Gradinata di gioielli
di Alberto Laiseca
Uccidendo nani a bastonate
Edizioni Arcoiris, 2017
Collana: Gli Eccentrici, a cura di Loris Tassi
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Il bey della Turchia, Hashyud, fece costruire sette palazzi sovrapposti in cui rinchiuse, l’una dopo l’altra, le sue sette consorti con tutti i loro beni. Ognuna gli durava più o meno due anni. Quando si stancava di lei le regalava vestiti magnifici, a mo’ di corredo funebre, e poi la imprigionava in un palazzo, eretto sopra il precedente.
Non faceva a tempo a prendere moglie che già, senza che colei che un giorno lo avrebbe occupato ne sapesse niente, ordinava di iniziare la costruzione di un nuovo gioiello architettonico. Ma poiché, nel corso degli anni, erano misteriosamente scomparse ben sei spose – numero che coincideva esattamente con quello degli appartamenti di cui si componeva l’immenso edificio –, la settima si insospettì. Per evitare la sua triste sorte, cercò di adulare il bey, ma fu inutile. Quando arrivò il suo momento seguì la strada delle altre.
I palazzi erano tutti decorati in filigrana; autentiche perle, gioie magnifiche, tempestate di pietre preziose. Erano ben illuminati e dotati di una cospicua scorta di combustibile per le lanterne, nonché di candele; c’erano inoltre cibo e acqua in quantità tali da consentire all’infelice di sopravvivere per due mesi. Nelle pareti c’erano delle finestrelle, così che la vittima non morisse per asfissia, ma erano sbarrate. Quando il settimo gradino di quella straordinaria scala fu terminato e occupato dalla rispettiva consorte, il bey licenziò gli architetti, ritenendo che sette fosse un numero sacro e pertanto non dovesse essere calpestato.
Alla morte del bey, il suo successore ordinò di aprire una breccia nel muro di ciascuna delle costruzioni e portò alla luce gli scheletri delle vittime; non ne furono trovati due nella stessa posizione, il che indicava che ognuna delle donne doveva aver affrontato il problema della propria dipartita in modo diverso. Tutte – compresa la settima – sperarono a un certo punto che prima o poi qualcuno le avrebbe tirate fuori da quella prigione.
Alcune pensarono che fosse solo uno scherzo crudele, dal momento che già in passato il bey aveva dimostrato di saperne architettare di terribili. Ad altre – chi non commette un innocente peccatuccio di tanto in tanto – venne il sospetto che si trattasse di un castigo; così aspettarono che il tempo addolcisse la sentenza e placasse la collera del principe. Tutte, senza eccezione, lasciarono un diario scritto più o meno lungo – il bey aveva messo a loro disposizione penne, carta e inchiostro in abbondanza. I più simili erano quelli della prima e dell’ultima moglie, la settima. Furono infatti le uniche, per chissà quale ricorrenza numerica, a intuire fin dall’inizio la fine che avrebbero fatto; ma si uccisero solo quando venne a mancare il combustibile per le lampade. Il giorno in cui si tolsero la vita, avevano ancora acqua e cibo.
La seconda si impiccò con un lenzuolo.
La quinta diede fuoco alle tende e al letto, con il duplice proposito di trasformarsi in una pira bonzoica e amareggiare la vita al bey distruggendo il suo capolavoro architettonico. Non aveva tenuto conto della furbizia del despota che, prevedendo la sua totale mancanza di umorismo, aveva ordinato di blindare tutte le stanze e installare in ognuna di esse una cellula fotoelettrica che fin dalle prime fiamme avrebbe fatto scattare il sistema antincendio. C’è da dire, infatti, che uno degli alchimisti del bey aveva scoperto l’elettricità; il delirante sovrano, che aveva capito immediatamente l’enorme potenziale di quella nuova invenzione, aveva costretto il saggio ad avviare un processo industriale destinato, e rigorosamente limitato, a realizzare il suddetto impianto. Non appena il sistema antincendio fu terminato, il bey lo fece uccidere – l’alchimista, naturalmente – così che l’elettricità non cadesse in cattive mani. Prese la precauzione, questo sì, di conservare il progetto per i palazzi futuri*.
La quarta si decapitò.
La terza si tagliò un seno.
La settima morì di fame. Essendo molto parca con l’acqua, riuscì a farla durare fino all’ultimo. Fin da quando era bambina era stata abituata a bere, in inverno, solo il brodo della minestra e il contenuto di due tazzine di caffè al giorno, e in estate poco di più. Soffrì un po’ la sete solo negli ultimi giorni di agonia, cosa a cui ovviò facendosi un taglio in un braccio e bevendo il suo stesso sangue; questo le permise di resistere con relativa facilità altri cinque giorni. Stava per praticarsi una nuova ferita, quando morì di fame.
All’inizio ho detto che questa donna si uccise. Ne sono tutt’ora convinto, sebbene il mio racconto sembri contraddire questa affermazione.
La sesta si mise a studiare la magia a ritmi frenetici sperando di riuscire ad abbattere la parete con la sola forza di volontà. Il bey le aveva lasciato diversi libri sull’occultismo. Ma uno studio del genere è molto lungo e laborioso, e a lei mancò il tempo di portarlo a termine. Non riuscì nemmeno a fare la cosa più semplice: comunicare telepaticamente con il tiranno per chiedergli di tirarla fuori di là; in ogni caso, anche se ci fosse riuscita, lui non le avrebbe prestato la benché minima attenzione. L’aveva ascoltata già abbastanza nei due anni in cui erano stati sposati.
La prima mangiò tanta carta da morire per un bolo fecale. Iniziò divorando i fogli bianchi e continuò con quelli su cui aveva scritto il suo diario, partendo dall’inizio: ragion per cui, le persone che ritrovarono il suo scheletro poterono leggerne soltanto le ultime pagine.
Il bey avrebbe potuto continuare a costruire un palazzo sopra l’altro. Preferì lasciare l’edificio così com’era; proprio come uno scrittore, realizzò delle Architetture Esemplari. La Tecnocrazia come un gioiello nel loto.
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Come afferma César Aira, Alberto Laiseca (1941- 2016) è stato non solo un grande scrittore, ma «uno di quegli inventori della letteratura, unici e imprescindibili, con i quali tutto finisce e ricomincia di nuovo». Tra le sue opere più significative: Le avventure di un romanziere atonale e Uccidendo nani a bastonate (1982), È il tuo turno ( 1976 – 2010) (tutti e tre pubblicati dalle Edizioni Arcoiris), El jardín de las máquinas parlantes (1993) e Los sorias (1998), libro monstre di 1.300 pagine definito da Ricardo Piglia il più importante romanzo argentino dopo I sette pazzi (1929) di Roberto Arlt.
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Lorenza Di Lella è traduttrice editoriale freelance. Ha dato voce, fra gli altri, a Emmanuel Carrère (Io sono vivo, voi siete morti, Adelphi), Teresa Cremisi (La Triomphante, Adelphi), Boileau e Narcejac (Le incantatrici, Adelphi), B. Quiriny (La biblioteca di Gould, L’orma), M. Tremblay (Il cuore a nudo, Playground), Non piangere di Lydie Salvayre (L’asino d’oro). Nel 2012, insieme a G. G. Greco, ha ricevuto il premio Procida per la traduzione del Barone sanguinario di V. Pozner. È redattrice della collana «Gli Eccentrici» delle Edizioni Arcoiris di Salerno.
* Avrebbe potuto utilizzare un sistema più semplice: una serie di spruzzatori automatici azionati dalla variazione di temperatura. Quando la temperatura avesse superato un certo livello, il materiale speciale usato per otturare i fori degli spruzzatori si sarebbe fuso, e l’acqua, non avendo più nessun ostacolo a trattenerla, avrebbe potuto scorrere liberamente.
Ma questo sistema, che pure era molto meno complesso, al bey non piaceva perché non lo riteneva all’altezza delle sue favolose intenzioni.