È il tuo turno
di Alberto Laiseca
Titolo originale Su turno, 1976, 2010
Traduzione di Francesco Verde
Revisione di Livio Santoro
Maria Cristina Cavassa ha tradotto la postfazione di Hernán Bergara
Prima edizione dicembre 2017
Edizioni Arcoiris – Collana: Gli eccentrici, a cura di Loris Tassi
136 pagine
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Quella mattina, Juan Carlos Humbolt aveva un incarico pesante. Il più pesante della settimana, in realtà. Ore e ore davanti a un microfono e a una folla di iscritti al Sindacato che pendeva dalle sue labbra, come in ascolto del Verbo Divino (mistica delle probabilità): perché era lui a distribuire il lavoro.
Juan Carlos Humbolt, quest’uomo grasso e sudato che sembrava voler parlare fino al giorno della resurrezione della carne, aveva dunque il potere di dare o no da vivere alla gente là sotto. Ma un potere, beninteso, del tutto impersonale. Altri avevano deciso a chi dare lavoro e a chi no quel giorno, basandosi principalmente sull’anzianità dell’iscritto, sul numero di quote versate ecc. Altri, non lui. Lui era un semplice impiegato, un triste e insulso mezzemaniche con un unico pensiero nella testa grondante di sudore: tornare a casa, sedersi a bere una birra e accendere la tivù.
Era, Juan Carlos, un uomo buono e pacifico, incapace anche soltanto di castrare un uccello o strappare gli occhi a un elefante. In date circostanze avrebbe potuto, questo sì, votare a favore di una qualche mozione per segare le gobbe ai cammelli, ma in totale buonafede, presumendo cioè che i cammelli dovessero sentirsi molto soli e infelici – per analogia con gli uomini gobbi, notoriamente sgraditi alle donne. Insomma, avrebbe appoggiato la mozione per pura bontà di cuore, sorvolando sul fatto che ai cammelli le gobbe invece servono, per immagazzinarvi l’acqua necessaria ad attraversare il deserto. L’estetica prima di tutto.
«Phillip Harper: presentarsi domattina alle sei in via tale numero tale. Timoteo Rodríguez: presentarsi stasera al ristorante in viale…». (“Che caldo! Mi farei volentieri una birra!” / color oro: come il manto, forse, dell’omonimo imperatore?). «Frederick Heller: presentarsi domattina alle sei, dodicesima strada…». (“Meno male che ho quasi finito e tra un po’ me ne torno a casetta; ho già detto a Catherina di aspettarmi con un bel boccale pieno: boccale le ho detto; non bicchiere, bottiglia o lattina. E lei sa quanto mi girano se non fa come le dico. Lo sa che ci tengo, che è una mia fissazione: un boccale e nient’altro. Io, la birra, la bevo solo così”). E mentre Juan Carlos pensa a questo, la gente là sotto non pensa che al lavoro, perché quando non sai se ti daranno o no un lavoro, è soltanto a quello che pensi. Anche se nella testa una voce ti ripete: “Ma quando la finirà di parlare e di romperti l’anima? Quando ti lascerà in pace e potrai andartene a casa? Non vorrà continuare così fino al giorno del giudizio?”. E un’altra, allo stesso tempo e contraddittoriamente: “Magari parlasse tutto il giorno, magari non la smettesse più! Perché se smette e non t’ha chiamato, dovrai andartene a casa senza lavoro e tornare domattina. Se continua è uno schifo, certo. Ma se smette è peggio”. «John Silverstein: presentarsi questa sera…».
In fondo alla sala, un lieve movimento ondulatorio, come quando si lancia un sasso in uno stagno. Il disturbo si propaga: piccoli cerchi che si allargano sempre più. Un uomo è appena entrato e sta aprendosi un varco tra la folla ferma a fissare il ciccione, che parla al microfono e sogna (sogni d’oro e innocenti: anche imperiali, perché no?). Il tipo sgomita, avvicinandosi al microfono. Gli altri lo lasciano passare, perché non è stando più vicino al ciccione che otterrà prima il lavoro; il lavoro lo avrà solo quando vorranno quelli più in alto, quelli che comandano davvero. A due metri e mezzo dal ciccione, il nuovo arrivato si pianta e lo guarda per un attimo. Poi tira fuori un revolver, gli spara quattro colpi e, una volta sicuro d’averlo steso, si infila la canna in bocca e si fa saltare le cervella, tra lo stupore generale. Tutto in non più di quattro secondi.
[Continua…]
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Come afferma César Aira, Alberto Laiseca (1941- 2016) è stato non solo un grande scrittore, ma «uno di quegli inventori della letteratura, unici e imprescindibili, con i quali tutto finisce e ricomincia di nuovo». Tra le sue opere più significative: Le avventure di un romanziere atonale, Uccidendo nani a bastonate (1982), e È il tuo turno (1976 – 2010) (tutti e tre pubblicati dalle Edizioni Arcoiris), El jardín de las máquinas parlantes (1993) e Los sorias (1998), libro monstre di 1.300 pagine definito da Ricardo Piglia il più importante romanzo argentino dopo I sette pazzi (1929) di Roberto Arlt.
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Francesco Verde. Traduttore editoriale free-lance, tendenzialmente ligio alla regola fortiniana (“Soprattutto non troppo genio”).
Suoi ultimi lavori: ‘Tungsteno’ di César Vallejo (Sur), ‘L’aldilà’ di Horacio Quiroga (Arcoiris), ‘Le forze misteriose’ di Leopoldo Lugones (Lindau), ‘È il tuo turno’ di Alberto Laiseca (Arcoiris), ‘Vite vulnerabili’ di Pablo Simonetti (Lindau).
Dal gennaio 2016 all’aprile 2017 ha curato e tradotto, per il blog NightReader e su licenza dell’autore, una serie di pezzulli “on writing” di Joe R. Lansdale.
Attratto dalla inesatta scienza degli etimi (sunt nomina consequentia rerum?) e perciò compulsatore di lessici, glossarî e calepini. Devotissimo, ancorché irreligioso, a sant’Isidoro di Siviglia.
Bibliofilo temperato: senza ardori collezionistici.
Assiduo e tronfio partecipante ai quiz letterarî di ‘Fahrenheit: i libri e le idee’ (Rai Radio 3). Vinti, a tutt’oggi, 72 volumi.