Tante chiacchiere – le chiacchiere che aiutano il rumore a farsi corpo impellente.
Da tempo avevo un testo in mente, per parlare del più abusato dualismo (Dioniso-Apollo). Un dualismo sulla cui natura s’è fatto dibattito qua dentro. E invece di scrivermi addosso – una pratica sempre piu scompisciona – ho deciso di usare un passo da un testo lungo su cui (sul testo, non sul passo) lavoro da due anni lunari ormai.
Un passo che in qualche modo, da lontano (o da troppo vicino) parla di questo dualismo.
Il passo è tratto dal Capitolo VII, Gli Epigoni (il titolo del testo lungo ancora non datur). Eccolo di seguito, o da scaricare in pdf qui:
*****
L’idolo – quell’accendersi improvviso, quel pompare di fluidi nei tessuti cavernosi, quel dilatarsi al solo pensarci, prima ancora di vedere. Di vedere cosa? L’oggetto là davanti – la forma tonda, sostanziosa? La forma eretta? Il buco nascosto tra le foglie?
Quell’oggetto della mente, quel prodotto artefatto della nebulosa grigia, della poltiglia elettrica. Di pensare cosa? La promessa di felicità, di scarica? La prospettiva di dominio – il conforto caldo della sottomissione?
“Cosa la eccita, in fondo? Lei cosa vuole?” Il Poeta o Tiresia è serio, o pare serio, seduto sulle scale di marmo di un giardino neoclassico, nel cuore pulsante della capitale del mezzogiorno. La Vestale, distesa su una sdraio di plastica, abbronza la pellaccia un po’ passata ma ancora passabile, tutta unta. Sonnecchia o è presa dal sole e non reagisce alla domanda.
“Dico sul serio, signora. Lei è l’animale desiderante più infoiato…eppure anche lei ha i suoi momenti, lo so…riflessivi o, come dire, autistici o…insomma: che cos’è? La preda stessa, il contatto e l’azione – o la sua immagine, il progetto? O tutto il processo?”
La Vestale rinviene negli occhiali da sole. Si aggiusta i capezzoli doppiamente oliati, con una mano controlla il pube appena potato. “Non saprei dirglielo, così su due piedi, sotto ‘sto sole cocente. È difficile dirlo. Eppure spesso per esplodere ad un certo punto ci vuole un lungo salivare prima, tutto un preparare e rimestare. Se no quel corpo la davanti, quel cazzettino o pezzone o anche culone – quale che sia – non avrebbe senso, mi lascerebbe del tutto indifferente. Eppure…” la Vestale sposta gli occhiali di madreperla sulla fronte e con gli occhi si avvicina a Tiresia. E Tiresia, tutto curioso, si mette ai piedi di un albero, ad un passo da lei.
“Eppure…” segue dicendo la Vestale, coi seni sempre più obbedienti alla gravità e la pelle sulle cosce e sui glutei sempre più a ossequiare il principio della fine. “A volte non riconosco alcun pensiero dietro la voglia, niente. Non ricordo niente; capisce? Una cosa come una tempesta mi prende all’improvviso, ed è come se la mia testa fosse già una cosa con l’oggetto che ora devo sbranare. Come se quell’oggetto non l’avessi mai visto eppure fosse da sempre l’unica cosa desiderabile. Una cosa lampante. Una grande pienezza senza pensiero, o senza ricordo. Ma non accade spesso. Eppure mi fa dubitare.”
Tiresia annuisce all’ombra dei rami come se prendesse appunti. La Vestale, ora in piedi sul prato – i piedi nudi lustrati e ingioiellati – segue dicendo: “Te ne accorgi quando ti prende disarmato, senza strategia né visione, niente. Solo quell’impulso di sbranare. È un viaggio all’indietro di qualche millennio, la più ampia pienezza.” Si ferma massaggiandosi le tempie. “Ma anche la più rischiosa. Uno ci perde la reputazione per questo. E anche la vita. Forse sono due cose così diverse che non dovrebbero andare nella stessa domanda…”
“Cioè lei vuol dire, madame, che l’immagine pensata e ripensata, rimestata, è meno rischiosa dell’oggetto preso a morsi di colpo. Ed io mi permetto di dissentire.” Tiresia pure si mette più libero, i piedi nudi ed il petto al vento. Con questo caldo. “La chiave qua dentro, signora, è l’ossessione.”
Quel sovraccarico di immagini prodotte, pensate, desiderate. L’idolo – chi viene prima e chi viene dopo? Non datur. La privazione, l’accumulo, diventa ossessione. L’ossessione diventa feconda. La fecondità morte – ed ancora la ruota gira.
“Ed infatti da sempre la vedo trattenuto, contrito – se non in rari momenti…”
“La bestia mi ha abbandonato tempo fa. Sono diventato piuttosto uno che osserva.” Taglia corto Tiresia ma alla Vestale non basta. E riprende.
“L’altra notte, ad esempio, alla riunione. Tra una strusciata e un’altra cosa, la guardavo. Ogni tanto mi pareva di vedere nei suoi occhi la fiamma di uno che sta per scoppiare. Non saprei dirle in che senso…poi quando è venuto sotto il tavolo, c’erano lacrime insieme alle gocce di sborra – o mi sbaglio?”
Qualcosa si ferma: è l’aria, il vento o l’approssimarsi del punto. Qualcosa là fuori si concentra.
“È in quell’istante che il suo contegno mi ha terrorizzato. Mi sono chiesta dove potesse andare a finire tutto quel fuoco, dove andasse a sfogare…l’ho vista uscire asciugandosi le guance e le mani, composto – e non so perché ma ho tremato. Poi…” se ne va sull’erba a riempirsi il bicchiere di ghiaccio, le spalle e il culo un poco aggrinzito di fronte a Tiresia “poi mi sono detta che lei quell’uomo, Bruto o cone si chiama, il ragazzo…lei lo ama.”
Il ghiaccio nel bicchiere schiocca e l’aria è ancora più immobile. Silenzio. Tiresia, all’ombra dei rami, non dice parola.
“Allora mi sono detta che forse lei soffre quando io mi prendo il ragazzo. Che lei lo vorrebbe solo per sé…”
Tiresia ride. Ride forte, senza pausa. Respira guardando in alto perché non c’è peggio che il singhiozzo. La donna resta di spalle, immobile, offesa. Tiresia le viene dietro scamiciato. La raggiunge; il palmo di una mano sui capelli corti leggermente mesciati, giù per la schiena arcuata ed i glutei in caduta lenta.
“Signora, lei è una bestia tenera. Non lo dimenticherò.” E poco a poco con la mano prende da dietro i labbroni e li scoperchia. Poi più dentro, tra i buchi, con la leggiadrì leggendaria di Giordano Bruno. Come una ricompensa o una gratitudine. La donna freme come piangesse, senza voltarsi, il bicchiere in mano. “Quel ragazzo, l’Uomo Nuovo, io…” Tiresia le parla in un orecchio mentre titilla la spada o clitoride “…non amo il suo corpo quanto il suo destino.” E la Vestale spruzza a fontana sotto le mani del veggente, si accascia al suolo. Non capisce nemmeno le parole: sente i suoni, si stende sull’erba inzuppata.
C’è quello che vuole, desidera – chiunque, ogni cosa desidera: a dismisura, alla propria taglia, o di meno (uno scricciolo o sputo). E c’è pure quello che fissando l’idolo desiderato in faccia vede la rovina cadergli addosso, la propria e dei suoi. E non si scosta – si aggiusta più al centro per prenderla in petto.
Fuori di sé: è quel coito ossessivo, quell’ironia smisurata di fare dell’ossessione – del desiderio – l’unico motivo. La caduta, la vedo – proprio per quello! E la morte – che sarà mai! Un’interruzione, un passaggio, l’entretemps dello spettacolo. Ma lo spettacolo – il desiderio, l’idolo – è il punto. Tiresia si diventa: a voler essere quello che vede e lo dice, e non solo. A voler essere quello che causa – il centro stesso, il fuoco del desiderio – e raccoglie: le scorie, la vergogna, la fine.