C’ho una schiera di filologi alle calcagna solo per il titolo di questo post. Il Codice in mano, sono già pronti a correggere – e non hanno ancora sentito niente.
E dunque i Radiohead, ad un certo punto del loro lungo tour europeo, sono sbarcati (letteralmente, atterrando su una sponda irsuta del Reno) a Colonia, lo scorso 15 Ottobre. Io ci sono andato, come ormai religiosamente da dieci anni a questa parte. Anche stavolta, religiosamente, non ho fatto nemmeno una foto (è la memoria a dover restare impressa, perchè è la memoria la più crudele di tutte).
Ecco, per tornare al punto e dare contesto: non è forse un concerto un luogo, una situazione analoga a quella del teatro classico greco – quel luogo in cui lo spettatore viene sapendo già cosa va a vedere, andandoci appunto proprio per riviverlo? (Catarsi e ironia tragica quivi racchiusi).
E non dice il nostro Cavallo Pazzo Nietzsche, da qualche parte nel primo libro della Gaya Scienza, che il godimento più intenso nell’ascoltare musica consiste nel riascoltarla, quella musica, avendola già una volta domata – e così anticipare, rivivere?
Ci avviciniamo al cuore pulsante della faccenda, al battito. Così fa infatti il dio dei misteri e della musica: batte.
Bene. L’orda di talpe pare avermi perso di vista . Lo spettacolo messo in piedi dai Radiohead è totale e, per inciso, giustifica il rinvio delle date di giugno causa distruzione impianti luci e strumentazione. Come anche nel tour successivo a In rainbows (2007) i segni ottici (le luci, gli schermi, i pannelli luminosi e tutti gli effetti visivi) seguono, o cercano di seguire da vicino (per analogia più che per metonimia) il corso della musica, esplodendo e implodendo.
Il luogo del concerto però, a Colonia come in altre città del nord dell’Europa (solo il PIL! C’avete solo il PIL!) per questioni climatiche è un’arena coperta, di una capienza (a occhio) di circa 20.000 umani, costituita nel modo seguente: una platea in mezzo (umani in piedi) e due anelli tutt’intorno (umani seduti). Seduti! Metà del pubblico si trovava molto distante dal palco e seduta, lontana dalla bolgia. E la bolgia, la danza e la bolgia, sono fondamentali al dio dei misteri e della musica.
Rivivere quella musica che già tanta goduria m’ha provocato mi drizza le antenne. Il mio corpo si aspetta adrenalina a vangate. Tutto o niente.
Il concerto inizia con Bloom, da The King Of Limbs, ed è la prima di molte scosse: se c’è un difetto dell’ultimo album è la piattezza delle dinamiche (sacrificata, a mio avviso sull’altare di un linguaggio ancora più estremamente raffinato – come una ricerca o una tappa); ora, i Radiohead su questo aspetto sembrano avere riflettuto e lavorato, e dal vivo i pezzi di quest’album (Morning Mr Magpie e Feral) in qualche modo esplodono (la doppia sezione ritmica aiuta in questo senso).
Eppure il concerto comincia – la bolgia comincia, ed io seduto e distante l’avverto e smanio come posso – con The national anthem. Pyramid song è una perla ascensionale ed è eseguita come si deve.
Esecuzione: tra le impressioni raccolte da questo tour c’è quella di una partecipazione più intensa, sfrenata, da parte dei musici, nei confronti delle musica stessa e del pubblico. Ho sentito dire a critici e amici che Yorke sacrifica in parte la precisione per la partecipazione, la bolgia. Ed è vero, palpabile. Tuttavia, alcuni pezzi escono distrutti da questo sacrificio alla bolgia elettronica (le cose, qui vanno insieme: più rumore e meno dettaglio nella versione più caciarona mai sentita di Everything in its right place, per non dire di Idioteque in chiusura. Bodysnatchers pure affoga nella bolgia. Ed i due inediti presentati sono poco più che rimasti in questa massa indistinta – esplosiva e confusa).
Conosco ogni battito di The gloaming, la canto di sera a mia figlia per addormentarla – l’adrenalina che mi torna indietro compensa ogni cosa. 15 steps è il battito, il ritmo fatto morceau. Ma il pezzo più bello (per bolgia ed esecuzione) è Weird fishes. Ed è un pezzo, come anche Nude, All I need e Jigsaw falling into place (tutti pezzi da In rainbows non suonati in quel di Alemannia) , in cui accade qualcosa in mezzo: il germe del divenire, della dinamica, viene, prende: modifica, cambia e esplode.
Tra i pezzi più vecchi – laddove il rivivere è fatto ostaggio della memoria come nostalgia – c’è Lucky (esecuzione ironica o come svogliata), Paranoid android immancabile e spinta (bella caciara), ed infine, come la più troia delle madeleines, How to disappear completely. La troia delle lacrime.
Esco dall’arena Alemanna. La mia fame è stata quasi saziata. Lamento l’assenza dalla scaletta di due pezzi tragici (I might be wrong e The butcher). Che dico due, quattro (You and whose army e Life in a glass house)! Cinque (Spinning plates)! Sono uomo da Amnesiac – rimuovo i dettagli, reinvento o dimentico.
La fame è insaziabile. Nel rivivere quella musica (drama), il ricordo (l’attesa) ha superato, seppure di poco, la sua esecuzione (il concerto, l’evento). È l’età, la finitezza – o è che la memoria è la più crudele di tutte.
Fratello mio, sarei sciocco se dicessi che a Roma, al loro concerto, non attendessi che iniziassero a suonare qualche pezzo di Kid A. Quando poi è partito proprio Kid A (la chanson, mon dieu!) è accaduto – il rivivere, dico. Eppure non c’è stata subito chimica, eppure ero nella bolgia, là, il fiato sul collo di quello avanti, che voleva che smettissi di eccitarmi… poi è stato I might be wrong, venuta dopo There There e un’altra che non ricordo. E’ stato lì che si è aperto tutto il rivivere, la memoria, è andata – e chi riusciva a fermarla. Eppure l’acme è stata quella Exit Music, certo la più inaspettata, ma la più commovente, letteralemente.
Insomma l’impatto c’è stato, il suono, le luci, Tom Yorke che si da, Greenwood che campiona dal vivo le vibrazioni dell’aria, tutto molto forte.
Che cosa mancava? – Non voglio disfare, no, ma qualcosa mancava. Forse troppe foto del pubblico, le chat accese e i telefonini continuamente puntati verso il palco, la folla che non è più la folla… c’è stato un momento all’inizio, in cui tutto il pubblico mi è parso inutile, così come mi è parso uno spreco comprare un biglietto e poi passare a vedersi il concerto dall’iphone – che si vede meglio? Ecco, questo mancava: qualcuno che vietasse la riproduzione, qualcuno che vietasse di vedere attraverso un terzo occhio. Anche la folla, ormai, non è più la folla che conoscevo… Insomma, perchè ci sia quel rivivere di cui parli, ci sarà sempre e solo bisogno del proprio corpo e non di protuberanze cibernetiche (“rozzi cibernetici signori degli anelli” o degli iphones!).
Rivivere cosa, poi ? – uno si dovrebbe chiedere. la giovinezza mitica e eterna, in parte. Forse in ciò proprio sta il fatto tragico – la puzza di morte, la bella puzza di morte.
E poi un po’ al di là di questo (meno troia e più danzante) c’è la musica stessa, il battito.
Lasciarsi inseguire dalla morte, distanziarla e attendere che si faccia di nuovo vicina, questo – chez moi – può essere davvero tragico. La musica, mi dico ultimamente, voglio quella che conosco.