- La maledizione della letteratura, o di quella cosa là, in cui tentiamo di muovere passi difficili – i piedi incollati al pavimento molto spesso – è che questa ciclicamente si rinnoverà dall’incendio e dalle ceneri, che noi stessi alimentiamo per ucciderla – o fosse solo per amarla. Una tale maledizione vuole che ci sia sempre qualcosa da raccontare, finché la specie non sarà estinta.
- Come possiamo ancora negarci la commedia? C’è chi ne fa un problema solo umano – vale a dire intellettuale, cerebrale. Per me, è una questione di specie.
La commedia ha il compito di sovvertire la realtà – la parte viva del nostro vivere – e ciò che è forte per stupidità, violenza mediatica, oppressione e imbroglio, per menzogna, raggiro, sia messo al centro come fulcro. E tutto questo sia lasciato libero nei suoi intenti, per capire fino a quando (e dove) il disastro della specie sarà perpetrato. - “Non hanno assemblee, consigli, né leggi,
ma vivono in cima a monti altisimi,
in grotte profonde; ognuno di loro da leggi
a moglie e figli, e non si curano degli altri”
(Omero, Odissea, IX vv 112 – 115) - Sogno spesso, ad occhi aperti e dentro e fuori, di svegliarmi un giorno e tutto ciò che è già accaduto, ancora deve accadere.
- Parla la tecnologia. “Sei libero di romperti il collo con i significati, le ragioni misteriose, celate. Io, però ti consiglio: il lavoro, in primis. La specializzazione, in secundis. Tertium non datur.”
- Come se l’arte fosse ancora oggi un volgare “in sè” e non un “fuori di sè trascinando”.
- “Lei invece è pieno di concezioni sbagliate, e non se ne libererà mai.”
(Franz Kafka, Il castello – Secondo colloquio con la locandiera.) - La cosa più semplice è ascrivere una colpa a qualcuno.
- Non riesco a comprendere, perchè noi che la cerchiamo, non dobbiamo tenderci una mano l’uno l’altro. C’è ipocrisia, tornaconto e interessi personali, che superano in meschinità ciò che la gente si ostina – e non potrebbe fare diversamente – a chiamare i “sentimenti” e dei quali, per giunta, si fregia.
Tutto è maschera ancora e di più – soltanto la pazzia, la solitudine e la distanza appaiono sincere, e quasi auspicabili.
“…e così dopo avere appreso da loro inganni e raggiri e dopo averli ricambiati con appena un riflesso delle arti da loro apprese, ecco che queste qualità gli furono imputate esclusive, gli si attaccarono addosso fino a foderargli i pori e dargli un’inedita scorza da cui non era facile respirare, ad arte costruita in virtù del numero. Si credevano il mondo e il mondo ha bisogno dei suoi paladini. Cosa fu se non diplomazia a impedirgli di sbranarsi fra loro apertamente, comune convenienza? Non certo il senso di fratellanza, l’amicizia o l’amore, cose astratte, risibili, platoniche, o peggio, fregi, stendardi, bandiere e coccarde di cui adornarsi, ancora una volta, maschere dietro cui celare chissà quali tornaconti. Il dito indice e le zanne rapaci che Bran represse per scendere fra gli umani da bestia che era, glieli insegnarono loro, che si perdonavano reciprocamente molte menzogne, molto sangue pur di sentirsi meno soli…Ma ciò che più di tutto serve per guardarsi nello specchio d’un lago senza provar vergogna di se stessi, si sa, è un capro: ora ne avevano uno, che corna!, e potevano grattarsi via dalle unghie molto del tanfo di cadaveri e umori vitrei, di carcasse un tempo vive e vigorose che ognuno di loro da solo non avrebbe saputo abbattere. Ma Bran era ormai distante anche da questo, sorrideva sulla sponda del fiume e si diceva: -Perché se non vogliono esser come me non lasciano almeno che io sia come sono? rifiutare il loro codice non significa certo rifiutare la vita, sarebbe ben poca cosa la vita se si esaurisse entro i soliti poli, qui da loro pare non ce ne siano che due… Il mio naso fiuta puzza di ricatto. Naso meschino… che indovina sempre, pensando il peggio. Forse qui non arriva sole, nella fitta penombra della macchia? Forse da queste gallerie di verde non trasuda che notte? E se anche fosse solo notte… non è forse la notte il regno della Musa? Il suo fiore gagliardo dall’odore più forte?- Agitando tali pensieri nel cuore mai fermo, Bran raccolse il suo zufolo. Un corvo gli volò sul capo e lo seguì nel buio notturno che cresceva intorno, svanirono insieme intonando un canto alla Musa, fra gli echi del bosco.”
Dal Libro Rosso di Bran, divinità fluviale.
di Anonimo
refuso: secondo la lezione del Buckner del Mega il secondo participio di apprendere va tradotto con: “mutuate” ma va bene anche “mutande”
è molto bello questo passo. ti ringrazio per averlo segnalato, e penso che sia anche decisamente in rotta con il post.
La prima cosa, istintiva, che ho pensato quando l’ho letto è che una Musa è salvezza per chi canta, ed è ancche colei che in qualche modo porta al cambiamento. Basta inseguirla, come si diceva anticamente sul suolo italico.
Sulle cose di cui Bran ride, sul capro, penso che sia anch’esso un fatto di specie, certo anche di numero, come si dice. Insomma, la specie si specializza, chi cerca la Musa, chi il capro, chi il riflesso nell’acqua etc etc… il fatto è che poi chi cerca a volte vorrebbe trovare anche il proprio simile.
(omnia mutanda sunt)
“Scoprire di non avere simili: questa fu la terza tristezza di Bran… durò tre intense lune di dolore puro… quando ebbe imparato a pronunciare la parola Addio scoprì l’ errore di mira: il suo e quello degli (altri dei-per-se-stessi)… sbocciò una nuova leggerezza, lo affrancò per sempre dalla morte, che aveva imparato dagli uomini, e dagli inutili orpelli che essi si erano incalliti a chiamare vita, ma ci vollero chilometri di spine, nulla è gratuito in questo universo, neanche a un dio.
Partì dal villaggio che lo aveva ospitato sotto umano sembiante e tornò fra i boschi dove lasciò cadere la sua pelle mortale, il suo trucco, e, dopo averla inseguita nel grano alto, giacque in uno scivoloso corpo a corpo con la Musa.
La Musa reclama il sangue del suo iniziato, che sia uomo o dio, e non conosce vie mediane. Si vive o si muore dopo averla amata, per averla amata.
Nella sua permanenza al villaggio, Bran l’aveva persa di vista, curioso di sapere come sbocciassero i destini degli uomini. -Anche un dio può commettere sciocchezze… più grande il valore, maggiore l’errore-.
Scoprì che molto del suono prodotto dalle bocche mortali non era che vano chiocciare, la sua stessa voce si era infiacchita, era divenuto un mero balbettio che pure gli era servito a illudersi di farsi comprendere, ma fra gli uomini nessuno comprende nient’altro che la propria via e desiderò ancora l’ombra dei faggi per la sua pelle, il respiro del vento gli pareva meno vuoto.
-La Musa ti apre le gambe, ma ha i suoi tempi, che non vanno forzati.- Si disse Bran e dopo che l’ebbe presa da dietro, da sopra e da sotto, restò supino nelle acque diafane con una nuova luna nel cuore immortale. Ormai disarmato e del tutto in suo potere, lasciò che il fiume gli suggerisse questa nuova canzone…”
Dal Libro dei Nodi, Anonimo
Da qui parte la celebre Canzone del Fiume che i filologi accreditano a Aoife Poaceae
A me pare che ci sia qualcosa di più terribile della Musa e del buco tra le sue gambe. E penso che questa cosa sia la memoria. Questa però non è terribile per la Musa, ma per chiunque si accosti ad essa, perchè – anche se ogni cosa può cantare come il fiume di Bran – la Musa conserva di questi canti il ricordo, cercarla, bramarla non vuole certo dire soltanto lasicarsi ispirare, ma quasi trovare salvezza – ma, è giusto, nei suoi tempi.
E rispetto alla specie – c’è chi va avanti, chi si ferma, chi va per altre vie – la memoria e la Musa si estingueranno con essa, poichè che Bran lo voglia o meno, svanito il canto, morta la danza, diviene evanescente ogni cosa.
anche questo passo è molto bello.
Inoltre, i filologi sono soliti attribuire, come se avessero capacità divinatorie o prendessero le loro categorie come tali, a questo o a quell’altro ciò che risulta dalle loro elucubrazioni.
Ad ogni modo, io me ne tengo lontano, preferisco leggere canti – diciamo opere – direttamente, senza filtro, magari dopo per il gusto dell’agone vado vedere qualcuno di questi filologi che dice, ma a volte è tale il disgusto, che preferisco amntenere le distanze.
“-…non erano ancora giunte sull’Elicona dalla Pieria le Muse. Non erano ancora Nove, ma tre ed avevano nome di Meditazione, Memoria e Canto- Così rispose Bran al poeta che lo scorse malgrado fosse celato come l’ombra fra grovigli di erica”
Dal Libro Rosso di Bran, divinità fluviale
di Anonimo
Meditazione? Quale divinità, tua pari, Bran ha bisogno di meditare?
E poi, Bran, sarà che io sono un semplice uomo e quindi non riesco a comprendere un grado di conosenza e di distanza divini, fluviali. E proprio per questo, per la distanza che ci separa – e di cui tu perdonerai la mia connotazione tutta umana – io voglio risponderti oggi con un passo, che nella tua scorrevole sapieza già conoscerai:
“…quando le Muse, passati tre cicli di Luna, giunsero ai piedi del Padre Zeus, egli stava danzando – si, proprio così danzando, come erano solite le donne del Corteo di Dioniso – con la loro stessa madre, Mnemosyne. Le Muse, all’istante, rimasero sbalordite. Poi la madre le rimbrottò, quando s’accorse che queste stavano là, ferme mute e vestite. “Come pretendete di essere sue e mie figlie, se non danzate? Voi guidereste gli uomini a compiere passi tra pensieri tremendi, e mostrereste loro come si danza, come si diventa leggeri!”. Zeus rise della severità materna. Infine, svestite le figlie e formato un cerchio, queste iniziarono a danzare… A sera, poi, sazi di danza, mangiarono e, poco prima di andare a dormire Zeus disse loro: “Figlie mie, non c’è cosa più bella della danza, insegnate ai poeti a danzare, ancora prima che a cantare.””
Anonimo del Sottile
“Tutto svanirà con l’ultima nota del canto, anche le divinità. Ma a noi il dopo non interessa. Interessa solo questo hic et nunc, questo esserci che è la vita. La stirpe degli uomini, per quanto mi riguarda, può anche estinguersi subito” Così rispose Bran, indossata carne mortale, a un umile mugnaio che, ritenendolo saggio, gli chiese “Lì dove finisce la vita, che cosa comincia?”.
ibidem;
“Non si confonda l’unico dio onnipotente del patriarcato ebraico con le divinità dell’Olimpo pagano”. Gracchiò il corvo dai rami torti d’un ontano. “Ciascun uomo in terra è Dio-per-se-stesso e ha molto su cui meditare. (Bran è arrogante con gli arroganti, anzi crudele). Le muse ai suoi tempi erano tre e già danzavano attorno a un’erma di pietra presso i boschi di Tespie, mentre suo figlio succhiava latte dal seno di Rea a Ditte, presso Cnosso, nascosto dal fragore dei tamburi Cureti”
Dal Libro del Domani, o del Corvo Nero di Bran,
di Ne Ver Mor bardo fuorilegge
Bran, può darsi – anche se a me pare certo – che l’arroganza (o crudeltà) non sia, come la poni tu, un fatto morale.
Si vede, come ho già detto prima, che la mia natura tutta umana non arriva al tuo grado di conoscenza delle cose, dato il tono imperioso e insieme ridicolo con cui le esprimi. Se ho parlato di divinità era per farti il verso, perché di queste mi interessa solo il loro aspetto metonimico e non quello divino, che invece a te pare stare tanto a cuore, quando mi suggerisci di non confondere Dio e Olimpo (proprio a me, tra l’altro, lo vieni a dire!).
La Memoria, Bran del Fiume, è la più crudele.
“In che modo rispondere a ridicole provocazioni se non con ridicole finzioni? Finzioni a cui dedichiamo, tra l’altro, le migliori energie della vita… la chiamiamo arte e invece è solo un grumo di ansie prevaricatrici irrisolte da quanto vedo. Bran sta solo giocando. Non ve la prendete a male. Non voleva far sfoggio di alcuna cultura superiore, di cui tra l’altro dubita profondamente. Dovete essere i soli a giocare? A divertirvi? A ridere? o peggio ancora.. a rivendicare le proprie convinzioni? Non siete gli unici a saper restare bambini egoisti con un unico punto di vista da difendere ciecamente fino alla morte. Siate democratici una volta tanto. Il tono imperioso è un tono che vuoi vedere tu in tali innocue finzioni.
A me stanno a cuore le divinità in tutta la loro complessità, perché non sono altro che simboli di precisi passi nella storia dell’umanità. Da qui l’identificazione giocosa con un dio fluviale. Non era certo per magnificare un essere che nutre dubbi continui su se stesso e, di conseguenza, sugli altri, come dovresti ben sapere.
Credevo di essere l’unico dalla coda infiammabile…
Grazie a voi Bran si sente meno solo.
Viva gli amici.”
Dal Libro delle Loffe, di Gioelena
PS: quel “proprio a me?” tradisce una boria che attribuisci agli altri ma che tu stesso detieni…
Ah Bran! Questo è parlare, finalmente!
Mi hai dato una grande gioia. Io sono stato al gioco, ho voluto tentare di colpire là dove mi pareva che la tua coda avrebbe bruciato più facilmente. E sì, anche io, in tutto questo tempo me la sono fatta crescere una bella coda.
La boria la deteniamo entrambi, quando si tratta di difendersi, mi pare, soprattutto in tema di gioco.
Viva gli amici!
Anche io, ammetto, così mi sento molto meno solo.
A proposito di boria, qui c’è un passo essenziale che dice molto della boria eccitata d’un dio. Ma lei m’insegna che un dio che si rispetti non ha mai un’unica ragione… E proprio vero che i poeti invece di misurarsi le lunghezze dei genitali si misurano le lunghezze delle code…. Vale
“Così Bran decise di scendere dalle vette e mescolarsi alla gente per scoprire cosa si provasse ad essere un uomo. Prosperò e fece ricca la sua casa grazie ad affari proficui. Da dio non aveva mai sperimentato l’invidia, ma sedendo fra gli uomini e ascoltandone i discorsi, facendo attenzione a ciò che per loro era importante, scoprì che coloro che facilmente tacciano d’invidia gli altri, sono in realtà essi stessi cronicamente invidiosi, estremamente pericolosi perché in virtù della loro minore fortuna si sentono in diritto di tramare ed agire in maniera da limitare quella altrui. Un compagno di Bran, un buon uomo che eccelleva nell’arte vasaia, non fu immune da tale morbo e nel vedere che gli affari del dio prosperavano, sebbene amico, da svantaggiato che era, si sentì legittimato a indirizzare un po’ di fortuna verso se stesso calunniando o svelando qualche scabro particolare della vita dell’amico ignaro alla gente del piccolo villaggio, che sempre più amava quest’ultimo per i suoi promettenti successi. Il vasaio, inoltre, aveva una donna che doveva continuamente rassicurarlo sull’essere in tutto migliore di Bran e di ogni altro uomo sulla faccia della terra, ed ella stessa avrebbe voluto vedere il dio in rovina, mendicare elemosine alle porte della città… molto probabilmente perché la sua bellezza costruita e vacua non aveva dato segno di colpire il dio, che preferiva divertirsi con femmine genuine, meno ambiziose di potere e gloria, donne di sangue, capaci di fargli sentire il calore della vita rotolandosi con lui in un letto di foglie e di terra, che non adulavano, blandivano doppiamente e non avevano bisogno di orpelli per esser sempre belle, anche quando brutte. Quelle erano le donne che Bran amò perdutamente e che sempre gli fecero considerare gli uomini fortunati di esistere in un mondo così ben popolato.
La moglie del vasaio s’impegnò a suo modo a disarcionare Bran dal cavallo di fortuna su cui sedeva, favorendo il suo uomo sempre più smaliziato e ambizioso di ricchezza e potere. Più la sua donna ne accresceva la forza, più come un parassita egli sfruttava tale energia per giacere con altre: più mangiava, più sentiva di non poter colmare la sua fame. Il suo mestiere di vasaio non gli bastava più, ora voleva insinuarsi nella buona fede dell’amico per ottenere un prestito con cui comprare della terra coltivabile lungo il fiume, metterci dei mezzadri dentro e fare in modo di accrescere la sua ricchezza vendendo in città i frutti della terra. Cominciò a disprezzare Bran per la sua apparente ingenuità e si convinse che un ingenuo si merita di essere imbrogliato. Così a parole badava bene di restare nella sua fiducia e scordava di fare attenzione alle cose che faceva, ben più difficili da nascondere, convinto che a Bran, come alla maggior parte degli esseri umani, bastassero parole pronunciate volontariamente per credere che corrispondessero a realtà. Non sapeva che Bran di parole non sapeva che farsene, non aveva nessuna fiducia in parole che non fossero canti. Dietro l’umano sembiante si celava pur sempre la bestia e la bestia non crede alle parole che servono per scalare specchi, crede solo a quello che sente: il suo istinto. Così, via via, Bran l’idiota lasciò che la scollatura fra le parole e i gesti del vasaio si facesse sempre più acuta fino a diventare una crepa irrecuperabile. Curò questo spacco come una piccola pianta, alimentò questa distanza e la pestò fino a far montare nel mortaio del cuore un tremendo desiderio di vendetta. Il vasaio aveva cercato di portare via a Bran molti dei suoi attributi, tanto che quando il dio ritornò nelle azzurre lontananze dei boschi e da una fonte sacra rimirò la vita del villaggio senza di lui, vide che il vasaio aveva assunto i tratti più gentili che erano stati suoi propri, e, viceversa, egli aveva assunto i tratti del vasaio che era abitualmente inquieto, polemico e sempre scontento di non aver ricevuto il giusto dalla vita, sempre pronto a reclamare su tutto i suoi diritti, come se fosse l’unico uomo sulla terra a fare sacrifici per migliorare la propria condizione.
Bran guardò in fondo al cuore del vasaio e ne restò disgustato. Ed anche per questo, ma non solo -un dio non ha mai una sola ragione- decise di far perdere agli uomini per un pò le tracce dietro di se, seguì le piste dei corvi e tornò a rinfrancare il suo cuore vasto e vibrante di tamburo lungo le rive d’argento dell’Alento.
La gente ignara si chiedeva dove fosse finito Bran. Inventarono di tutto per giustificarsi la sua scomparsa. A qualche donna di poco conto, e per questo tanto più vanitosa , piacque, o forse servì, credere che la sua scomparsa dipendesse da un amore finito male. Qualche altra invece ipotizzò che avesse finalmente trovato la sua Musa, e che con essa fosse andato a godere dell’amore, al di fuori del tempo e dello spazio, senza lasciar traccia.
Il vasaio, liberato il campo da un vicino tanto ingombrante che non faceva nulla per essere amato se non esistere, si premurò subito di comunicare alla gente che il suo amico aveva fatto un affare sbagliato, che si era ridotto in miseria e per la vergogna era dovuto scappare in città a vivere di elemosine. Si dimostrò addolorato per la sua sorte, sinceramente dispiaciuto, millantò una sensibilità e una delicatezza d’animo che gli erano sconosciute, pianse dicendosi profondamente toccato dalle sorti avverse dell’amico a cui avrebbe voluto tendere volentieri una mano… ma tutti in villaggio sapevano quanto orgoglioso e caparbio fosse quell’uomo, quanto difficilmente si sarebbe lasciato aiutare . Una mano amica e una parola gentile non sarebbero mai arrivate se non mosse da privato tornaconto, almeno nel caso del vasaio. La donna dell’uomo era pienamente soddisfatta della scomparsa di Bran e, malgrado sapesse dei numerosi tradimenti di suo marito, continuava ad accettare supinamente e ad accrescerne l’ ego smisurato… egli in virtù di ciò, e senza chiedersi nemmeno da dove gli venisse questa forza, continuamente adulato e montato, diveniva sempre più buontempone e pieno di sé: sentiva che il mondo gli apparteneva e non teneva conto degli sforzi altrui che gli garantivano quella posizione privilegiata. A sua moglie allora importava intanto di aver abbattuto l’ascesa di Bran a causa del disinteresse che egli le aveva dimostrato e che ella prontamente aveva interpretato come arroganza, villania. Volle riprendersi ciò che lei stessa aveva creduto di dargli incoraggiandolo in un primo momento quando entrò in affari… in più anni addietro, vedendolo arrivare per la prima volta al villaggio, aveva fatto a gara con le altre donne per farsi notare, si spianò la strada sbarazzandosi grossolanamente delle altre concorrenti. Bran aveva notato la cosa e aveva riso tra sé della sua vanità che nulla aveva a che vedere con la rinomata civetteria della Musa e si disse: “Questa non è una domina, ma nient’altro che una donnicciola insicura. Non vuole cavare dal cuore d’un uomo nessuna parola alata, non vuole ispirare alcuna vertigine, ma desidera solo lodi per sé, che l’aiutino a sopportare meglio la sua inadeguatezza: ha bisogno di un bugiardo, non di un uomo. Nessun vero poeta pascerà dal suo seno ”. E la salutò educatamente, tenendo chiusi nello scrigno della mente i suoi pensieri più profondi: è così che si prospera fra gli uomini, e la donna lo sa bene. Solo gli eroi e gli idioti, fra gli uomini, possono permettersi di rovesciare il sacco del cuore innanzi agli altri… poi ci sono gli dei, ma questa è ben altra storia.
Bran decise di punire l’amico vasaio che aveva amato come suo pari trasformandolo in vampiro e svelandone così la reale natura. Il vasaio infatti andava rafforzando il proprio mito affermando di essere un uomo sincero, ma la sua sincerità non consisteva altro che nell’emettere sguardi e sentenze squalificanti, masticando le reputazioni altrui e le loro sensibilità a vantaggio della propria: l’unica che gli stesse a cuore veramente. Così spacciava la sua smania prevaricatrice per severità. Il suo modo di vedere le cose era tremendamente banalizzante e nulla aveva a che vedere con la buona fede e con l’ esemplare sensibilità di cui si vantava fra la gente, immiserendola, proprio perché verbalizzata, qualora davvero ci fosse stata. Fu contro questa menzogna che il vasaio raccontava a se stesso per primo, ormai assuefatto all’idea della sua giustezza, drogato di se stesso, e non contro il gesto prevaricatore che il dio si scagliò. -Un dio che si rispetti è sempre immorale e soprattutto vendicativo-. “E’ legge naturale che ogni cosa abbia un costo e si arriva lontano solo calpestando un gran numero di cadaveri” disse un giorno il vasaio a Bran che maliziosamente marcò a fuoco tali insegnamenti sul suo cuore: questa fu la cosa più importante che un uomo insegnò mai a un dio, e il dio, appreso il nuovo balocco volle subito divertircisi un po’ e, sentitosi autorizzato dal comune costume dell’essere umano, insegnatogli tra l’altro da un amico che non lo aveva risparmiato, cominciò a gustare i divertimenti di questo nuovo spasso, ma, a lui era concesso di farlo senza fingere di essere ciò che non era.”
Dal Libro rosso di Bran, divinità fluviale
di Anonimo.
Querido Bran, le tue vicende mi seducono
Questo passo è emozionante.
“…fugati i malintesi e apprezzatene le code, Bran offrì idromele all’arabo e all’ispanico”
dai Passaggi, di Ino Wulf
Vino, Bran, vino per noi. Corroborante e robusto.
La mia coda val bene un idromele, grazie Bran. Al primo passaggio di caravana risalirò il fiume carico di nettare altamente fermantato, per te e per l’ispanico, come si deve e come sempre s’è fatto.
Ieri notte Gher Hard, portatore di lancia, sciamano illuminato dal dio Bran, ebbe le risposte alle domande che un tempo l’arabico Farhidi gli pose riguardo a musica e canto e, prendendo spunto dalle più recenti vicende, in preda all’estasi muscaria, -che viaggio fratelli!-, le incise sul tronco d’una quercia per salvarle dall’assalto del tempo:
“E Bran sorrise quando ebbe scovato una breccia nella vanità del poeta. Il poeta è disposto a ridere di tutto, meno che dei suoi ferri del mestiere e se non lo facesse, probabilmente non sarebbe vero poeta. Messi in discussione quelli, ecco una nuvola che lo rabbuia, gli monta un capriccio ed allenta il sarcasmo, eccolo farsi serio e venire fuori dal guscio come animale braccato. (Eppure è solo in questi momenti che si fa un reale passo avanti, si esce da sé e si apprende).“Viva,” si disse Bran “Anch’egli è di sangue, come io stesso fui.”
Per arrivare a ciò il dio mischiò verità a menzogna, come si deve, e insinuò un esile dubbio fra le solide certezze del poeta: le Muse insegnarono all’uomo per prima cosa a meditare, a distillare la goccia d’umore più puro con cui tessere il canto da offrire alla comunità per stornare da essa il male e rendere fecondi i campi e le messi. Meditare è scegliere. Molto male in sé deve raccogliere il poeta per succhiarlo come fosse veleno di serpe via dalle ferite del villaggio. Quanta solitudine, quanto buio, che lunga caccia e quanti pericoli prima di poter scendere fra gli uomini ed intonare il canto liberatore… Per arrivare a distillare quella preziosa essenza c’è bisogno di duro lavoro, molto buio e silenzio, una perfetta sintonia con le voci dell’universo che troppo spesso sono soffocate dal cianciare umano, evitare gli errori di mira non è cosa facile per chi, come il poeta, ama l’umanità tanto profondamente da essere incline a comprendere e tollerare fino a lasciarsene influenzare, accogliendo col buono anche il peggio di essa, ben più facile ad attecchire.
La memoria al poeta serve non solo a spiegare il suo canto in un alveo sicuro, in questo, si sa, è soccorsa dalla tecnica, dall’artigianato, e tutta la sua trama è sostenuta da rime, assonanze ed altre ingegnosità atte a favorirne il respiro oltre che il ricordo, sempre affinché , il canto, giunga al fondo del suo scopo. Non finisce qui. La memoria è lo scudo del poeta che serve a non lasciarsi colonizzare dalle tesi più urgenti, spesso avventate, se non del tutto errate, dai mali meno gravi da stornare. La memoria serve al poeta per ricordare chi è, qual è la sua storia e quella della tribù a cui appartiene. Aiuta a non “colpire a casaccio”. “Incontrerai uomini che non conoscono le vie del canto, giudicheranno da prospettive irrilevanti, e tenteranno di fare come l’onda che s’abbatte su un castello di sabbia. Se la memoria non è salda e pronta riusciranno a travolgere il castello e in virtù del numero, dell’ottusa ostinazione, ignorante presunzione, degradandolo,uccideranno il canto e con esso se stessi. La memoria è l’ingrediente che trasforma la sabbia in roccia, che resiste agli schianti degli elementi, ai disastri del tempo. Ciascuno potrebbe mischiare le carte a suo piacimento e di goccia in goccia allontanare dall’unica vera ragione la migliore energia del poeta. Un poeta che si rispetti non può permettere che questo avvenga. Vada in fiamme tutto, ma si salvi la memoria di sé, della propria gente, delle proprie code!”. Così dissero le Muse a Bran, ansioso di avere un poeta che ne cantasse la grandezza.
Il canto infine. L’unica legge del vero poeta-cantore non è un affare muscolare, di palestra… ma una profonda convinzione – e conoscenza dunque- delle proprie tesi, della storia di cui si è al servizio. Credetemi, non conta altro. Si chieda a Omero, si fumi con Dylan. Che poi resti del tempo per l’artigianato, ben venga: aiuterà chi ne ha bisogno. Qui non si parla nemmeno d’arte, si badi. Vogliamo ridurre il canto a un mero fatto estetico? Ne staremmo castrando il grosso membro fecondatore, distolti da abilità tecniche massificanti che si apprendono al giogo del paramilitarismo accademico, delle scuole, del fumo corruttore di gesti ampi ed esosi: staremmo privando il canto delle sue più autentiche, segrete e potenti facoltà. Un canto sana, un canto uccide, non si ammira come una puledra al mercato. Feconda i campi e le menti, saluta l’accendersi della Primavera, lo custodisce, schiude i cuori e fa abbandonare i viventi all’eterna danza d’amore che assicura la vita a ogni specie. Il canto protegge tutto questo. E’ prima del vino che conserva in sé la forza della vite, aiutata nel suo rigoglio dalla musica rituale. E’ prima del mondo, se è vero che esso fu emanato da una sostanza acustica.
Precisione, perfezione, sono termini di cui il menestrello (poeta-cantore) ride. Lasciamo alle scuole dei bardi questi volgari professionismi che servono a dilettare ignoranti avvezzi al consumo di musica e canti quasi fossero petti di quaglie, cosce d’agnello, coppe di vino. Lasciamoci inebriare e scuotere dal sanguigno mistero della musica, madre della danza, che dilaga e penetra come l’acqua d’un fiume nel terreno poroso del nostro esistere e scende giù caparbiamente, sempre più, fino a bagnare, nutrire, e proteggerci dalla punta delle buie radici al verde più luminoso delle nuove gemme.”
continua.(?)
Dal Libro Rosso di Bran, divinità fluviale
di Anonimo
ps: Quijano, e vino sia, per lei anche tutta la vigna.
“Il male del tempo è vivere i saperi come acquisizioni, specializzazioni, credere che ci appartengano esclusivamente. Non lo pretendiamo più dall’amore… come potremmo pretenderlo dalla cultura? Magnifica troia…”
“E’ fiducia che devi avere, Bran. Più fiducia e più fodere sugli occhi…”
“La fiducia, come tutto il resto, è qualcosa che si merita.”
“Non sei sincero.”
“Non lo sono mai stato, ieri per non ferire chi amavo, oggi perché so che non serve. Il mio grido più intimo sarà tacciato d’artificio. A che serve la fiducia, se per un poco di bene si è disposti a tradire?
Pasciano tutti nelle loro menzogne, io lo farò nelle mie. Ma sul canto, questo posso giurarlo, non ho mai mentito. Parola di dio.”
Dal Libro Rosso di Bran, divinità fluviale
di Anonimo
Parla l’Artificio:
“Buondì poeta. Ho dormito nel letto caldo degli artisti. Gli ho suggerito parole ad effetto solo per disturbare il tuo naso sapiente, non certo per difendere dalle iene ciò che ognuno di essi ingenuamente mette in piazza. Si, si. Ho voluto proprio darti una nausea e nient’altro. A me non basta molto. Esperto come sei di cose genuine, mi perdonerai se ho osato tanto, ma vedi: a volte il cuore trabocca, e ha bisogno di raccontarsi oltre il semplice giro di una lacrima. Speravo capissi, poeta. Ma probabilmente anche a te stava bene che restassi lì dove la vita coi suoi sgambetti mi piegò. Non lo nascosi fidando. Ma so rialzarmi, poeta, e scovare ben altri artifici che i miei nei gesti degli uomini che, tu ci creda o meno, continuo ad amare, ma con una più amara consapevolezza che da me più non si diparte. Vorrei poter tornare ad essere come un tempo, poeta: ignaro della bassezza. Ma non posso. E così invento trame fasulle ai motivi dei cantori e a continuare ad aprirti il mio cuore proprio perché non ho di meglio da fare.”
Dal Libro degli artifici di Bran, divinità fluviale
di Anonimo