Mio fratello Alonso Quijano Oplontis, qualche tempo fa, ha disseppellito la Genealogia della morale, del buon maestro Cavallo Pazzo.
Ora, in questo stesso libro c’è un accenno (come una soluzione o una domanda posta bene) al problema di cui, nel post riproposto, si discute: l’intera questione della categoria “egoismo”. Seppure nel libro di Dawkins Il gene egoista è fatto chiaro fin dall’inizio che la dicotomia egoista/altruista è cosa funzionale (divulgativa) pìù che scientifica, il peso che questa stessa dicotomia assume nel corso degli argomenti resta significativo, inficiante (è il filtro o il tramite attraverso cui il libro intende parlare ai lettori, il simbolo principale).
Questo il passo di Cavallo Pazzo a fare luce sull’argomento:
Tutto il nostro rispetto per i buoni demoni che possono dominare in questi storici della morale [gli Inglesi]! […] Tutti quanti costoro, com’è ormai antico costume dei filosofi, pensano in maniera essenzialmente antistorica […] Fin da principio risulta subito chiara la grossolana faciloneria della loro genealogia della morale, là dove si tratta di determinare l’origine del concetto e del giudizio di ‘buono’. “Originariamente – decretano costoro – si sono lodate, e chiamate buone, azioni non egoistiche da parte di quelli nei cui riguardi venivano compiute, dunque ai quali esse tornavano utili: più tardi questa origine della lode è andata in oblio e le azioni non egoistiche, per il semplice fatto che venivano sempre lodate come buone in conformità alla consuetudine, come se in se stesse fosse qualcosa di buono”. Si nota immediatamente che questa prima deduzione racchiude già tutti i tipici tratti dell’idiosincrasia degli psicologi inglesi – abbiamo “l’utilità”, “l’oblio”, “l’abitudine” e infine “l’errore”; tutto messo a base di una valutazione, di cui l’uomo superiore è andato fino a oggi superbo, come di una specie di privilegio dell’uomo in generale. Questa superbia deve essere umiliata, questa valutazione deve essere destituita di valore: siamo arrivati a questo? Orbene, per me è in primo luogo un fatto palmare che da parte di questa teoria viene ricercato e collocato in una sede erronea il fulcro nativo del concetto di “buono”: il giudizio di “buono” non procede da coloro ai quali viene data prova di “bontà”! Sono stati invece gli stessi “buoni”, vale a dire i nobili, i potenti, gli uomini di condizione superiore e di elevato sentire ad avere avvertito e determinato se stessi come buoni […] in contrasto a tutto quanto è ignobile e d’ignobile sentire, volgare e plebeo. […] Il pathos della nobiltà e della distanza, il perdurante e dominante sentimento fondamentale e totale di una superiore schiatta egemonica in rapporto a una schiatta inferiore, a un “sotto” – è questa l’origine dell’opposizione tra “buono” e “cattivo”. A quest’origine è dovuto il fatto che la parola “buono” non si ricollega affatto necessariamente, aprioristicamente, ad azioni “non egoistiche” […] Accade invece che soltanto con il declinare degli apprezzamenti aristocratici di valore si sia imposta sempre di pìù, nella coscienza umana, questa totale opposizione di “egoistico” e “non egoistico” – si tratta, per usare il mio linguaggio, dell’istinto d’armento che con essa acquista infine parola (e anche parole). E anche dopo ci vorrà ancora molto tempo perché questo istinto diventi padrone in maniera tale che l’apprezzamento morale dei valori resti addirittura agganciato e inchiodato a questo contrasto.
(Cavallo Pazzo, Genealogia della Morale, Buono e malvagio, buono e cattivo, paragrafo 2; di Alfharidi le sottolineature ed i qualche buchi nella citazione).
E da maggiori che non siano stati tutti i redentori, voi dovete, fratelli, esere redenti, se volete trovare la via verso la libertà!
Ancora non è esistito un superuomo. Io li ho visti tutti e ue nudi, l’uomo più grande e il più meschino: –
Sono ancora toppo simili l’uno all’altro. In verità anche il più grande io l’ho trovato – troppo umano!
Così parlò Zarathustra.
(Dei preti)