Esiste una gloria che scaturisce dalla gioia, dalla schiusa del dolore – immaginate che un qualsiasi dolore sia come un uovo – e questa tutta aperta al mondo, per sovrabbondanza di esperienza (inganno e disinganno)*, diviene agone, sfida, azzardo. Ineludibilmente, tenderà alla vittoria. Esiste – poiché la vittoria è un ritorno, omericamente – un’altra gloria che, data l’occasione e il luogo (e il tempo), si può chiamare cinica, mordace – una sorta di vis comica pe’ nun me murì! Questa così arcigna a cedere alle lusinghe dell’inganno, non perché sia più audace di chi azzarda, ma perché essa stessa vorrebbe essere tale inganno (e ingannatore, ovviamente!). Si fa scorta della risata, e in questa trova il suo trofeo. Crea distanza dal fatto compiuto (propriamente dall’entrare per primo nell’agone) e al tempo stesso tenta di insediarlo, circuirlo fino a che non riesca a sedersi sopra e a covarlo e, infine, si possa schiudere dal suo stesso dolore. E riderne.
Nota postuma: la famosa risposta di Diogene ad Alessandro (quella di scostarsi dal Sole, di non fargli ombra) sarebbe stata perfetta per un personaggio di Aristofane. Che il cinismo, azzardo, sia residuo di una salacia commica corrotta dall’idea? O sia soltanto maschera – di dolore e di accettazione dello stesso?
*su esperienza e inganno: qui, parola di Alfharidi.