il libro che avrei scritto era quello che ora stavo vivendo
Lo scorso settembre 2013 la televisione pubblica argentina propone uno strano format: una via di mezzo tra una monografia televisiva e un talk-show sulla figura di Jorge Luis Borges, controverso idolo nazionale quasi come Diego Maradona. Il programma si chiama Borges por Piglia, e nel ruolo di narratore, filologo e deus ex machina c’è Ricardo Piglia.
In una delle puntate centrali della trasmissione, Piglia racconta il suo primo incontro con Borges: a casa dell’idolo nazionale, un’intervista per il giornale dell’università di Buenos Aires. Sospinto dall’apparente cordialità del vecchio, il Piglia diciottenne si arrischia a suggerire a Borges che la chiusa di uno dei suoi racconti, «La forma della spada», secondo logica carveriana, andrebbe tagliata. Il vecchio non la prende male, o non ne fa mostra – è un falso gentile o un vero gentiluomo – anzi si premura di chiudere il cerchio: «Vedo che anche lei è uno scrittore».
Ricardo Piglia, di fatto, è uno scrittore. In piena tradizione borgesiana, la lettura e il commento, la riflessione sulla finzione e sulla letteratura, rappresentano il centro della sua attività. Uno potrebbe spingersi a dire che l’unico tema delle sue opere sia la letteratura – o meglio ancora, il modo in cui la letteratura influenza la vita: quella relazione finzione-realtà che ha già trovato un nome nella narratologia ufficiale e si chiama bovarismo, come quest’articolo.
Scrittura, lettura e critica sono una cosa sola, per Borges come per Piglia – fasi distinte della stessa attività. Per misurare il valore dell’opera di Piglia – un’opera che solo di recente ha cominciato ad apparire in Italia come tale, come un’unità d’intenzione – ripercorriamo in questo testo tre libri: L’ultimo lettore, Formas breves e El camino de Ida, questi ultimi ancora inediti in Italia.
Formas breves è una raccolta di saggi letterari articolati intorno al racconto. Il suo testo centrale è Tesis sobre el cuento, una riflessione sulle caratteristiche fondamentali della narrazione breve nella sua variante moderna, da Poe a Hemingway passando per Cechov, Joyce, Kafka e Borges.
In questo testo Piglia scompone l’essenza della forma racconto. Partendo da un’annotazione di Cechov («un uomo, a Montecarlo, va al Casinò, vince un milione, torna a casa, si suicida») l’argentino sviluppa la sua prima tesi: un racconto narra sempre due storie. Una narrazione visibile nasconde una narrazione segreta.
I modi e i tempi della relazione tra la storia visibile e quella segreta segnano l’evoluzione o la storia del racconto moderno. Così infatti la seconda tesi: la storia segreta è la chiave della forma del racconto e delle sue varianti. Si passa dall’irruzione improvvisa della storia segreta alla fine (il finale a sorpresa) all’abbandono della struttura chiusa: il racconto moderno narra due storie come se fossero una sola. Hemingway è il primo a sintetizzare questo processo di trasformazione: ciò che più conta non va mai detto.
Poi ci sono Kafka e Borges. Kafka, nella lettura di Piglia, racconta con chiarezza la storia segreta, e narra invece la storia visibile come una cosa enigmatica e oscura. Questa inversione sarebbe alla base di ciò che oggi si definisce «kafkiano». Borges, dall’altro lato del prisma, interpreta la storia visibile come un genere letterario a parte, mentre la storia segreta è sempre la stessa. La variante fondamentale introdotta da Borges è il fatto di rendere la costruzione cifrata della storia segreta il tema stesso della narrazione.
Il racconto moderno, chiude Piglia, è un’epifania profana: si costruisce per far apparire artificialmente qualcosa che fino ad allora era nascosta.
L’ultimo lettore* è un libro unico ed eccentrico, in cui filologia, critica e narrazione si tengono la mano. Un libro alessandrino alla Calasso, in qualche modo, ma diverso: più libero e meno ortodosso. Il fatto è che ne L’ultimo lettore parla uno scrittore, non uno scoliasta – uno scrittore che si prende a volte grandi libertà d’interpretazione, piuttosto che rimanere con la schiena curva sul rigo. Il tema del libro è il lettore, ma è in realtà un giano bifronte: è il dualismo scrittura-lettura. Questo dualismo fa sì che si passi dall’analisi di una figura esterna (le lettrici di Kafka, terribili, temute guardiane della tana di K., e quelle di Joyce, multiorgasmiche femmine) a quella di una interna (il personaggio-lettore del detective che viene fuori nei racconti di Poe, e la cui evoluzione determina gli esiti di tanta letteratura dei secoli XX e XXI, compresa quella di Piglia).
C’è dunque la relazione biunivoca tra scrittura e lettura – quella relazione necessariamente endogamica che presagisce tempesta. Di più, c’è l’ossessione borgesiana (e pigliana) della scrittura che agisce tragicamente sulla lettura (sulla vita). Il bovarismo, si diceva, ne L’ultimo lettore si sviluppa nel capitolo sulla lanterna di Anna Karenina.
Alla luce di una lanterna, Anna legge un romanzo inglese, in treno – ha già conosciuto l’uomo che la condurrà alla rovina. È disturbata, all’inizio, dal viavai di viaggiatori. Quando la serva – che le tiene la lanterna – infine prende sonno, e i rumori intorno scemano, Anna comincia a «capire ciò che legge». Legge, eppure la lettura la infastidisce: non vuole seguire le ombre di altri personaggi, ha troppa voglia di vivere lei stessa.
Il bovarismo: l’illusione della realtà della finzione come misura di ciò che manca nella vita. Anna desidera raggiungere la stessa intensità vitale dei personaggi del racconto, vuole essere loro. Di più: legge per decifrare una verità sepolta dentro di lei. L’intensità della sua passione ha un termine di paragone soltanto nell’intensità implicita del romanzo. Quando, alla fine, si offre alle rotaie, Tolstoj non può fare a meno di richiamare la lanterna alla cui luce Anna aveva letto un libro pieno di inganni, dolori e infamie. È morta la lettrice.
È morta una lettrice. Nell’ultimo romanzo di Piglia, El camino de Ida, ad Anna Karenina si sostituiscono Ida Brown e Thomas Munk, lettori di Conrad.
El camino de Ida non è probabilmente il romanzo più importante di Piglia – quest’onore spetterebbe a Respirazione artificiale – eppure è quello in cui, in maniera più completa e ossessiva, si realizza il tema della relazione biunivoca tra finzione e vita.
Questo romanzo pullula di lettori: ci sono professori universitari, dottorandi, studenti. Si direbbe che tutti i suoi personaggi sono lettori di professione, a partire da Emilio Renzi, voce narrante, docente di letteratura argentino e visiting professor presso la Taylor University negli USA. El camino de Ida è un gioco di specchi (specchi come lenti da lettura): il narratore, esperto di William Henry Hudson il «naturalista», avvicina e legge Ida Brown, brillante e bellissima esperta di Conrad – la legge nel senso che se ne innamora. L’intimità di Ida gli apre un’altra porta, quella di Thomas Munk, l’eco-terrorista – il tramite è Conrad, un libro di Conrad caro a entrambi, a Ida e a Thomas, e ora, per estensione, al lettore Emilio Renzi (la Lettura ha una natura aggressiva, espansiva ed elastica come lo Spirito hegeliano). È in questo punto che il gioco di specchi si manifesta. «Non era la realtà a permettergli di comprendere un romanzo, al contrario: fu un romanzo ad aprirgli la comprensione di una realtà che durante anni era stata incomprensibile». Così Renzi, usando il termine medio del libro di Conrad, ricostruisce una vicenda di cui non possiede gli elementi, una vicenda che dovrebbe essergli del tutto preclusa. È un lettore, un detective – e leggendo ne assapora con più gusto, in anticipo, la chiusa tragica.
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* Feltrinelli, 2007
L’articolo è apparso su Ô Metis IV, Forme Brevi.
L’immagine è opera di Adriano Annino.