Mica lo so bene com’è che è successo. Che un giorno sei per strada, fumi una sigaretta, guardi la gente che passa e a un tratto sbuca una con un gran culo e sbam.
Gonna aderente e chiappe sode. Anche tacchi a spillo che, si sa, conferiscono sensualità al passo, slanciano la gamba e sorreggono il fondoschiena. L’ho letto in un inserto di Donna Moderna.
Non che di solito legga gli inserti di Donna Moderna, di grazia, ma dal dentista gli inserti di Donna Moderna possono salvarti l’anima dal ronzio del trapano che squittisce oltre le pareti divisorie dello studio.
Comunque, dicevo, gran culo.
Paffuto, tondo, scolpito, degno del Canova.
È quasi un quarto d’ora che lo guardo, ehm, pardon, che la guardo. Lei è inchiodata lì, di fronte alla vetrina di quella boutique, a contemplare la leggiadria di un abito in esposizione.
Indecisa, pare pensarci un po’, guardandosi attorno come se le mancasse qualcuno a cui chiedere consiglio. Costa troppo? In che occasione potrei indossarlo? Come mi starebbe addosso?
Oddio, con quel fisico le starebbe bene anche un sacco di iuta per le patate.
Fissa, ispeziona, scruta i particolari, si gira, osserva svagata la gente che passa lungo la via dello shopping, poi ritorna con lo sguardo su quella stoffa plasmata da mani e forbici esperte.
Che fare?
Gliela si legge negli occhi, la curva sensuale dell’interrogativo.
Alla fine sembra convincersi ed entra.
La boutique è una di quelle eleganti, riservate a signore della gente che conta. Che conta cosa, poi? Conta i soldi, di certo.
Le vetrine esibiscono perlopiù costosi abiti da cerimonia. Marmi decorativi, grandi lampadari, commesse in uniforme: è tutta un’ostentazione di lusso. Finto, perlopiù.
Chiede qualcosa alla signorina che la accoglie.
Io la osservo dalla strada, abbastanza distante da non farmi notare.
Indica con sicurezza l’abito esposto sul manichino.
Nessun dubbio. Nessun ripensamento.
Mi sono sempre piaciute le donne sicure di sé.
La ragazzetta balbetta qualcosa, che non riesco a percepire dal labiale.
Poi si sposta verso la vetrina. A prendere l’abito, suppongo.
Decido, di entrare.
Dalla strada rischio di perdermi il meglio.
La boutique si bea anche di un reparto uomo. Girerò tra le giacche e i pantaloni; e magari troverò anche qualcosa che mi piace.
Spingo la porta, che non fa in tempo a richiudersi alle mie spalle e già mi ritrovo la ragazzetta addosso.
«Buonasera, posso esserle d’aiuto?» frigna con modi affettatamente servili.
Blatero qualcosa sulla necessità impellente di un gessato e intanto la squadro.
Non la commessa, per carità.
Lei.
Si guarda attorno spaesata. Anzi, scocciata. Per l’attesa, aggiungerei.
Tamburella con il piedino.
Sandali costosi, con qualche pietra incastonata sui laccetti. Le unghie perfettamente smaltate di rosso rubino risaltano nonostante il nylon della calza, una calza talmente velata da non esistere.
Lei non mi vede e io cerco di non attirare l’attenzione.
Mi libero della commessa con un dribbling di stratagemmi verbali e m’intrufolo nel reparto uomo. Che è poi un tutt’uno con quello donna. La ragazzetta torna da Lei sussurrandole un buon condensato di scuse e smancerie. Poi scatta al piano di sopra.
Cerco di mimetizzarmi con le grucce colme di vestiti, mentre entra un signore.
È grosso, altero, con un costoso completo da boss della mala.
È il proprietario della boutique.
Saluta la cliente con un inchino esagerato, eccessivo, quasi stucchevole. È evidente che si tratta di una melensaggine per avvicinarla e per squadrarla meglio, a un alito di distanza.
Sbaverebbe, se gli mancasse giusto un gradino sulla scala evolutiva. Ma è rimasto comunque indietro rispetto all’homo sapiens, a giudicare dallo sguardo depredante che s’insinua in ogni piega del vestito di Lei.
Lei appare gratificata, e si lascia adulare, con sufficiente distacco, mentre io soppeso senza interesse vestiti che dovrei pagare con un mutuo decennale.
Scende la ragazzetta con il vestito, quello che era in vetrina, snocciolando qualche frase fatta sulla taglia e sull’inopportunità di aggiustamenti.
Lei sfiora la stoffa, ne tasta la consistenza, ne apre la gonna a ventaglio, ne ammira la fantasia.
Sembra soddisfatta, non resta che provarlo, risponde con gli occhi.
Le due donne si dirigono verso un camerino, mentre l’uomo si gode il panorama da dietro.
Butta l’occhio sul fondoschiena di lei, aggiustandosi gli occhiali sul naso, e comincia a sudare. Neanche troppo metaforicamente, si capisce.
Lo spacco posteriore della gonna è molto profondo e si comporta a dovere: mostra la balza scura delle calze e perfino un barlume di coscia nuda. Là dove i gancetti del reggicalze tirano il nylon. Si vede tutto distintamente.
E lui suda.
Tira fuori un fazzoletto, sfila le lenti e si lava il viso.
È da tempo che non gli capitava un tale spettacolo.
Poi si accorge di me.
Mi viene incontro, non prima che le due donne si siano barricate nel camerino.
È evidentemente scosso, ma riesce a presentarsi senza balbettare troppo. E a chiedermi il motivo della mia visita.
Gli risponderei che sono in cerca di una sella per cammelli, se avessi voglia di prenderlo per il culo. Ma gli rifilo la risposta di default: gessato.
Lui comincia a mostrarmi un reparto del negozio dove pare esserci la Riserva Mondiale dei gessati.
Se fossero pellicce, comincerei a credere che i gessati siano in via di estinzione.
Ne scelgo uno quasi a caso: blu con righe sobrie, non troppo accentuate.
Lui si complimenta per la scelta e mi invita a provarlo.
Gli rispondo con un sorriso, mentre afferro l’abito. E già mi dirigo in direzione dei camerini.
Lui fa per seguirmi, ma spengo il suo entusiasmo. Penso di essere abbastanza grande da fare da solo, gli obietto cercando di apparire meno duro possibile.
Lui si fa un altro giro di fazzoletto sul volto e si scusa sette volte senza prender fiato.
Il cliente ha sempre ragione. E, a ragione, penso che lui volesse farsi un giro verso i camerini perché c’è Lei.
Desiste, come se fosse stato colto in flagranza, e io mi dileguo.
Incrocio la ragazzetta che ha uno sguardo strano, direi torvo, minaccioso, nonostante riesca a fare un inchino servile sbattendo solo le palpebre. Siamo a livelli di fenomeno da baraccone.
Le tre porte sono una accanto all’altra, tre rulli della slot machine più stuzzicante che mi sia mai capitata. Due hanno la tenda aperta, l’altro ce l’ha chiusa.
Punto dritto a quella chiusa.
Dietro si intravede del movimento.
La apro prima che qualunque essere vivente possa fermarmi. La apro di quel tanto che io possa entrare con lo sguardo e il resto del mondo no.
Lei scatta. Sorpresa. È svestita. Ma non si arrabbia. E non si copre. Neanche il gesto automatico di richiudere la tenda, o di afferrare la prima cosa che le capita per coprirsi. O di tirarmela in faccia.
Ho calcolato bene i tempi, quindi. A volte mi meraviglio di me stesso.
Indossa reggiseno e mutandine, e le calze tirate dalle bretelline del reggimedesime.
Blatero una scusa che mi esce come un fischio incomprensibile.
«Chi sei tu?» sibila Lei, con una melodia incantevole. Come un coro angelico che non ha niente di angelico, non so se mi spiego.
Resto immobile a squadrarla. Affascinato. Rapito. Stregato.
Balbetto qualche scusa, ma devo sembrare un deficiente.
Rispondo che sono in cerca di un camerino perché anch’io dovrei provare il mio gessato.
«Adoro il gessato blu» miagola Lei con la morbidezza della seta. Non so se lo dice davvero. È quasi come intuire le parole di una canzone annegate in una favolosa melodia strappacuore.
«Gra-grazie…» mastico le sillabe come un ruminante su di un prato.
«Lui dov’è?»
Lui? Che domanda è? Chi sarebbe questo lui? Ci sono io, qua.
Lei lancia lo sguardo oltre la mia spalla, e la bocca le sia apre nel più bel sorriso del mondo.
Mi volto e c’è Lui, dietro di me: il proprietario del negozio che sorride e suda. Più suda che sorride.
Quello di prima, grassoccio con gli occhiali. Sì, sì, proprio lui. Lui.
Chiudo la tenda colto da un immotivato scatto di gelosia.
Ma che mi prende? Perché mi comporto così? Perché ho una gran voglia di tirate un ceffone a questo tizio sconosciuto che se l’intende con la sconosciuta del camerino?
In quel momento mi squilla il cellulare.
Triiiiiill triiiiiill triiiiiill triiiiiill.
Squilli prolungati e incandescenti.
Triiiiiill triiiiiill triiiiiill triiiiiill.
E capisco.
Cioè, più che capisco, mi desto, mi ricordo, mi sveglio, mi riaccendo. La mia mente fa un reboot e il sistema operativo celebrale torna a funzionare. Pronto ad agire. Di nuovo in linea.
Di colpo ricordo tutto, pure l’incontro con la signora Matilda.

«Da un po’ di tempo mio marito è strano.»
«Che intende per strano?»
«Si alza presto tutte le mattine per andare a correre. Si fa la barba tutti i giorni. Mette il profumo e la cravatta. Poi sparisce al lavoro per tutta la giornata, ha una boutique d’abbigliamento, e torna solo sul tardi. Se torna.»
Bevo un sorso del limoncello fatto in casa dalla signora («con le mie manine e con i limoni del mio giardino, senza pesticidi né concimi chimici») servito in ampolline decorate con ghirigori barocchi su preziosi centrini all’uncinetto.
La botta d’alcol è talmente forte che sputo fiamme. Cerco di replicare alla donna (una cinquantenne che possiede il fascino di una ventenne e la saggezza di un’ottantenne) mentre tossisco e lacrimo come un neonato senza tetta.
«Signora, non so se ha capito bene. Io non sono un investigatore privato.»
«Si, lo so. Per questo l’ho chiamata. Lei è una specie di
Dailandog. Dico bene?»
«
Dylan Dog è un ciarlatano. Io non ciarlo. Se ha un banale problema di corna (e mi scusi per il tatto e la franchezza) deve rivolgersi a qualcun altro.»
«Caro, forse non ha capito lei: non è un “banale” problema di corna.»
«Mi sembra molto sicura di sé. Per quale motivo pensa sia così?»
«Perché Lei viene da un borghetto di pescatori sulla costa. A picco sul mare.»
Ragiono. E c’arrivo dopo qualche istante. E intuisco con cosa abbiamo a che fare, nonostante non sia il mio campo di pertinenza, non proprio quello con cui lavoro tutti i giorni. Piuttosto: la signora come ha fatto a capire? Intuito femminile? Antagonismo per la conservazione del consorte? Studio + fortuna? O c’è dell’altro? Quegli occhietti vispi e quelle mani ansiose raccontano altro. Forse la signora non sa fare solo il limoncello.
«Devo informarmi. Queste cose sono frequenti nelle zone di mare. È la prima volta che mi capita qui da noi, nell’interno.»
«Studi pure, caro, purché salvi la faccia e il sedere a quello sprovveduto del mio consorte.»

Triiiiiill triiiiiill triiiiiill triiiiiill.
La sveglia del cellulare continua a trillare, riesco a percepire perfino la Formula di Scioglimento recitata a fil di voce, sottotraccia, tra le cadenze ritmiche degli squilli.
È un trucco che m’ha salvato il culo più d’una volta. Registri il Rito e lo imposti come sveglia del telefonino, all’ora giusta.
Tutto sta a indovinare l’ora giusta. Al minuto. Al secondo.
Io mi scuoto, anche perché sono allenato a queste cose, mentre mister Proprietario, Lui, sembra ancora in preda a desideri carnali inconfessabili.
Lo afferro di peso e lo trascino lontano da quel camerino, da quella tendina, dalla cosa che c’è dietro, che ha iniziato pur’essa ad agitarsi come in preda all’epilessia, a giudicare dagli scatti che si intuiscono oltre la tendina.
Lui si meraviglia, borbotta, strattona. È grosso, s’è detto, un bisonte imbizzarrito, mica facile domarlo.
Il cellulare continua a ululare il suo scampanellìo con rituale annesso e, visto che funziona alla grande, decido di giocare il jolly: alzo la suoneria. Clicco il tastino aumentando quel trillo fino a quando il mio Siemens non mi supplica di smettere, che non ce la fa più, che non riesce più ad aggiungere tacche di volume a quella scalinata di led verdi.
Al Proprietario arriva qualcosa, finalmente, tanto che si tappa le orecchie con i palmi delle mani mentre il suo volto s’irrigidisce in una smorfia di dolore.
Dietro la tenda invece pare scoppiato il caos totale: quella cosa inizia a ruggire, tipo il leone della Metro Goldwyn Mayer, e a scaraventarsi contro le pareti, tipo per abbattere i camerini.
Chi se le immagina con la coda di pesce è rimasto indietro di cent’anni. Quelle erano fantasie da marinai dei tempi andati. Sulla terraferma è tutta un’altra cosa. Oggi le pinne sono state sostituite dai tacchi a spillo.
Ignoro alcuni centri nervosi per cercare di isolare lo stordimento che fa girare tutto il negozio come una giostra impazzita e invoco la protezione del Signore degli Abissi dai Mille Nomi. SAMN, per gli amici. E io non sono tra quelli.
Mi aiuterà, nonostante sia sulla terraferma. Si riprenderà la figlia prediletta avventuratasi così lontano dalle profondità oceaniche per uno stupido Dono di Sangue.
Stringo i denti, serro gli occhi e urlo infine la Supplica.
Uno, due, tre volte.
Stop.
Tutto fermo.
Si blocca il mondo.
Triiiiiill triiiiiill triiiiiill triiiiiill.
Resta solo la suoneria del cellulare sparata a mille a ricordarci di essere vivi.
Apro gli occhi con una paura fottuta perché quella cosa è potente, anche se è lontana dal mare.
Odisseo (che pure non era l’ultimo dei fessi) si dovette far incatenare all’albero maestro della nave, per poterle resistere. Mica cazzi.
Alzo gli occhi verso il camerino e vedo la tenda a brandelli.
Vuoto.
Lei è scomparsa, scappata, volatilizzata, letteralmente.
Gli antichi greci le raffiguravano con le ali: forse ha spiccato il volo.
Fatto sta che non mi sono accorto di nulla. Avevo gli occhi chiusi dal dolore.
Accanto a me il Proprietario si riprende dalla botta, fissandomi con sguardo fradicio e smarrito.
Lo tranquillizzo e gli sussurro di rivolgersi a sua moglie per tutte le spiegazioni del caso.
Piuttosto, dove è andata a finire la commessa? Quella che lui si è scopato un paio di volte e poi ha smollato malamente, manco fosse un kleenex usato. Quella che voleva vendicarsi dell’attempato datore di lavoro nonché rotondetto ex amante, Proprietario della boutique più esclusiva della città. Quella che ha promesso il Dono di Sangue al Demone delle Acque Salate pur di farlo impazzire.
Mi sa che è sparita pure lei, ha intuito il fallimento ed è fuggita con la coda tra le gambe. Ma a me poco importa. Incasserò comunque l’assegno della signora Matilde.

«È stato bravo.»
«Il suo tono sembra dire il contrario.»
«Deve dar meno credito alle apparenze, caro.»
Osservo la signora Matilde riempire i bicchierini di limoncello. Siamo seduti nel suo giardino sotto imponenti alberi da frutta. Il sole filtra a stento tra foglie e rami fitti, abbozzando fasci di luce obliqua multicolore.
«Questo se lo è guadagnato tutto.»
Dice lei, mentre allunga un assegno piegato in due, tirandolo fuori dal nulla con un trucco degno di un prestigiatore. Ha dei modi incantevoli, la signora, ed è bella da togliere il fiato. Possibile non me ne fossi reso conto durante il precedente incontro? Raccolgo, apro, leggo e noto il bonus.
«La ringrazio per la mancia.»
«È meritata.»
Bevo il distillato paglierino e mi pare mille volte più dolce e profumato dell’altra volta. Come ha fatto quel fesso del marito a tradire un tale splendore?
«Il trucco è usare le scorze dei limoni migliori, quelli della costa: il femminiello di Sorrento e lo sfusato di Amalfi.»
Bevo e mi sembra di percepire uno strano capogiro. Qualcosa che mi impedisce di pensare a qualcosa che non sia la signora Matilda. Che batte le ciglia lunghissime e mi fissa con i suoi occhioni azzurri e trasparenti come l’acqua marina.
«Sa, io vengo da là, dalla costa. Sono una lupa di mare, mezza donna e mezzo pesce.»