La questione è di qualche settimana fa – ma il tempo non fa altro che rinfocolare focolai di critica. Qual è il problema? L’arte, o meglio la letteratura come arte. I due querelanti? Alessandro Baricco e Antonio Moresco. Noi? Il terzo incomodo, Crapuli cui piace la disputa sur tout!
La prima reazione di Moresco all’aberrante affermazione di Baricco che la letteratura non è arte è stata:
Potrei rispondere dicendoti semplicemente: “Parla per te!”. Invece ci sono molte altre cose da dire.
E le cose da dire da parte di Moresco sono davvero tante e non sto qui ad elencarvele tutte – è molto più semplice per voi, amici di Crapula, andare a leggere almeno una sua opera – e io vi consiglio “Canti del Caos”.
Ciò che conta, come mi dice da un po’ Al Fharidi, sono i motivi e non le contingenze del momento. Dunque vediamo più a fondo quali sono questi motivi per cui Baricco afferma che l’arte ormai non sia più possibile in letteratura, mentre è realizzabile un artigianato, che con tutto il rispetto per l’artigiano resta pur sempre un prodotto di seconda mano. Dunque, Baricco parli per sé, e se egli non ha muse che l’ispirano, ciò significa che le muse ora come sempre se ne intendono di arte.
Dicevo dei motivi. Dunque, ecco cose dice Baricco:
In senso romantico non esiste più l’ispirazione. Era il nome che una certa civiltà dava a quella cosa. E noi non usiamo neanche la furbizia che c’era dietro a quel nome. Non serve più. Però è vero che accadono due cose: una è l’attimo di nitore che hai quando scegli di fare proprio quel libro e non i restanti tre che hai in testa. L’altra è che ci sono dei momenti in cui effettivamente scrivi meglio, sei in uno stato di felicità narrativa.
Oppure, quando gli viene chiesto se l’assenza – motivo quanto mai imperante della letteratura dal Novecento ad oggi – faccia parte del suo modus operandi, Baricco risponde:
Penso che la sparizione sia un’arte. Nel senso più ricco e completo essa si compone di mille no, di mille tragitti obliqui. Forse la sparizione perfetta è quella per cui nessuno si accorge che sei sparito veramente.
A quest’ultima affermazione rispondo e rimando all’Opera Omnia di Samuel Beckett, ma suppongo che Baricco ne abbia quanto meno sentito parlare.
Per quanto riguarda la prima risposta è necessario dilungarsi un po’ di più. Ed ecco che Moresco ci viene incontro e ci apre la strada:
Quella forza che ci appare moltiplicatoria e aliena e che in passato è stata ingenuamente chiamata ”ispirazione” esiste ancora dentro di noi e gli artisti, gli scrittori, i poeti, sanno che esiste, l’hanno sempre saputo, perché l’hanno conosciuta, sperimentata, inventata.
Proseguiamo, allora, sulla strada spianata. Quanto dice Baricco dell’ispirazione è infondato. Egli non ha motivo per ascrivere all’ispirazione stessa la sua morte, la sua fine – e non che me lo stia inventando, ma rileggendo la parte centrale del frammento citato, dice esplicitamente che tra i quattro che si potrebbero scrivere, ne sceglie uno solo e che questa selezione poi sia corroborata da momenti di “felicità narrativa”. E che cos’è questa felicità se non quella “forza… ingenuamente chiamata ispirazione”? Tuttavia, va ribadito, Baricco dice che egli si sente più artigiano che artista, e questa proposizione, se considerata al di fuori della querelle, dovrebbe essere apprezzata, ma così non può essere, perché non è sostenuta da l’umiltà propria di ogni artigiano, che sa quanto la sua opera sia rifacimento rispetto a una creazione originale. In aggiunta a quanto detto finora sull’ispirazione – che appunto è solo forza, spinta – Baricco prosegue ammettendo che:
Come accade a una squadra di calcio. Improvvisamente undici giocatori trovano la mezz’ora in cui giocano divinamente. Ma alla fine la forza di un libro sta nel duro lavoro, è il raccolto di una semina mostruosa.
Ancora una volta egli pare confutarsi da sé. L’ispirazione, fungendo da spinta – e tanto per restare nella similitudine calcistica – è come l’ala destra negli anni Sessanta e Settanta: corre, ha molto fiato, dà respiro alla squadra, il suo lavoro è inestimabile. È quell’elemento che rompe l’indugio, che inventa l’azione, sfonda sulla fascia, non va dritto al cuore dell’avversario, ma quasi cinicamente gli gira intorno… poi, giunto sulla linea di fondo, alza la testa ed è qui e ora che vede, che sa come calciare e con quale effetto e precisione decide a chi passare.
E poi – come in volo – il rimando ad Esiodo (forse un po’ troppo retrò?): il campo da arare, opere e giorni di lavoro, di semina appunto. E il seme non è metaforicamente l’ispiratore della pianta, ciò che porta dentro di sé in ipotesi il frutto, e letterariamente il libro, l’opera, e in senso lato la letteratura?
Ora, andiamo più dentro al fatturato dell’opera stessa, e vediamo che cosa ci dice quest’illustre rappresentate dell’artigianato italiano. Alla domanda su che cosa egli ritenga sia un capolavoro, risponde:
(Penso) All’idea di installazione artistica. Che spesso è la somma di un discorso economico, letterario, teatrale, e perfino biografico. Fondare una scuola, aprire un teatro, inventare un certo modo di fare televisione sono operazioni più simili all’arte che all’artigianato. L’iPhone, che è la risultante di molte cose, vi è certamente più vicino che non Infinite Jest di Foster Wallace.[1]
Ed ora lasciamo che a rispondergli sia l’altro querelante:
Cos’è che non va in quello che dici? Non il fatto che tu abbia questa percezione di te stesso e del tuo lavoro, ma il passaggio, il salto di piani che compi, il fatto che tu trasformi tutto questo in un’ imprigionante definizione dei possibili e in una teoria cucita sulla tua misura ma che dovrebbe valere per tutto e per tutti: io non sono così, io non posso essere così, e allora vuol dire che nessun altro può, e se qualcuno non se ne convince e ci prova lo stesso non può che andare incontro al fallimento e all’irrilevanza. Ma perché la letteratura non potrebbe più essere un’arte? Perché prima poteva esserlo e adesso non più? Chi l’ha stabilito? Baricco. E sulla base di cosa? Di Baricco stesso.
Che cosa ne ricaviamo è ormai facile da comprendere. Da un lato ci ritroviamo uno scrittore che afferma di lavorare – e anche duramente – per sé stesso e magari per un nuovo iPhone di ultima generazione; dall’altro lato uno scrittore che dell’iPhone – e di tutto ciò che esso comporta – non sa che farsene. E io che non ho l’iPhone, ma un padre artigiano che mai si sognerebbe di mettersi alla pari di un artista, mi chiedo che cosa voglia significare, quale motivo sia sotteso alla poetica – se tale si può definire, ma ne dubito a questo punto – di Baricco. Di Moreso, diversamente, gli intenti artistici sono ben evidenti e non c’è bisogno – almeno ora è questo il mio giudizio – di metterli in dubbio.
Baricco mi pare che voglia sublimare il suo lavoro come unico possibile, come se realmente non ci fosse alternativa. Ma se cosi fosse, a che servirebbe ancora leggere Dostojevsky, Joyce, Pirandello? Per quale motivo dovremmo ancora chiederci che cosa spingeva, ad esempio, Picasso a fare a pezzi l’uomo? O Warhol a metterlo nichilisticamente in vetrina? A questo punto neanche uno degli ultimi artisti viventi Diego A. Maradona avrebbe più necessità di infiammarci con i suoi dribbling! E Moresco? Egli avrebbe scritto i suoi Canti del Caos solo per riempire narcisisticamente più di mille pagine con lo scopo di vantarsi della sua bravura di montare e smontare e far esplodere la letteratura, solo per puro vanto? E se per Baricco “un certo modo di fare televisione” – di vendersi, che cosa vogliate che significhi questa affermazione – o il troppo citato iPhone valgono di più che millenni di tradizione, allora, amici di Crapula, ogni sforzo è vano e non potremmo neppure più chiederci come faceva Beckett “comment dire?”, perché non ci sarebbe proprio più niente da dire, da scrivere o creare.
E voi che di qui passate e mangiate alla nostra tavola, voi con chi state: con lo scrittore di ultima generazione schermo ultrapiatto antivirus incluso o con lo scrittore – anch’egli di ultima generazione! – senza antivirus nè schermo ma ricco, strabordante ispirazione e genio e arte?
In conclusione, volendo scherzare con le parole di un poeta italiano di certo ispirato, direi: ai postumi l’ardua sentenza!
[1] Per il discorso su Foster Wallace consiglio di leggere il post di Al Fahridi, sempre qui a Cr@pulaClub. [Per questo ed altro, invece, vi si rimanda qui: letteratura americana a sbafo. NDR]
Per chi volesse leggere l’intervista a Baricco e la lettera di Moresco, ecco i link:
1) http://www.ilprimoamore.com/blog/?p=204
2)http://periodici.repubblica.it/venerdi/?num=1232 (pp. 32 -36)
Una precisazione sul valore dell’artigianato: una cosa è la forma, altro è il contenuto. Su questa distinzione bisognerebbe che si rifondasse tutta la letteratura, cui l’artigianato, cioè il lavoro sul particolare e solo su quello, può essere d’aiuto. L’arte (d’ora in poi non preciserò più che si tratta di letteratura, basta) richiede un ampio respiro, multiformità e varietà di sensi, di direzioni verso non si sa dove, né perché o se ciò che si cerca e si trova possa diventare un inganno, una beffa – l’artigianato può essere in questa ricerca, talvolta cieca, ciò che Sancho Panza era per Don Quijote, ma non gli venga in testa a questo scudiero – oggi confuso dal comfort! – di voler soppiantare l’Hidalgo!