In occasione della terza seduta dei Bolagnisti Anonimi a casa di Sebastiano Iannizzotto a Torino, Alfredo Zucchi, detto Zuc-Zic-Zuc per la sua adesione al Bolagnismo Severo, ha pronunciato il seguente discorso.
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Scrivevo qualche mese fa:
[…] “Dire che ho un debito perpetuo con Borges e Cortázar è un’ovvietà” (C. Manzoni, Roberto Bolaño, la escritura como tauromaquia, Ediciones corregidor, 2002).
[…] Uno degli elementi più caratteristici di Bolaño è la circolazione, all’interno della sua opera, di temi, di personaggi, se non proprio di intere e conchiuse narrazioni – che si trasferiscono da un libro all’altro con la necessità dei fluidi.
Tra le varie occorrenze di questa circolazione c’è ad esempio Lalo Cura, la cui vicenda è, prima, oggetto di un racconto – Prefigurazione di Lalo Cura, in Puttane assassine – e poi confluisce nel romanzo 2666; c’è Auxilio Lacouture, presente sia nel romanzo breve Amuleto sia nel romanzo-fiume I detective selvaggi. C’è Carlos Ramirez Hoffman, che compare in La letteratura nazista in America, raccolta di biografie di scrittori fittizi, e si trasferisce nel romanzo breve Stella Distante, dove prende il nome di Carlos Wieder.
Poi c’è Arturo Belano, anagramma quasi perfetto dell’autore e suo alter-ego: la sua figura ricorre in svariati racconti e romanzi brevi. Ognuna di queste ricorrenze è legata alla vicenda de Idetective selvaggi, di cui Arturo, insieme a Ulises Lima, è il motore.L’opera di Bolaño appare così come un unico calderone, in cui le categorie che in Cortázar erano in opposizione – racconto/romanzo – sono fuse e rimodellate insieme. Per questo motivo, l’affermazione per cui un racconto non solo non dice le cose alla stessa maniera di un romanzo, ma dice cose diverse, qui dentro non vale: in Bolaño racconti e romanzi narrano spesso la stessa cosa. Inoltre, data la centralità, in questa circolazione, di forme intermedie o ibride (i romanzi brevi e la raccolta di biografie fittizie La letteratura nazista in America), anche la coppia di opposti forma chiusa/forma aperta perde ogni valore.
Rimane il nodo finzione/realtà nel calderone-Bolaño. Si diceva che Carlos Ramirez Hoffmann circola da La letteratura nazista in America a Stella distante. In questo passaggio, il suo nome muta in Carlos Wieder. Ci sono poi altri dettagli leggermente diversi tra le due versioni – nomi, aneddoti, fili di trama. È lo stesso Bolaño, nell’introduzione a Stella distante, a chiarire le differenze: fu Arturo Belano a raccontare all’autore la storia di Carlos Ramirez Hoffman – ma rimase insoddisfatto del risultato in La letteratura nazista in America. Così, i due si chiusero nell’appartamento dell’autore in Spagna, e guidati dai sogni e gli incubi di Arturo, scrissero Stella distante. Bolaño, a quanto pare, si limitò a consultare qualche libro, a preparare da bere e da mangiare, e a discutere il riuso e la riscrittura di alcuni paragrafi con Arturo Belano e “col fantasma sempre più pieno di sé di Pierre Menard” (Distant Star, New Directions, 2004).
Per descrivere la circolazione che caratterizza la sua opera-calderone, Bolaño utilizza quindi tre elementi: se stesso, Pierre Menard (il personaggio di Borges che riscrive, alla lettera, il Don Chisciotte di Cervantes) e Arturo Belano (il suo alter-ego). Il nodo ora pare sciogliersi: non solo dunque realtà e finzione sono fuse insieme, come in Cortázar; di più, ciò che tiene uniti gli opposti e rende possibile la circolazione è un processo di finzione autobiografica – elemento già presente in Borges come dettaglio o accessorio, che in Bolaño compare in forma ibrida e assume un ruolo di sintesi decisivo.
Così, ciò che in Borges era una distinzione netta, assiomatica ed esclusiva (finzione/realtà e ordine/disordine), diviene un’opposizione narratologica (racconto/romanzo e forma chiusa/forma aperta) e infine dà luogo a una forza fluida e caotica, auto-referenziale e unificante. Il nome di questa forza – come il debito perpetuo di Bolaño nei confronti di Borges e Cortázar, come la differenza tra riscrivere e copiare nel racconto di Borges Pierre Menard autore del Chisciotte – è un’ovvietà: è Arturo Belano, anagramma quasi perfetto e alter-ego dell’autore, passe-partout e detective selvaggio.
Ebbene questa tesi, per alcuni versi eccessiva o azzardata, ha trovato di recente una spettacolare conferma. Scrive infatti Ignacio Echevarría, spulciatore autorizzato di cassetti di Bolaño (in “Nota a la primera edición”, 2666, Anagrama, 2004):
[…] Un’ultima nota che forse non è superfluo aggiungere. Tra le annotazioni di Bolaño relative a 2666 si legge, in un appunto isolato: “Il narratore di 2666 è Arturo Belano”. E in un altro punto aggiunge, con l’indicazione “per il finale di 2666”: “E questo è tutto, amici. Ho fatto di tutto, vissuto di tutto. Se ne avessi la forza, mi metterei a piangere. Vi dice addio Arturo Belano”. Addio, allora.
In cosa, mi dico, quest’ovvietà (e la sua conferma nelle parole di Echevarría) ci riguarda? Come nel caso del Menard di Borges, Arturo Belano, per noi (diciamolo senza remore, noi vogliamo scrivere) è una lezione. Non voglio dire che ognuno di noi debba forgiarsi il suo Arturo Belano personale (e Luca Mignola il suo Milo Lugnila, Andrea Meregalli il suo Rega Andreolli e così via, fino al Siriettolo DeLolli di Delio Salottolo), non dico di copiare – dico di studiare. Che in questa particolare convergenza di realtà e finzione nella finzione autobiografica bolagnesca si celi un exemplum metodologico (e epistemologico!) per la creazione letteraria, una direzione.
Pensateci, amici bolagnisti. Pensateci, e soprattutto non vergognatevi della natura tautologica dell’ovvietà che vi si para davanti. In condizioni ideali, infatti (condizioni di laboratorio), non c’è niente di più spiritoso di una tautologia.
Ciao Crapuli. Beh, il debito verso Cortàzar… guai a non averlo. Quanto a Borges…
Cari saluti.
Enrico