Ted Bones si trovava di fronte a una struttura che sembrava perfettamente cubica. Era alta, e di conseguenza larga, non più di cinque metri. Un’apertura rettangolare, dal suolo verso l’alto, su una facciata. Come una porta. Su uno dei lati una piccola finestra quadrata, in alto. Né la porta né la finestra avevano infissi. Non riusciva a distinguere cosa ci fosse all’interno, sebbene un debole sole illuminasse la radura. L’uomo rimase fermo a osservare quella architettura stramba, così semplice e forse ridicola. Gli dava l’impressione di essere una casamatta squadrata. Decise di trarre un lungo sospiro ed entrarvi. All’interno, un mondo: decine di quadri appesi ai muri, un piccolo letto sfatto, dalle lenzuola consunte. Un tavolo di legno bucherellato, pazientemente, dai tarli. Sopra, un sigaro fumato per metà, ancora acceso. Sulla destra, una biblioteca abbracciava un gran numero di libri di varie dimensioni. Bones ne prese uno a caso. Territorio giapponese era il suo titolo. Lo aprì, soffiò via la polvere che c’era sopra, si adagiò leggermente su quel letto infelice e iniziò a leggerlo. Era un libro assurdo, incoerente, iniziava con una descrizione degli effetti dell’atomica su Nagasaki, non solo sui corpi delle persone, ma sulla loro società e…
Quando si svegliò sentì il peso del grosso volume premergli l’addome in maniera innaturale. Scrutò ancora per qualche minuto quella struttura squadrata dall’interno. Da fuori non sembrava essere così grande. Vi era persino una piccola nicchia con un lavandino, uno specchio e un piccolo gabinetto. Si liberò dei suoi liquidi e analizzò con sguardo inquisitore il suo volto scavato, districando lo sguardo tra le macchie di ruggine e di sporco presenti sullo specchio. Pensò che quella cornice decadente fosse adattissima al suo aspetto malconcio. Fu distratto da un rumore sordo proveniente da sopra di lui e solo allora si rese conto di aver completamente dimenticato il piano superiore. Se c’era una finestra ci doveva essere anche una stanza. A rigor di logica. E sembrava anche che ci fosse qualcun altro. Salì con calma le scale e si ritrovò in un basso soppalco di legno. Era alto poco più di lui, non doveva superare i due metri. Su una poltrona, nella penombra di un tramonto purpureo, c’era un enorme gatto rosso. Lo guardò con i suoi occhi profondi e gli disse – Di là – girando il piccolo muso felino verso l’apertura quadrata che si trovava alla destra dell’uomo. Affacciatosi, Bones vide una casetta identica a quella in cui si trovava. In realtà ne vide solo una facciata, senza aperture, ma intuì dovesse essere identica. Il piccolissimo particolare, non trascurabile, è che prima non c’era.
Bones arrivò in quella radura la sera prima, dopo il naufragio della piccola barca da crociera con cui era in viaggio di nozze con sua moglie Margareth, e dio solo sa quanta strada dovette percorrere a piedi dalla spiaggia. E la sera prima la radura era completamente deserta. Non c’era traccia neanche di quella prima struttura che stava visitando. Ora ce n’erano addirittura due. E un enorme gatto rosso. Restava da capire se all’interno di quella seconda casetta ci fosse qualcosa di più interessante, e magari utile. Un telefono, ad esempio.
Vista di fronte la seconda casa era uguale. Con la porta sul davanti e la finestra sulla facciata che dava ad ovest. Entrò. Tutto era uguale. Letto logoro, tavolo tarlato, biblioteca con libri, forse gli stessi. Sul letto però c’era un libro aperto, del tutto uguale a quello aperto da lui, ma intitolato semplicemente Cuba. L’avvocato lo prese in mano alla pagina in cui era aperto e lesse qualche riga distrattamente subito lo posò nuovamente sul letto. “Possibilità, due punti”, si disse “Sogno o son morto”. Poi notò che non vi era nessun sigaro fumante, né alcun posacenere, ma su una sedia era appeso un reggiseno di pizzo rosso, come quelli che usava sua moglie e che tanto lo mandavano su di giri. “Pur sempre un passo in avanti”. Fece le scale e raggiunse il piano superiore. Un bambino indossava una giacca blu dei nordisti della guerra civile e imbracciava un lungo fucile. Era in piedi con lo stivale destro poggiato su uno sgabellino, e disse senza guardare l’uomo negli occhi – Molti ne uccidemmo di sorpresa, ma scoprimmo che avevamo ucciso solo bambini, e molti altri vennero da dove ci sono bambini che si apprestano a vivere. – Si avvicinò alla finestra e sparò fuori. Un urlò straziante di donna coprì le distanze. “Margareth!”, pensò Bones affacciandosi. Dalla finestra vide la facciata di una casetta identica a quella in cui si trovava, e identica alla prima.
Nella terza casamatta Margareth era stesa sul letto. Indossava una gonna nera, elegante. Un reggiseno di pizzo rosso e l’addome nudo, coperto in parte solo dal sangue. I suoi occhi erano persi nel nulla, dalla sua bocca usciva del fumo grigio che aveva la stessa consistenza di quello lasciato dal sigaro, ormai consumato, che si trovava nel posacenere sul tavolo. Bones versò lacrime amare. Ma dopo qualche secondo capì. Decise di capire. Salì di sopra, ancora una volta, per la terza volta. Ad accoglierlo un nano, magro su dei trampoli. Faceva una gran fatica a stare piegato tutto il tempo per non urtare la testa al soffitto. Gli offrì una pillola color rosa e lo invitò, dopo che l’uomo deglutì, a guardare ancora una volta fuori dalla finestra. Dalla terza finestra. Tutto uguale.
«Tutto uguale» disse Bones.
«Tutto uguale? Ne sei sicuro?» chiese il nano.
«Ancora una parete. Ancora una di quelle case. È la quarta che vedo. Appaiono solo quando entro in una di esse e salgo al piano superiore. Poi scendo e me la trovo davanti, ci posso entrare. Ma appaiono una per volta. È come se le inventassi io.»
«Prova adesso» disse il nano.
Bones scese e si trovò davanti una schiera di case, tutte uguali, fatte in quel modo semplice. Architetture minimali fuori, piccoli universi all’interno. Ognuna di esse conteneva delle possibilità, o delle speranze, o semplicemente il nulla. E ora lui poteva scegliere, o almeno illudersi di poterlo fare. Come ogni uomo adulto quando apre gli occhi dopo una lunga notte agitata.
La lunga fila sembrava non avere fine, giungeva all’orizzonte e probabilmente lo superava perdendosi nell’alba rassegnata. Il cadavere di sua moglie, in piedi alle sue spalle, accarezzava l’enorme gatto rosso, mentre il bambino e il nano, entrambi sui trampoli, iniziavano una danza d’altri tempi.