- Una vasta provincia
di orrori
sottratti alla parola.
Questa sarebbe bellezza? - Ci vuole una nobile disperazione o barbarica rassegnazione anche per mandare tutto a puttane.
- E’ la mano quel che conta. Stringere il collo del poeta, farlo tacere (magna res subducta) fino a un certo punto.
- Su Moresco (Canti del caos). C’è una potenza, una forza che generata dalla disperazione – e per liberarsene – diventa qualcos’altro. A me piace chiamarla: la virtù dell’onda. La capacità di sbattere e non recriminare per il dolore. Non la resistenza del naufrago, ma l’onda, il mare (flusso e rilusso) che trascina il naufrago, silenzioso, fino a rompere il suo guscio di dolore, fino a metterglielo tutto davanti, il dolore, bello e pulsante e anche orribile.
- Talvolta lo sento crescere, ramificarsi nelle regioni dell’accaduto e dell’accadere. Il canto, dico. Come vengono fuori le immagini, come germogliano? Il canto sono schiarite o tempeste o torpori oppure…? Si apre e si squarcia la visione o si squarcia e disperde? Ancora di più o è ancora troppo poco e quindi…? Ciò che conta è che vade in alto, in basso, in diagonale e che sia attraversato da altrettante “cose che vanno”? Una direzione non è come un’illusione? Se è così, che siano mille o di più, in numero crescente, inarrestabile!
- “E paragonò mentalmente il campanile del suo paese con quella torre lassù. L’altra, quella del paese, era una torre risoluta, saliva senza esitazioni, rastremata, fino all’ampio tetto di tegole rosse: un edificio terreno, sì – che altro potremmo costruire? – però con maggiori pretese di quell’accozzaglia di case basse, e con un’impronta più nitida di quella conferita dalla banalità quotidiana. (F. Kafka, Il Castello – Primo capitolo, Arrivo)
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