- Come dire che forse la credenza nell’individuo è fallace, quanto la credenza nella società, nei paesi, nelle epoche, nelle scuole. Che evidentemente è falsa. (J. L. Borges, Il secondo rinascimento o Ragnarök)
- Non si conoscono troppe cose sull’arte. Si pensa e si agisce come se bisognasse a tutti i costi trovarsi dentro qualcosa (la società, un movimento politico o ancora per assurdo la realtà). Io non sto da nessuna parte, scentrato, dislocato.
- Leggevi perché a quelle cose scritte concedevi il diritto di trascinarti fuori dalla realtà, dal vissuto. Una lettura violenta, quasi rappresentasse una repressione, mentre era l’arma con cui combattevi il mostro, il gigante e il mulino a vento.
- Ci si aspetta sempre che la fine sia qualcosa in più, che faccia vacillare la nostra certezza terrena. Ma che le cose finiscono, è l’unica certezza che abbiamo. Sic.
- Ci sono dei processi mentali che, definiti propri dell’inconscio, hanno generato la superstizione che qualcuno abiti nel corpo dell’uomo, come se il corpo fosse di colpo diventato un condominio, e che farebbe dell’uomo non un abitante ma un abitato (e nella forma mistico-cristiana un visitato). In fondo, se a queste interpretazioni abitative/entusiastiche si sottrae l’aspetto inconsapevole, da cui si credono generate, e lo si sostituisce con la memoria (propriamente la capacità di tirare fuori immagini volontariamente), ecco che anche dietro il più incomprensibile ricordo non si cercherà una mano occulta, bensì si accetterà la cosa (questo affiorare di immagini) come un dato di fatto.
- Lo stupore davanti all’ammissione “io sono me stesso” è non solo stupido, ma rivoltante. Che cosa vorresti essere?
Bisogna smettere di credere ai fantasmi che crea la mente, partendo dal fatto che, essendo la mente stessa a crearli, li generi per sé, da cui si potrebbe dire: ciò che è per sé (in sé) è fuori di me, poiché io sono in me, pur essendo capace di intendere l’in-sé, che io stesso ho inventato.
In pratica accetto me stesso solo in cambio di uno specchio che raddoppi la mia solitudine, ossia la mia capacità di percepirmi in quanto me stesso.
E lo stupore?
- Leggo pensieri che, pur affascinandomi (entusiasmandomi), non capisco, non li penetro immediatamente, come se la loro forma espressiva agisse da schermo protettivo, che si oppone al grimaldello dell’intelligenza, ammesso che ce ne sia! (O piede di porco! Chi ancora crede all’innocenza dello scrittore?).
L’intelligenza (o il risultato della mia, ammessa che esista) colpisce scalfendo il pensiero, raramente trova noccioli poco resistenti (per lo più giovani mollicci e umidi) e li penetra fino a sottrare loro il segreto del seme. Ma schegge su altre schegge è la mia ricompensa. E nelle schegge di pensiero, lucidi frammenti di specchio, io mi illudo di aver inteso il fondo e più fondo insondato, invece vedo solo il riflesso, la parola e i suoi giochi. Allora mi dico che bisogna usare l’intelligenza-ammessa-che-esista come un filo sottile che faccia scattare la serratura del pensiero e lo costringa a farsi fuori e mi mostri la sua corteccia (il pensiero è corteccia elettrica), ciò che lo rappresenta e lo significa.
- Erro così, ché sonno soave sopra i miei occhi non siede; ho la guerra nel cuore, lo strazio degli Achei. (Iliade, X 91 – 92, parla Agamennone)
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