sulla storia, si ferma qui.
La storia degli “Haiku Acid Cookers” era autentica invece. Gli ex chef in questo preciso istante stanno suonando al Japan’s Fuji Rock Festival, venerati come kami, come divinità del funk. Hanno degli otaku anche loro, naturalmente. Sembra che io avessi incredibilmente ragione sul pesce crudo, ed è anche per questo che sono ancora qui, sotto vetro. Hanno deciso che devo restare, che devo espiare, e soprattutto che devono capire.
I giapponesi sono dei fottutissimi pazzi.
E pure io.
E in ogni caso: Non-mangiate-il-sashimi.
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Racconto pubblicato sul n° 51 della rivista «Prospektiva».
Foto copertina: Eikoh Hosoe.