Questa lingua, il francese, non l’ho scelta io. Mi è stata imposta dal caso, dalle circostanze. So che non riuscirò mai a scrivere come scrivono gli scrittori francesi di nascita. Ma scriverò come meglio potrò. È una sfida. La sfida di un’analfabeta.
Se il senso di estraneità e l’erranza sono i temi centrali dell’intera produzione di Ágota Kristóf, la scrittura potrebbe essere definita come il passaporto che permette all’autrice un contatto (precario) con il prossimo, il grimaldello utilizzato per entrare (o per provare a entrare) in un qualsiasi contesto sociale e lo specchio che l’autrice usa per guardare in se stessa e riflettere sulla propria condizione.
L’analfabeta sembra nascere da questa esigenza: riflette con dolore e insospettato umorismo sul concetto di esilio, sulla difficoltà di comunicare e inquadrare tale condizione e sulla necessità di reinserirsi, di ristabilire le proprie coordinate esistenziali. Scrivere, per la Kristóf, diventa un modo per vergare il proprio essere, per ristabilire il proprio posto nel mondo, nella comunità umana, nella vita, in se stessa.
Essere in esilio non comporta solo la lontananza dalla propria terra e dei propri affetti, ma anche doversi ambientare in un luogo ostile, oltre che sconosciuto; anzi, forse ostile in quanto sconosciuto. La familiarità è una precaria forma di serenità che va conquistata sul campo, attraverso la ricerca di una lingua che deve farsi mappa per imparare a muoversi in un nuovo posto, in una nuova cultura, con nuove persone che accolgono solo fino a un certo punto coloro a cui danno asilo.
All’inizio, non c’era che una sola lingua. Gli oggetti, le cose, i sentimenti, i colori, i sogni, le lettere, i libri, i giornali, erano quella lingua.
Non avrei mai immaginato che potesse esistere un’altra lingua, che un essere umano potesse pronunciare parole che non sarei riuscita a capire. Perché avrebbe dovuto farlo? Per quale motivo?
La lettura e la scrittura sono mezzi per raggiungere una comprensione dell’altro e offrire una comprensione di sé: il linguaggio deve essere reinventato, deve imparare a essere abbastanza neutro da muoversi ovunque e abbastanza potente da trascendere qualsiasi confine e farsi universale, adattandosi a ogni contesto.
La lingua di Ágota Kristóf si conferma una lingua ridotta ai minimi termini, una lingua essenziale alla comunicazione eppure efficacissima: è la lingua di un’ospite che si riconosce nel suo stato, consapevole dei limiti e proprio per questo straordinariamente ricca, allusiva, personalissima nella sua apparente semplicità.
Una lingua limata, sfrondata ma al contempo carica in ogni parola, in ogni virgola, in ogni picco del suo andamento scarno e spezzato, di un senso, di un significato, una lingua che sommerge il lettore e sommergendolo lo ripulisce, lasciandolo, alla fine, privo di sovrastrutture, con i sensi reattivi, con la certezza che ogni parola voglia dire esattamente quello che vuole dire, e niente altro.
L’identità autoriale si fonde nella parola esattamente come il pensare e il sentire si fondono nell’azione, e il risultato è uno stile aspro e rigoroso, che graffia e al contempo intenerisce.
Viene il sospetto che sia il linguaggio convenzionale a esiliarci dal nostro io, e che sia solo il contatto con la lingua di un altro, una lingua necessariamente straniera in un paese straniero, a rivelare a noi stessi ciò che siamo e, di conseguenza, ad affratellarci tutti.
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Agota Kristof
L’analfabeta. Racconto autobiografico
Trad. it. Letizia Bolzani
Bellinzona, Edizioni Casagrande, 2005
pp. 53