[in fondo]
Percezione della tradizione. Che cos’è per un europeo la tradizione? (Il fatto stesso di vivere in una terra chiamata come una vacca mitologica, potrebbe spiegare una porzione sostanziale del problema). E come l’europeo vede la sua tradizione, dopo il tempo trascorso a scolarizzare i secoli (cioè gli uomini), nelle terre aliene che non sono l’Europa, ingenerate nel mito, inesistenti nelle profezie e nelle lettere to the good God? E viceversa come ci vedono loro, le cui identità sono comunque legate a quanto in questa waste land è stato seminato?
O forse la domanda va posta diversamente, in un modo meno criptico: è ancora possibile pensare a una tradizione in senso classico[1], cioè come quella pasta molle che ogni scrittore modella (la metafora di colui che plasma, crea, fa parte proprio del modo classico di figurarsi il creatore di qualcosa) e dentro la quale egli ripone il suo stesso seme dialettico? E non è questa antica definizione di tradizione in stretta relazione con quanto è stato definito struttura?
Della struttura. Ogni scrittore la usa a proprio piacimento, anche chi dice di non usarla. In effetti non se ne può proprio fare a meno, n’est ce pas? Si può, però, evitare che diventi il problema, il quid che da il giro al movimento e che in quanto quid è inspiegabile. Si può pensare il moto generale (ciò che tradizionalmente è detto struttura), ma non come questo immediatamente modificherà il suo costituente e deterrente: la parola.
Borges “Nove saggi danteschi”. Qualcuno pure deve fare il lavoro sporco!
Il racconto di Cortàzar. Struttura flessibile, groove, assoli di jazzista.
Il racconto di Kafka. Struttura poco ritmata, ma psichedelica, costruita per dire cose che non dimostrino sé stesse o altre (la parola come terza esclusa).
[1] È necessario che la stessa parola classico, in qualche modo, venga messa in stand-by da tutti i parlanti.