Non parlo dei Pink Floyd. Non parlo di Cambridge. Non parlo degli anni Sessanta. Non è una cosa sul rock psichedelico, sull’acido lisergico o sulla schizofrenia – reale, presunta, evidente, mai accertata. Non si tratta dello scantinato e non si tratta del pifferaio. Diamante pazzo è solo una metafora, come lo è la storia degli occhi opachi e il cliché dei buchi neri. Ho appena finito Rosso Floyd ed è evidente che la cosa nasce da lì. È chiaro anche questo: la cosa cerca di dire un’assenza e soddisfa il lato elegiaco e un po’ masochista che in fondo abbiamo tutti: lasciami, così poi potrò piangerti. In loop, all’infinito.
La cosa, però, se è vero che comincia da lì, va a finire da un’altra parte. Sono un po’ di giorni che Syd Barrett mi ossessiona. Mi ossessiona nel senso che ci penso sempre, ci penso il più spesso possibile, appena possibile, tutte le volte che mi è possibile. E questo il più possibile è fatto di una serie di azioni: leggere tutto ciò che lo riguarda, ascoltare i suoi dischi, mettere a confronto il Syd di prima e il Syd di dopo, scomporre in frammenti classificabili le sfumature della sua voce, il tono leggero, divertito, ventoso, glaciale, stridulo, straziante. O anche contemplare estasiata le sue foto, ripetere la sua data di nascita – il 6 gennaio – come fosse un mantra e, naturalmente, vedermi da fuori e trovarmi inquietante e sull’inquietante si può essere tutti d’accordo, credo. Ma perché poi?
Ho incontrato Syd Barrett due volte prima di ora. L’ho riconosciuto perché mi ha detto che non era un bene perdersi nel bosco, ma che tutto sommato ci si stava bene, nel bosco. L’ho riconosciuto perché mi ha tolto il sonno. E soprattutto l’ho riconosciuto nella misura in cui l’ho amato.
Così stanotte mi sono detta basta così, domani.
Perché in fondo l’avevo capito fin da subito. Syd non è una delle tante manifestazioni o forme o reificazioni dell’ossessione: ossessione mentale, ossessione letteraria, ossessione amorosa, ossessione del corpo, del mio corpo, di tutti i corpi. Syd Barrett è l’ossessione stessa, è l’incubo azzurro che mi sveglia ogni notte e mi ripete in playback è vero solo questo. Ma se il fondo di questo sono io, non c’è traccia di rosa, non c’è surrogato che tenga.