Due movimenti di Borges: in un’intervista con Arbasino – l’imbarazzante leggerezza dell’argentino, il passo felpato di chi ha smesso di camminare nei labirinti, e l’imbarazzante domanda sul realismo dell’italianissimo Arbasino, elegantissimo, che dà la misura dell’arretratezza culturale dell’Italia letteraria, che ancora oggi ci appesantisce con gli italianissimi revival mortuari.
Citazioni. La citazione da Borges, perché altrimenti si prendono sempre per generali certe considerazioni (come quella appena espressa). Da “Abbozzo di autobiografia” (in Elogio dell’ombra, Einaudi, 1977):
Nel 1946, un presidente il cui nome non voglio ricordare salì al potere. Un giorno, poco tempo dopo, mi fu data la bella notizia che non avrei più lavorato nella biblioteca ma che ero stato «promosso» a ispettore di polli e conigli ai mercati. Andai in Municipio a chiedere informazioni. – Sentite un po’, – dissi, mi sembra molto strano che fra tutti i miei colleghi della biblioteca abbiano scelto proprio me per questo nuovo posto. – Be’, – rispose l’impiegato – lei era dalla parte degli Alleati. Che cosa si aspettava? – Era inutile rispondere; il giorno dopo diedi le dimissioni. (pag 175)
Ogni volta che leggo qualcosa contro di me, non solo condivido i sentimenti di chi l’ha scritto, ma sono certo che io potrei farlo molto meglio. Forse dovrei consigliare i sedicenti nemici di mandarmi anticipatamente le loro lagnanze, dietro assicurazione che riceveranno tutti il mio aiuto e la mia comprensione. Ho perfino segretamente desiderato di scrivere, sotto pseudonimo, una spietata diatriba contro di me. Ah, le semplici verità che nascondo! (pag. 190)

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Mi viene in mente l’adagio di Calvino delle Lezioni americane, mentre leggo l’Abbozzo di autobiografia di J. L. Borges, e vedo la spocchiosità dell’italiano medio e la sua prerogativa alla categoria.
Mi viene in mente che negli anni del boom economico (che non è coinciso in Italia con un boom culturale qualitativo) la letteratura è proseguita nei bar di Roma e nelle borgate o nei vicoli di Napoli a consumare le dita sui mandolini e le pizze o nei circoli letterari di Milano, in cui non ho mai ben capito che cosa si facesse, o nelle critiche manieristiche degli intellettuali ai loro consimili, che sognavano di essere socialisti francesi, anarchici francesi, rivoluzionari francesi (se la Rivoluzione fosse accaduta in Italia, qualcuno avrebbe sognato che fosse accaduta in Francia).
Infine, mi viene in mente che la finzione non è un tratto peculiare della nostra letteratura, come non lo è la libertà dal realismo, dalle avanguardie storiche, dai piaceri in cambio di qualcosa, dalla ritrosia al dialogo, perché prima l’Io poi tutto il resto, dalla psicologia tout court, da una certa infrastruttura poetica e editoriale, che tende a favorire se stessa – e quindi mi chiedo: e l’esempio francese?

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Eppure il presente parla una lingua diversa, no? Ci offre quella speranza… no. Il presente è una lezione sull’essere autoreferenziali. Se è un po’ decaduto il romanzo psicologico, va alla grande il romanzo-finzione in cui l’autore celebra la sua vita o, fingendo che il protagonista non è egli stesso, sebbene si chiami proprio come lui, dissacra il reale, si scaglia contro questo come se il reale fosse qualcosa, fosse il fatto. Fino agli anni ’80 c’erano gli ideali, le parole chiave in cui credere e da lanciare in ogni discorso, in modo tale da rendere il discorso stesso fondato. C’erano gli scrittori politici, i critici politici (di matrice comunista, perché i fascisti si sa che non sanno scrivere, forse neanche leggere). Poi, il declino inesorabile: Carmelo Bene al Maurizio Costanzo Show che urla cose heideggeriane e permette al D’Agostino di turno di prenderlo per il culo. Emblema Bene, che ritorna oggi epurato e svincolato, che si fa sentire nell’elegie di Facebook, nei post dei blog di rinomati editor e curatori di edizioni, nonché scrittori. Si amplifica quindi il cliché di “scrittore e giornalista” e si passa a “scrittore-editor-blogger-giornalista-Carmelo Bene”.

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Oppure siamo nel VI canto del Purgatorio e insieme a Dante, come in uno coro di stadio, mentre la squadra del cuore fallisce il rigore, cantiamo:

 Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:

tu ricca, tu con pace, e tu con senno!

S’io dico ‘l ver, l’effetto nol nasconde.

Atene e Lacedemona, che fenno

l’antiche leggi e furon sì civili,

fecero al viver bene un piccolo cenno

verso di te, che fai tanto sottili

provedimenti, ch’a mezzo novembre

non giungne quel che tu d’ottobre fili.

Quante volte, del tempo che rimembre,

legge, moneta, officio e costume

hai tu mutato, e rinovate membre!

E se ben ti ricordi e vedi lume,

vedrai te simigliante a quella inferma

che non può trovar posa in su le piume,

ma con dar volta suo dolore scherma.