Parte conclusiva della prima lezione di Oscar Amalfitano – dopo aver giustificato la bibliografia scelta: Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, Schopenhauer; Sermoni tedeschi, Eckhart; I diavoli di Loudun, Huxley; Dispense: prolegomeni a una dossografia asistematica in ordine al riduzionismo metafisico delle Upaniṣad, Amalfitano medesimo; Dialogo tra Plotino e Porfirio, Leopardi; Sade prossimo mio, Klossowski; 20 pagine a caso di L’essenza del nichilismo, Severino; Carteggio tra Johann Caspar Schmidt e la propria sorella – del corso di Filosofia teoretica all’Università di Santa Teresa – tenuta nell’anno accademico precedente al testo di geometria da egli stesso appeso al filo stendipanni in giardino in ragione di un aneddoto tratto della vita di Marcel Duchamp.
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Qui bisogna intenderci. Ve lo dico da subito: una pura ontologia dice Schopenhauer – sempre! – ovvero produce Upanishad, produce cioè una visione dell’essere del tutto esatta, nella quale l’esistere è senza scopo. Capiamoci: esistere senza scopo è esistere senza senso e senza speranza e l’esistenza senza scopo e senza speranza è necessariamente dannata. In verità è la dannazione. L’ovvia conseguenza di questa dannazione è il porre termine alla vita: il suicidio. Schopenhauer non ha validi argomenti contro il suicidio, in questo non è lucido. Il pensiero indiano risolve la cosa con la più stupida superstizione: samsara, karma, il ciclo delle reincarnazioni, cioè una forma di credenza, infantile per altro e comunque inaccettabile: in sostanza restituiscono senso al mondo ovvero all’agire nel mondo – al quale l’avevano radicalmente tolto – con l’aldilà: questo non inficia affatto la speculazione, né l’ortoprassia, semplicemente le relativizza, ovvero inibisce la possibilità di concepire il tutto come sistema coerente e esaustivo. C’è uno scarto dall’ontologia alla soteriologia (in Schopenhauer: conosci più che puoi, vuoi meno che puoi), dall’ontologia all’ortoprassia, dall’ontologia alla morale, questo scarto è incolmato e incolmabile.
Ma tutto questo è scontato e banale e detto meglio e in modo ben più robusto e affascinante in mille testi che ora non sto nemmeno a citare, il punto è un altro: raggiunta l’illuminazione ontologica, ovvero avendo portato a compimento il pensiero su ciò che è, che fare?
L’esistere è relativo, cioè non ha senso senza il mondo. Non solo superficialmente si esiste nel mondo, ma l’esistenza è mondo: è semplicemente il versante soggettivo del mondo. Difatti il pensiero che sente (quindi non solo pensa, il che non è poco) e pensa l’esistenza, il pensiero esistenzialistico, è del tutto inappropriato per afferrare la questione: esistenza e mondo son due poli di un unicum o li afferri insieme o non li prendi affatto.
La comprensione dell’esistenza è però stata per sua natura tendenzialmente introversa e dal mondo s’è difesa e del mondo ha fatto una valle di lacrime e un deserto e un diavolo e un mostro e una prigione.
Io dico: non c’è nessuna ragione per rifiutare il suicidio a priori. Nessuna: è una via percorribile. Una via che si può prendere tranquillamente una volta portato a conclusione il pensiero ontologico. Ma se questa via non si prende, e questa via non è necessaria, allora non va guardata l’esistenza da sola, va guardata l’esistenza nel mondo e in quanto mondo e va anche presa in considerazione la possibilità che il senso non sia mai ultimo, ma sempre relativo, e che questo senso sia da trovare nel mondo. No, non nel senso sociale. Sto intendendo realtà per mondo: la vita è qualcosa che si svolge, che si dipana, nel mondo e in quanto mondo, allora in questo dipanarsi, in questo svolgersi, è possibile rintracciare il senso. Il pensiero va deconcettualizzato, è troppo metafisico, non capisce niente.
Il mondo è lo spazio in cui produrre, cercare, azionare il senso. Il rifiuto del mondo è un’azione. Non c’è vita senza mondo. Qualunque vita, anche la più ascetica, è mondo.
Il senso appartiene alla vita, non ai concetti, i concetti sono un sub-prodotto della vita, mai la vita è comprimibile nei concetti: un abbaglio, nulla più.
Ecco il dato primo: non il mondo è, ma il mondo c’è, non io sono, ma io ci sono. Non ha nessun senso parlare o pensare ciò che è, ha senso solo ciò che c’è.
La realtà c’è: ecco il fondamento primo. Io e il mondo dentro e fuori di me ci siamo. Oggetto e soggetto non possono mai essere separati, sono i due volti della realtà. Chi pensa solo il soggetto non sta tenendo conto della realtà. Ma per oggi ho anche detto troppo – volendo, le ultime considerazioni sono anche fuori tema. Ammesso che un fuori tema si dia. Andate comunque. Andate, riprendiamo domani.