Vol. 1. Del mio autismo malcelato.

Mi sono abbandonata all’autismo. Prima cercavo di nasconderlo, mi affannavo a non essere troppo destabilizzante per il prossimo, camuffavo il mio malcontento per la vita con una generosa e fasulla allegria. Soprattutto il meno che si potesse dire è che non fossi adorabilmente gentile e zuccherosa. E ora niente più. Ho lasciato che la diga crollasse. Un tempo mi piaceva blandirli tutti, fargli credere che li amassi e fare in modo che loro mi amassero. Prendiamo per esempio l’incontro di ieri con mia gelataia; mi sono resa conto che m’è costato di più farle un sorriso e chiederle come avesse passato l’estate – ovviamente il motivo principale di solito era ottenere più gelato nella coppetta, ma posso altrettanto tranquillamente affermare che mi piaceva davvero metterli a loro agio, ad amarmi insomma erano felici anche loro e in sintesi eravamo felici tutti. Stavolta invece espletare i soliti convenevoli è risultato sbrigativo e forzato e anche la mia gelataia non ci ha creduto più di tanto: quando sono uscita con la mia coppetta in mano c’era tensione nell’aria, come avessimo fretta di disfarci da quelle pantomima. Una cosa piuttosto simile è successa nell’arco della stessa giornata quando ho incontrato i miei vicini dopo molto tempo che non li vedevo: io che arrancavo a trovare le parole, un grumo di ritrosia che si formava nella gola e che mi impediva qualunque gesto di distensione. Mio fratello che era vicino a me ha detto che è vero che ero fredda e scarsamente empatica. Una volta a scuola risposi a una domanda sul Vangelo, la mia insegnante di religione disse davanti a tutta la classe che il motivo per cui avevo risposto bene era perché ero Buona e siccome questa sua valutazione sulla profonda natura del mio essere era avvenuta in modo spontaneo e autonomo (anche se già allora avevo qualche dubbio sulle mie scarse radici morali) decisi di credergli: sì, magari aveva ragione lei, ero buona. Se ci mettiamo anche che sono convinta di essere interessata alle persone anche se mi è difficile relazionarmi a loro – insomma, mi piacciono ma solo da lontano – e pure che prima di capitolare all’autismo facevo del mio meglio per farglielo capire alle persone, gli dedicavo attenzione, tutto questo, io dico, anche è, o meglio, era una prova della mia bontà. Proprio così: questo contegno nel foderare di nastro isolante la mia infelicità era sempre stata il segno per me che ero una brava persona anche se ero, in fondo, cattiva. Ma ora, ora che non mi sforzo più di proteggere nessuno dall’inverno del mio scontento, ora che ho acconsentito che il disagio trapelasse, ora che non mi applico proprio più neanche per sbaglio, come la mettiamo ora? Questa ambiguità, caro Gesù, è un serio problema se voglio entrare nel regno dei cieli (e mica solo per l’immaginario di casette con spesse mura di lasagne che più ne mangi più dimagrisci, ci sarebbe quella questione della vita eterna a cui sono affezionatissima). Soprattutto non so più come regolarmi: sono una persona almeno un po’ buona (con una pur refrattaria vocazione alla nequizia) o sono totalmente da esecrare e quindi si sbagliava la mia maestra di religione?

Vol. 2. Le mosche, la rabbia dentro di me: una non trascurabile divagazione.

Ho le mosche in casa – o meglio, le ho avute. E quando parlo di mosche, intendo dire tante mosche, un numero così cospicuo da fare ragionevolmente pensare a un’invasione. Ora, il fatto paradossale è che prima non avevo le mosche, le mosche sono arrivate proprio quando ho iniziato a pulire la mia casa da cima a fondo, cosa che non facevo da quando l’avevo presa in affitto, un anno fa. È paradossale non solo perché ho letto che un presenza così massiccia di mosche è giustificabile solo al cospetto dello sporco ostinato – la super zozzeria insomma – ma proprio che sono incominciate a arrivare quando la soglia d’igiene in casa mia è passata da un livello 5 a un livello 10 + (il fatto stesso di aver dedicato più tempo di quanto non impieghi a provare tutti i vestiti del mio armadio a togliere la polvere dalle striature più ascose degli infissi – e ometterò la cura che hanno richiesto gli aloni di calcare sui vetri – penso mi autorizzi di fatto a attribuirmi un 10 +). Le mosche venivano allo scoperto e si facevano più offensive soprattutto la sera quando accendevo l’abatjour sopra il mio letto e mi mettevo a leggere saltando le pagine il romanzo di Franzen. È stato così che giacché le mosche si conglomeravano in una sorta di sciame che le poneva a distanza ravvicinata l’una dell’altra io ho iniziato a ricorrere a un metodo rudimentale: ho preso il tomo e ho iniziato a tirarlo contro al muro sopra al letto con una ferocia insperata per la mia esile costituzione. Sera dopo sera, visto che le mosche non accennavano ad andarsene nonostante io aprissi quotidianamente le finestre, ho perfezionato la mia tecnica di guerriglia imparando a scegliere tra i libri in brossura e quelli più pesanti e muniti di copertina rigida.
So che c’erano molti modi per mandare via le mosche, un prodotto chimico avrebbe ottenuto un esito soddisfacente, ma quello che la prima sera era una necessità impellente col passare dei giorni (e avendo anche acquistato un ottimo spray scacciamosche) era diventato una scelta volontaria. A poco a poco ho iniziato a provarci gusto. Appena sentivo approssimarsi il ronzio brandivo la mia arma-libro e mi avventavo con foga epica di un power rangers negli episodi più avvincenti. Prendere la mira e stampare come un francobollo le mosche contro il muro mi piaceva.
Mi piaceva da matti.
Era la mia battaglia quotidiana. Una battaglia che ero felice di combattere e vincere.
Sterminarle mi dava gioia. Quasi come se infierire contro di loro mi ripagasse delle offese e delle mortificazioni quotidiane. Una violenza primigenia e scabrosa, un piacere sadico si era impossessato di me. Le mosche a un certo punto sono andate via, non ho mai saputo da dove venissero e cosa le facesse venire. Così come sono venute sono sparite.
Continuo a chiedermi perciò se questo non sia un altro dei palesi frutti della lotta tra Male e Bene che si fronteggiano dentro di me e se c’è speranza che quest’ultimo prevalga.

Attendo tuoi segni Divini. Sappi però che se dovessi trovare poco formaggio nel sandwich confezionato che ho comprato oggi in pausa pranzo all’Esselunga capirò che sei tu che mi stai dando la possibilità di dimagrire, e se mi incoraggi a essere magra è perché mi vuoi vedere felice, e il fatto che tu mi voglia vedere felice sicuramente significa che mi vuoi ancora bene e in definitiva se Tu, proprio Tu, e mica il primo che passa, mi vuoi ancora bene vuol dire che c’è ancora speranza per me.

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In copertina: Joan Miró.